Con la fine della legislatura, il 2018 
si è aperto in piena campagna elettorale. Tutti i partiti politici, 
vecchi e nuovi, e i loro leader stanno già iniziando a far a gara a chi 
offre la promessa più vantaggiosa.
Matteo Renzi, dopo aver
 inglobato il canone Rai nella bolletta dell’energia elettrica (cosa 
richiesta dalla UE e in programma già dai tempi di Monti), ora promette 
di abolirlo totalmente in caso di una conferma elettorale del governo 
PD. Pietro Grasso, leader di Liberi e Uguali proprio ieri invece ha annunciato di voler abolire le tasse universitarie, almeno per determinate categorie di reddito. Luigi di Maio,
 candidato premier del Movimento 5 Stelle, punta sul solito cavallo di 
battaglia del reddito di cittadinanza, da andare a coprire con il taglio
 della spesa pubblica “improduttiva” (la parolina magica non poteva 
mancare), utilizzando il piano Cottarelli come base di partenza così da “abbattere il rapporto debito/Pil di 40 punti percentuali nel corso di due legislature”.
 Il Centrodestra poi non è da meno: tra flat tax al 20 o al 15%, 
abolizione della Fornero e aumento delle pensioni minime, il conto 
diventa salatissimo.
Al netto delle promesse elettorali, c’è 
da registrare un cambio di paradigma nell’agenda politica. L’attenzione 
dei partiti politici si sta spostando dalla precedente priorità della “tenuta ordinata dei conti” ai temi reali, sociali e del lavoro in primis.
Ciò è certamente determinato da una 
presa di coscienza delle necessita dei cittadini, ma a farsi promotore 
di questo cambiamento è stato nientepopodimeno che il Presidente della 
Repubblica, Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno.
Un discorso apprezzabile, che si è 
mantenuto in un contesto “nazionale” e che ha toccato temi e sentimenti 
concreti quali la sicurezza, le persone disagiate, la situazione dei 
terremotati e altre necessità del Paese.
Non vogliamo con ciò far pensare che 
Sergio Mattarella abbia deciso di tornare a pensare all’interesse 
nazionale e sia pronto a scontrarsi con l’Unione Europea e le sue regole
 per difendere l’interesse patrio.
Tuttavia è innegabile che rispetto al 
suo predecessore, e con la fine di questa legislatura, Mattarella stia 
cercando di suggerire un cambiamento di priorità, cambiamento che può 
essere una reazione al timore di veder trionfare i partiti “populisti”.
Pensate alle priorità che Giorgio Napolitano
 suggeriva caldamente nel 2013: la modifica della Costituzione e 
dell’architettura dello Stato, la tenuta dei conti pubblici, il debito 
pubblico, la credibilità dell’Italia in Europa.
Tutte cose inserite in quella lettera della BCE
 inviata al governo italiano nel 2011 e che ha fatto da base alla 
cosiddetta “agenda Monti” seguita dai governi successivi, Letta, Renzi, 
Gentiloni.
Con il fallimento del referendum 
costituzionale del 4 dicembre 2016, questo programma è diventato 
obsoleto. Un anno dopo il Presidente Mattarella pone l’attenzione su 
altri temi, più vicini ai bisogni e ai problemi dei cittadini.
Ciò può sicuramente essere considerato come un buon auspicio e può 
essere sfruttato per legittimare una campagna elettorale e un programma 
di governo.
Le varie promesse elettorali vanno viste
 alla luce di queste nuove considerazioni e ne va analizzato il grado di
 realizzabilità, partendo dal presupposto che è impossibile realizzare 
un programma dispendioso se si propone (o ci si vanta di averlo già 
fatto) di ridurre il deficit dello Stato e fare programmi di tagli alla 
spesa pubblica, in pieno contrasto con le leggi dell’aritmetica.
Sarà ad aver successo, invece, proprio 
chi avrà in mente di scontrarsi con l’Europa sulle regole di bilancio, 
rigettando l’austerità e iniziando a sforare qualche limite, come fanno 
già tanti Paesi dell’Eurozona e sfruttando magari le aperture che dalla 
Ue arrivano: lo stesso Jean
 Claude Juncker ora propone di considerare il limite del deficit del 3% 
non per singolo Paese ma come media tra le  varie economie Ue. 
Perciò la Germania potrebbe puntare al pareggio di bilancio, mentre i 
Paesi del Sud potrebbero fare politiche espansive a deficit.
E se tutto ciò non potesse realizzarsi, 
perché magari un Weidmann alla guida della BCE nel 2019 metterà fine al 
QE e lascerà impennarsi gli spread, non sarebbe male tenere un piano B 
di uscita, per non ripetere quanto accaduto a Silvio Berlusconi nel 
2011.
Una lezione che nemmeno il Cavaliere 
dovrebbe dimenticare, nemmeno ora che un certo Bill Emmott, che al tempo
 sull’Economist lo giudicava “unfit to lead”, ora ne promuove la 
leadership: “Il ruolo di Berlusconi nel prossimo governo potrebbe 
effettivamente rappresentare la stabilità di fronte all’insurrezione 
populista” – scrive Emmott su Project Syndacate.
Un endorsement che manifesta la volontà 
di alcuni di auspicare un ennesimo governo di larghe intese tra Partito 
Democratico e Forza Italia dopo il voto del 4 marzo prossimo. Cosa che 
forse non disgusta nemmeno il Cavaliere che ha riaccolto a braccia 
aperte i “traditori” alfaniani di NCD che hanno fatto da stampella ai 
governi di Centrosinistra.
Coloro che auspicano invece di 
riproporre in italia il “modello Austria” di Sebastian Kurz e che 
cercano di portare Silvio Berlusconi, step by step cominciando dai minibot, su posizioni anti-Euro sono avvisati. E siamo avvisati anche noi che dovremo esprimere un voto
Nessun commento:
Posta un commento