Mentre continuano le consultazioni per la formazione del nuovo
Governo, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) fa sentire la sua voce
con una serie di studi che disegnano l’Italia di domani. Per chi non lo
sapesse, il FMI è uno degli attori che di fatto determinano gli
indirizzi di governo delle economie mondiali. Recentemente è tornato a raccomandare per
l’Italia dosi abbondanti di austerità, abbinate a provvedimenti fiscali
iniqui e vergognosamente a favore delle classi dominanti. Purtroppo non
finisce qui.
Per espiare le nostre presunte colpe, apparentemente ci sono altri compiti a casa da fare. Come si può leggere in due recenti contributi (questo e questo) del FMI, l’Italia avrebbe “ulteriori” benefici da una radicale riforma del sistema di contrattazione collettiva vigente, che riduca la portata della medesima dal livello settoriale nazionale a quello aziendale.
Che cos’è la contrattazione collettiva? È quello strumento attraverso il quale le parti sociali (sindacati dei lavoratori ed associazioni padronali) negoziano dei contratti collettivi che coprono gli aspetti retributivi e regolamentari del rapporto di lavoro. Una volta firmato, il contratto collettivo garantisce e si applica in generale a tutti i lavoratori ai quali si riferisce, anche al lavoratore non iscritto ad alcun sindacato o che lavora in un’azienda che non aderisce a nessuna organizzazione dei datori di lavoro. Allo stato attuale, la negoziazione avviene a livello di settore produttivo (per esempio l’industria chimica, l’industria metalmeccanica etc.). La logica di questo approccio, previsto dalla nostra Costituzione, è piuttosto chiara e cerca di assicurare un livello minimo di tutela (e di equità nella retribuzione) a tutti i lavoratori. Inoltre, poiché la contrattazione non avviene isolatamente in ogni singola azienda, ma ad un livello più alto, tra organizzazioni collettive, si riduce l’ovvio margine di intimidazione di cui il datore di lavoro si potrebbe avvalere qualora dovesse contrattare direttamente con un suo dipendente, il quale sarebbe facilmente ricattabile e quindi poco incline a portare avanti rilevanti rivendicazioni salariali.
Tuttavia, questa situazione non piace agli insigni economisti del Fondo Monetario Internazionale, i quali si affrettano a raccomandare uno spostamento della contrattazione dall’attuale livello nazionale al livello di singola impresa. Questa misura viene ovviamente venduta enfatizzandone i presunti aspetti positivi: diventerebbe più facile adattare il contratto, le remunerazioni e le regolamentazioni alle esigenze specifiche (teniamo a mente questa parola, che racchiude in sé l’inganno) della singola impresa, evitando inefficienze e cattivi accoppiamenti tra salari e produttività dei lavoratori nell’impresa in questione (leggasi: essere costretti da leggi “inique” a dover pagare salari generosi anche a lavoratori considerati scarsamente produttivi), disparità regionali e compagnia cantante. La verità, come spesso accade, rischia però di essere molto più prosaica. Più che le esigenze specifiche di ogni impresa, ciò che sta davvero a cuore a chi propone questo tipo di provvedimenti è un’esigenza generale e comune ad ogni datore di lavoro: approfittare dell’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori per cercare di pagare salari più bassi, ai quali corrispondono maggiori profitti. L’inganno è in realtà presto svelato. A pagina 18 del terzo studio del FMI (‘Competitività e riforma del sistema di contrattazione salaria in Italia’) si dice chiaramente che il vero problema è che le imprese sono scontente con l’attuale meccanismo di contrattazione; in particolare, le aziende con una dimensione internazionale esprimono “il bisogno di tenere i salari bassi” (testualmente, “the need to keep wages down”) Ciò non fa che confermare che la strategia adottata dalle nostre classi dominanti per uscire dalla crisi si poggia sui sacrifici della stragrande maggioranza dei lavoratori, per permettere ad una ristrettissima cerchia di capitalisti che operano nei settori maggiormente orientati all’export di prosperare.
Il dato politico di questo tipo di misure, volte a comprimere la quota salari, è piuttosto chiaro nella sua natura di classe e nella sua iniquità. Vale comunque la pena soffermarsi brevemente anche sulle contraddizioni economiche che tali misure sollevano. A tale scopo, partiamo definendo due grandezze utili alla discussione, ovvero il tasso di cambio nominale e il tasso di cambio reale. Il tasso di cambio nominale esprime il prezzo relativo della valuta nazionale in termini di una valuta estera. Se il tasso di cambio nominale tra euro e dollaro è 1,22, questo significa che per comprare un euro sono necessari 1,22 dollari. Il tasso di cambio reale di un Paese nei confronti di un altro Paese è, invece, il prezzo relativo dei beni e servizi prodotti all’interno dell’economia di un Paese in termini di beni e servizi prodotti nel Paese con il quale si effettua il confronto. Ad esempio, il tasso di cambio reale tra euro e dollaro è uguale al prodotto del tasso di cambio nominale (quanti dollari sono necessari per ottenere un euro) per l’indice dei prezzi del Paese dell’area euro che ci interessa, diviso per l’indice dei prezzi statunitensi. È importante infatti notare che i Paesi dell’area Euro hanno tutti lo stesso tasso di cambio nominale con gli Stati Uniti. Tuttavia il tasso di cambio reale è diverso, perché sono diverse le condizioni produttive di ciascun Paese e quindi è diverso l’indice dei prezzi interno. Semplificando in maniera estrema, si può affermare che il tasso di cambio reale di un Paese è un indice della competitività e dell’attrattività delle esportazioni di un Paese. Più basso è il tasso di cambio reale di un Paese, più le sue esportazioni saranno convenienti per i compratori esteri.
Facciamo l’esempio di un bene qualsiasi, una tazzina di caffè. Immaginiamo che il prezzo di un caffè in Italia sia pari a un euro. Un consumatore americano, per acquistare una tazzina italiana di caffè, dovrà procurarsi un euro. Per farlo, dovrà dunque spendere 1,22 dollari. Immaginiamo, inoltre, che la stessa tazzina di caffè, prodotta però negli Stati Uniti, costi 1,10 dollari. Nell’eroica ipotesi che le due tazzine di caffè siano identiche, il consumatore americano troverà più conveniente acquistare il caffè negli Stati Uniti. Immaginiamo, ora, che l’euro si deprezzi nei confronti del dollaro e che il tasso di cambio nominale passi da 1,22 dollari a 1,08 dollari per euro. Il consumatore americano troverà ora più conveniente acquistare il caffè italiano, in quanto, per procurarsi l’euro necessario ad acquistarlo, dovrà spendere soltanto 1,08 dollari. Dovrà spendere meno, cioè, di 1,10 dollari, il prezzo di un caffè negli Stati Uniti.
Negli studi citati dal FMI si nota come il tasso di cambio reale italiano sia sopravvalutato del 10% rispetto ai suoi partner commerciali. Questo significa che le nostre merci sono svantaggiate sui mercati internazionali, e che le condizioni generali della nostra economia richiederebbero prezzi più bassi: in altri termini, sarebbe necessario un minore tasso di cambio reale. Per ridurre il tasso di cambio reale, la strada più facile e più logica da seguire sarebbe svalutare la moneta, cioè ridurre il tasso di cambio nominale. Questa strada però non è più possibile da quando l’Italia ha adottato l’Euro, con la conseguenza che adesso la pressione competitiva dei mercati internazionali finisce per scaricarsi unicamente sulle spalle dei lavoratori. E questo succede non per una qualche necessità immanente o per qualche legge di natura, ma semplicemente perché l’Italia ha assunto una decisione politica ed istituzionale – l’adozione della moneta unica – che strutturalmente ne danneggia gli interessi. Riprendendo il filo del discorso, i salari sono una delle principali voci di costo di un’impresa. Il Fondo Monetario Internazionale, come dicevamo, raccomanda “moderazione” salariale allo scopo di contenere costi e di conseguenza prezzi della produzione italiana, per rendere le nostre esportazioni più appetibili sul mercato estero. Gli ultimi anni ci raccontano però una storia diversa: prendendo ad esempio i Paesi GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), possiamo notare come ad una marcata moderazione salariale non sia seguito un altrettanto rilevante contenimento del livello generale dei prezzi. Qualche dato: in Italia dal 2009 al 2015 i salari nominali hanno fatto registrare una crescita del 6,44%, mentre l’indice dei prezzi al consumo, che misura i prezzi delle merci acquistate dai lavoratori, è aumentato del 9,14%; nello stesso periodo, in Grecia i salari nominali sono diminuiti del 22,33%, mentre i prezzi sono aumentati del 5,51% (nostre elaborazioni su dati OCSE). Detto in altre parole, i sacrifici imposti ai lavoratori, oltre a essere stati politicamente odiosi, non hanno neanche contribuito particolarmente a migliorare la competitività di prezzo delle esportazioni dei Paesi europei più colpiti dalla crisi.
Un altro paradosso emerge dall’analisi degli economisti del FMI. Questi ultimi infatti denunciano come le esportazioni italiane si stiano progressivamente allontanando dalla frontiera tecnologica, concentrandosi invece in segmenti produttivi caratterizzati da scarsa innovazione e bassa produttività, con processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Ciononostante, invece di notare la totale assenza di politica industriale da parte delle autorità pubbliche, raccomandano compressione salariale ed ulteriori riforme del mercato del lavoro, dove con questa espressione intendono un aumento strutturale della precarietà dei rapporti di lavoro e regole più semplici per poter licenziare liberamente. Le due cose sono però chiaramente in contraddizione, poiché rapporti di lavoro iper-flessibili e con paghe misere non forniscono all’ingordo capitalista alcun incentivo a ricercare ed investire in avanzamenti tecnologici, quando possono tranquillamente sopravvivere e restare a galla impiegando manodopera precaria, disciplinata ed a buon mercato.
È verosimile che nelle prossime settimane, se le trattative per formare un nuovo Governo non daranno un esito rapido, torneremo a sentire parlare nei telegiornali dei “mercati” che ci chiedono stabilità, responsabilità e rispettabilità, e che ci pregano, per il nostro bene, di “fare presto”. Quando quel giorno arriverà, sarà opportuno tenere a mente che la posta in gioco sarà quella che abbiamo appena descritto. Quando avremo la tentazione di farci spaventare dalla minaccia dello spread, sarà bene avere presente che il rimedio che ci verrà proposto è la solita e già vista polpetta avvelenata: più austerità, più precarietà, salari più bassi, un peggioramento per quasi tutti a vantaggio dei pochissimi. Se sentiremo di una coalizione di responsabili che si propone di salvare il Paese, vorrà dire che saremo un passo più vicini all’applicazione di una qualche variante del programma che il Fondo Monetario Internazionale ha in mente per salvare l’Italia.
Per espiare le nostre presunte colpe, apparentemente ci sono altri compiti a casa da fare. Come si può leggere in due recenti contributi (questo e questo) del FMI, l’Italia avrebbe “ulteriori” benefici da una radicale riforma del sistema di contrattazione collettiva vigente, che riduca la portata della medesima dal livello settoriale nazionale a quello aziendale.
Che cos’è la contrattazione collettiva? È quello strumento attraverso il quale le parti sociali (sindacati dei lavoratori ed associazioni padronali) negoziano dei contratti collettivi che coprono gli aspetti retributivi e regolamentari del rapporto di lavoro. Una volta firmato, il contratto collettivo garantisce e si applica in generale a tutti i lavoratori ai quali si riferisce, anche al lavoratore non iscritto ad alcun sindacato o che lavora in un’azienda che non aderisce a nessuna organizzazione dei datori di lavoro. Allo stato attuale, la negoziazione avviene a livello di settore produttivo (per esempio l’industria chimica, l’industria metalmeccanica etc.). La logica di questo approccio, previsto dalla nostra Costituzione, è piuttosto chiara e cerca di assicurare un livello minimo di tutela (e di equità nella retribuzione) a tutti i lavoratori. Inoltre, poiché la contrattazione non avviene isolatamente in ogni singola azienda, ma ad un livello più alto, tra organizzazioni collettive, si riduce l’ovvio margine di intimidazione di cui il datore di lavoro si potrebbe avvalere qualora dovesse contrattare direttamente con un suo dipendente, il quale sarebbe facilmente ricattabile e quindi poco incline a portare avanti rilevanti rivendicazioni salariali.
Tuttavia, questa situazione non piace agli insigni economisti del Fondo Monetario Internazionale, i quali si affrettano a raccomandare uno spostamento della contrattazione dall’attuale livello nazionale al livello di singola impresa. Questa misura viene ovviamente venduta enfatizzandone i presunti aspetti positivi: diventerebbe più facile adattare il contratto, le remunerazioni e le regolamentazioni alle esigenze specifiche (teniamo a mente questa parola, che racchiude in sé l’inganno) della singola impresa, evitando inefficienze e cattivi accoppiamenti tra salari e produttività dei lavoratori nell’impresa in questione (leggasi: essere costretti da leggi “inique” a dover pagare salari generosi anche a lavoratori considerati scarsamente produttivi), disparità regionali e compagnia cantante. La verità, come spesso accade, rischia però di essere molto più prosaica. Più che le esigenze specifiche di ogni impresa, ciò che sta davvero a cuore a chi propone questo tipo di provvedimenti è un’esigenza generale e comune ad ogni datore di lavoro: approfittare dell’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori per cercare di pagare salari più bassi, ai quali corrispondono maggiori profitti. L’inganno è in realtà presto svelato. A pagina 18 del terzo studio del FMI (‘Competitività e riforma del sistema di contrattazione salaria in Italia’) si dice chiaramente che il vero problema è che le imprese sono scontente con l’attuale meccanismo di contrattazione; in particolare, le aziende con una dimensione internazionale esprimono “il bisogno di tenere i salari bassi” (testualmente, “the need to keep wages down”) Ciò non fa che confermare che la strategia adottata dalle nostre classi dominanti per uscire dalla crisi si poggia sui sacrifici della stragrande maggioranza dei lavoratori, per permettere ad una ristrettissima cerchia di capitalisti che operano nei settori maggiormente orientati all’export di prosperare.
Il dato politico di questo tipo di misure, volte a comprimere la quota salari, è piuttosto chiaro nella sua natura di classe e nella sua iniquità. Vale comunque la pena soffermarsi brevemente anche sulle contraddizioni economiche che tali misure sollevano. A tale scopo, partiamo definendo due grandezze utili alla discussione, ovvero il tasso di cambio nominale e il tasso di cambio reale. Il tasso di cambio nominale esprime il prezzo relativo della valuta nazionale in termini di una valuta estera. Se il tasso di cambio nominale tra euro e dollaro è 1,22, questo significa che per comprare un euro sono necessari 1,22 dollari. Il tasso di cambio reale di un Paese nei confronti di un altro Paese è, invece, il prezzo relativo dei beni e servizi prodotti all’interno dell’economia di un Paese in termini di beni e servizi prodotti nel Paese con il quale si effettua il confronto. Ad esempio, il tasso di cambio reale tra euro e dollaro è uguale al prodotto del tasso di cambio nominale (quanti dollari sono necessari per ottenere un euro) per l’indice dei prezzi del Paese dell’area euro che ci interessa, diviso per l’indice dei prezzi statunitensi. È importante infatti notare che i Paesi dell’area Euro hanno tutti lo stesso tasso di cambio nominale con gli Stati Uniti. Tuttavia il tasso di cambio reale è diverso, perché sono diverse le condizioni produttive di ciascun Paese e quindi è diverso l’indice dei prezzi interno. Semplificando in maniera estrema, si può affermare che il tasso di cambio reale di un Paese è un indice della competitività e dell’attrattività delle esportazioni di un Paese. Più basso è il tasso di cambio reale di un Paese, più le sue esportazioni saranno convenienti per i compratori esteri.
Facciamo l’esempio di un bene qualsiasi, una tazzina di caffè. Immaginiamo che il prezzo di un caffè in Italia sia pari a un euro. Un consumatore americano, per acquistare una tazzina italiana di caffè, dovrà procurarsi un euro. Per farlo, dovrà dunque spendere 1,22 dollari. Immaginiamo, inoltre, che la stessa tazzina di caffè, prodotta però negli Stati Uniti, costi 1,10 dollari. Nell’eroica ipotesi che le due tazzine di caffè siano identiche, il consumatore americano troverà più conveniente acquistare il caffè negli Stati Uniti. Immaginiamo, ora, che l’euro si deprezzi nei confronti del dollaro e che il tasso di cambio nominale passi da 1,22 dollari a 1,08 dollari per euro. Il consumatore americano troverà ora più conveniente acquistare il caffè italiano, in quanto, per procurarsi l’euro necessario ad acquistarlo, dovrà spendere soltanto 1,08 dollari. Dovrà spendere meno, cioè, di 1,10 dollari, il prezzo di un caffè negli Stati Uniti.
Negli studi citati dal FMI si nota come il tasso di cambio reale italiano sia sopravvalutato del 10% rispetto ai suoi partner commerciali. Questo significa che le nostre merci sono svantaggiate sui mercati internazionali, e che le condizioni generali della nostra economia richiederebbero prezzi più bassi: in altri termini, sarebbe necessario un minore tasso di cambio reale. Per ridurre il tasso di cambio reale, la strada più facile e più logica da seguire sarebbe svalutare la moneta, cioè ridurre il tasso di cambio nominale. Questa strada però non è più possibile da quando l’Italia ha adottato l’Euro, con la conseguenza che adesso la pressione competitiva dei mercati internazionali finisce per scaricarsi unicamente sulle spalle dei lavoratori. E questo succede non per una qualche necessità immanente o per qualche legge di natura, ma semplicemente perché l’Italia ha assunto una decisione politica ed istituzionale – l’adozione della moneta unica – che strutturalmente ne danneggia gli interessi. Riprendendo il filo del discorso, i salari sono una delle principali voci di costo di un’impresa. Il Fondo Monetario Internazionale, come dicevamo, raccomanda “moderazione” salariale allo scopo di contenere costi e di conseguenza prezzi della produzione italiana, per rendere le nostre esportazioni più appetibili sul mercato estero. Gli ultimi anni ci raccontano però una storia diversa: prendendo ad esempio i Paesi GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), possiamo notare come ad una marcata moderazione salariale non sia seguito un altrettanto rilevante contenimento del livello generale dei prezzi. Qualche dato: in Italia dal 2009 al 2015 i salari nominali hanno fatto registrare una crescita del 6,44%, mentre l’indice dei prezzi al consumo, che misura i prezzi delle merci acquistate dai lavoratori, è aumentato del 9,14%; nello stesso periodo, in Grecia i salari nominali sono diminuiti del 22,33%, mentre i prezzi sono aumentati del 5,51% (nostre elaborazioni su dati OCSE). Detto in altre parole, i sacrifici imposti ai lavoratori, oltre a essere stati politicamente odiosi, non hanno neanche contribuito particolarmente a migliorare la competitività di prezzo delle esportazioni dei Paesi europei più colpiti dalla crisi.
Un altro paradosso emerge dall’analisi degli economisti del FMI. Questi ultimi infatti denunciano come le esportazioni italiane si stiano progressivamente allontanando dalla frontiera tecnologica, concentrandosi invece in segmenti produttivi caratterizzati da scarsa innovazione e bassa produttività, con processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Ciononostante, invece di notare la totale assenza di politica industriale da parte delle autorità pubbliche, raccomandano compressione salariale ed ulteriori riforme del mercato del lavoro, dove con questa espressione intendono un aumento strutturale della precarietà dei rapporti di lavoro e regole più semplici per poter licenziare liberamente. Le due cose sono però chiaramente in contraddizione, poiché rapporti di lavoro iper-flessibili e con paghe misere non forniscono all’ingordo capitalista alcun incentivo a ricercare ed investire in avanzamenti tecnologici, quando possono tranquillamente sopravvivere e restare a galla impiegando manodopera precaria, disciplinata ed a buon mercato.
È verosimile che nelle prossime settimane, se le trattative per formare un nuovo Governo non daranno un esito rapido, torneremo a sentire parlare nei telegiornali dei “mercati” che ci chiedono stabilità, responsabilità e rispettabilità, e che ci pregano, per il nostro bene, di “fare presto”. Quando quel giorno arriverà, sarà opportuno tenere a mente che la posta in gioco sarà quella che abbiamo appena descritto. Quando avremo la tentazione di farci spaventare dalla minaccia dello spread, sarà bene avere presente che il rimedio che ci verrà proposto è la solita e già vista polpetta avvelenata: più austerità, più precarietà, salari più bassi, un peggioramento per quasi tutti a vantaggio dei pochissimi. Se sentiremo di una coalizione di responsabili che si propone di salvare il Paese, vorrà dire che saremo un passo più vicini all’applicazione di una qualche variante del programma che il Fondo Monetario Internazionale ha in mente per salvare l’Italia.
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