A ben oltre un mese dal risultato
elettorale e ben due consultazioni presidenziali lo possiamo dire: che
piaccia o meno l’unico ad uscire bene da questo sceneggiato
post-elettorale è Matteo Salvini.
Il leader della Lega ha cercato in tutti
i modi di favorire, rinunciando anche ad ottenere cariche
istituzionali, il dialogo fra le due forze che hanno moralmente “vinto”
le scorse elezioni. Come scrivemmo qualche giorno fa, Lega e Cinque
Stelle sono i due movimenti caratterizzati da una critica all’europa
globalista e al mondo liberale che spesso viene etichettata come
populismo. I due partiti convergono nella parte destruens in molte cose.
Un’alleanza tra centrodestra e Cinque Stelle in un programma di governo
e non certo per applicare pedissequamente il codice Cencelli.
Un’intesa della quale l’Italia avrebbe
urgentemente bisogno, ma che si risolverà in un nulla di fatto. Il
leader designato dal Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio pretende dal
segretario del Carroccio che rinunci all’alleanza con Silvio Berlusconi,
individuato dal MoVimento come male assoluto. Il partito dell’ex
Cavaliere infatti non deve essere assolutamente coinvolto in un governo,
nonostante non sia neanche presente in Parlamento.
Una conventio ad excludendum, ma
potremmo dire ad personam, il MoVimento individua in Berlusconi nel
peggio che ci possa essere, ma difficilmente si capiscono i contenuti
della critica politica. Mentre si diletta con i suoi iscritti a dire le
peggiori cose possibili di Berlusconi non presenta alcun problema nel
trattare con il PD, malgrado questi ultimi siano stati eletti con le
liste elettorali stilate dall’ex segretario Renzi.
Il vero problema di questa fase politica
è costituito dalla totale confusione e l’incoerenza nei quali è immerso
il MoVimento fondato da Grillo e Casaleggio. Se alle sue origini il
MoVimento portava alla ribalta le idee più radicale ed alternative,
alcune condivisibili, alcune un po’ meno, il M5S dopo la delusione delle
europee del 2014 ha cominciato a cambiare pelle. Sebbene da sempre il
MoVimento ha avuto l’aspirazione di diventare la maggioranza assoluta
del paese senza fare affidamento a nessun alleato, la sconfitta delle
europee ha portato il movimento cinque stelle a nutrire l’aspirazione di
fare il partito pigliatutto. Le parole di Beppe Grillo qualche giorno
fa sono state eloquenti: “La specie che sopravvive in politica non è
quella più forte, ma quella che si adatta meglio. Noi siamo un po’
democristiani, un po’ di destra, un po’ di sinistra, un po’ di centro.
Possiamo adattarci a qualsiasi cosa. Purché si affermino le nostre
idee”.
Ma siamo sicuri che la lotta politica
del MoVimento sia ad oggi basata sulle idee? Quello post-2014 è
piuttosto un movimento ossessionato dal fare la guerra al PD. Ma una
guerra diversa da quella nei confronti di Berlusconi. È l’ossessione di
fare il partito maggioritario, condannato a tutti i costi a superare
Renzi e il Partito Democratico. Ma per ottenere un risultato del genere,
i Cinque Stelle hanno intrapreso una strada che li sovrappone per
larghi tratti alla vecchia DC. Non più la critica all’euro, ma il
tentativo di aggancio al Parlamento Europeo al partito dei Liberisti
dell’ALDE, guidato da Guy Verhofstadt. Per capirci il partito europeo
che ospita partiti come quello dei Liberali Tedeschi, che riescono ad
essere ancora più intransigenti della Merkel sull’Europa e
sull’austerity.
Una rincorsa ai voti quella del Cinque
Stelle che ha fatto appiattire il movimento guidato da Di Maio (che da
tempo aspirava alla nomina di capo politico, ben prima del 2017) sulle
posizioni di quel giornale-partito che è il Fatto Quotidiano di Marco
Travaglio, Peter Gomez, Antonio Padellaro, Gianni Barbacetto. Quelli de
Il Fatto, da sempre ossessionati da Berlusconi non hanno perdonato al
PD, non le disastrose riforme economiche e sociali che i postcomunisti e
il centrosinistra hanno fatto promulgare negli ultimi 25 anni, ma
l’aver fatto diventare leader della sinistra Matteo Renzi, il quale ha
osato scendere a patti con l’odiato ex Cavaliere.
Vendere l’anima al diavolo della banda
de Il Fatto ha pagato in termini elettorali, ma ha avuto un costo. Ormai
il Cinque Stelle è caratterizzato per lo più dai suoi tratti
legalitari, ben mescolati con alcune promesse che gli italiani valutano
come credibili (il reddito di cittadinanza), ed è schiavo di questa sua
nuova dimensione. Un partito così caratterizzato non potrebbe mai e poi
mai governare con un centrodestra nel quale è presente Silvio
Berlusconi. È schiavo però anche delle proprie aspirazioni, nelle quali
non c’è spazio per nessuna alleanza con nessuna forza politica.
Se i Cinque Stelle avessero voluto
davvero un’alleanza per cercare di ottenere i voti per governare,
avrebbero potuto dialogare con Salvini, quando a destra non c’era
nessuna intesa su una coalizione elettorale, ma avrebbe rovinato
l’immagine che Di Maio ha dato al movimento di Grillo e Casaleggio negli
ultimi anni: “fine dei vaffa” e ricerca dell’endorsement dei poteri
forti. Adesso cercare di fare leva sulla Lega è pretestuoso e
danneggerebbe seriamente la leadership che Salvini è riuscito a
costruirsi. Al contrario sarebbe l’ennesimo alleato che tradisce
Berlusconi, un gesto che l’elettorato di centrodestra ha fatto sempre
pagare caro, chiedere a Fini e Casini.
L’unica soluzione al momento sembra
quella del ritorno al voto. Sarebbe inutile anche inventarsi un’altra
legge elettorale, quella di Rosato, pur con molti difetti si è rivelata
tutto sommato una legge elettorale passabile, se davvero come i leader
del cinque stelle e alcuni loro sostenitori dicono, i consensi della
squadra di Di Maio sono destinati ad aumentare, dimostrino di riuscire a
raggiungere almeno il 40% dei consensi, come da loro massima
aspirazione, che significherebbe conquistare quasi la metà dei seggi
disponibili, grazie all’uninominale. Tuttavia resta il rischio che i
veti posti da Di Maio possa indispettire quegli elettori provenienti da
destra e da sinistra che gli avevano dato fiducia.
Naturalmente concludiamo con un appello
al Presidente Mattarella: faccia decidere gli italiani con lo strumento
simbolo della democrazia rappresentativa: il voto nelle urne. No a
governi strani e istituzionali.
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