martedì 9 gennaio 2018

Mattarella cestina la lettera della BCE del 2011 e promuove un’agenda politica volta ai problemi reali. Chi la realizzerà

Con la fine della legislatura, il 2018 si è aperto in piena campagna elettorale. Tutti i partiti politici, vecchi e nuovi, e i loro leader stanno già iniziando a far a gara a chi offre la promessa più vantaggiosa.
Matteo Renzi, dopo aver inglobato il canone Rai nella bolletta dell’energia elettrica (cosa richiesta dalla UE e in programma già dai tempi di Monti), ora promette di abolirlo totalmente in caso di una conferma elettorale del governo PD. Pietro Grasso, leader di Liberi e Uguali proprio ieri invece ha annunciato di voler abolire le tasse universitarie, almeno per determinate categorie di reddito. Luigi di Maio, candidato premier del Movimento 5 Stelle, punta sul solito cavallo di battaglia del reddito di cittadinanza, da andare a coprire con il taglio della spesa pubblica “improduttiva” (la parolina magica non poteva mancare), utilizzando il piano Cottarelli come base di partenza così da “abbattere il rapporto debito/Pil di 40 punti percentuali nel corso di due legislature”. Il Centrodestra poi non è da meno: tra flat tax al 20 o al 15%, abolizione della Fornero e aumento delle pensioni minime, il conto diventa salatissimo.
Al netto delle promesse elettorali, c’è da registrare un cambio di paradigma nell’agenda politica. L’attenzione dei partiti politici si sta spostando dalla precedente priorità della “tenuta ordinata dei conti” ai temi reali, sociali e del lavoro in primis.
Ciò è certamente determinato da una presa di coscienza delle necessita dei cittadini, ma a farsi promotore di questo cambiamento è stato nientepopodimeno che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno.
Un discorso apprezzabile, che si è mantenuto in un contesto “nazionale” e che ha toccato temi e sentimenti concreti quali la sicurezza, le persone disagiate, la situazione dei terremotati e altre necessità del Paese.
Non vogliamo con ciò far pensare che Sergio Mattarella abbia deciso di tornare a pensare all’interesse nazionale e sia pronto a scontrarsi con l’Unione Europea e le sue regole per difendere l’interesse patrio.
Tuttavia è innegabile che rispetto al suo predecessore, e con la fine di questa legislatura, Mattarella stia cercando di suggerire un cambiamento di priorità, cambiamento che può essere una reazione al timore di veder trionfare i partiti “populisti”.
Pensate alle priorità che Giorgio Napolitano suggeriva caldamente nel 2013: la modifica della Costituzione e dell’architettura dello Stato, la tenuta dei conti pubblici, il debito pubblico, la credibilità dell’Italia in Europa.
Tutte cose inserite in quella lettera della BCE inviata al governo italiano nel 2011 e che ha fatto da base alla cosiddetta “agenda Monti” seguita dai governi successivi, Letta, Renzi, Gentiloni.

Con il fallimento del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, questo programma è diventato obsoleto. Un anno dopo il Presidente Mattarella pone l’attenzione su altri temi, più vicini ai bisogni e ai problemi dei cittadini.
Ciò può sicuramente essere considerato come un buon auspicio e può essere sfruttato per legittimare una campagna elettorale e un programma di governo.
Le varie promesse elettorali vanno viste alla luce di queste nuove considerazioni e ne va analizzato il grado di realizzabilità, partendo dal presupposto che è impossibile realizzare un programma dispendioso se si propone (o ci si vanta di averlo già fatto) di ridurre il deficit dello Stato e fare programmi di tagli alla spesa pubblica, in pieno contrasto con le leggi dell’aritmetica.
Sarà ad aver successo, invece, proprio chi avrà in mente di scontrarsi con l’Europa sulle regole di bilancio, rigettando l’austerità e iniziando a sforare qualche limite, come fanno già tanti Paesi dell’Eurozona e sfruttando magari le aperture che dalla Ue arrivano: lo stesso Jean Claude Juncker ora propone di considerare il limite del deficit del 3% non per singolo Paese ma come media tra le  varie economie Ue. Perciò la Germania potrebbe puntare al pareggio di bilancio, mentre i Paesi del Sud potrebbero fare politiche espansive a deficit.
E se tutto ciò non potesse realizzarsi, perché magari un Weidmann alla guida della BCE nel 2019 metterà fine al QE e lascerà impennarsi gli spread, non sarebbe male tenere un piano B di uscita, per non ripetere quanto accaduto a Silvio Berlusconi nel 2011.
Una lezione che nemmeno il Cavaliere dovrebbe dimenticare, nemmeno ora che un certo Bill Emmott, che al tempo sull’Economist lo giudicava “unfit to lead”, ora ne promuove la leadership: “Il ruolo di Berlusconi nel prossimo governo potrebbe effettivamente rappresentare la stabilità di fronte all’insurrezione populista” – scrive Emmott su Project Syndacate.
Un endorsement che manifesta la volontà di alcuni di auspicare un ennesimo governo di larghe intese tra Partito Democratico e Forza Italia dopo il voto del 4 marzo prossimo. Cosa che forse non disgusta nemmeno il Cavaliere che ha riaccolto a braccia aperte i “traditori” alfaniani di NCD che hanno fatto da stampella ai governi di Centrosinistra.
Coloro che auspicano invece di riproporre in italia il “modello Austria” di Sebastian Kurz e che cercano di portare Silvio Berlusconi, step by step cominciando dai minibot, su posizioni anti-Euro sono avvisati. E siamo avvisati anche noi che dovremo esprimere un voto

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