Il tema comincia ad essere piuttosto frequentato: cosa accadrà, a brevissimo termine, a causa della velocità con cui nel sistema produttivo i robot sostituiscono gli esseri umani? 
Calcolando
 che l’automazione si applica sia alle mansioni quasi soltanto manuali, 
quanto (e a volte più facilmente) a quelle “di concetto”, la previsione è
 facile: centinaia di milioni di esseri umani resteranno senza un 
lavoro. Quindi con seri problemi di sopravvivenza, visto che i “mezzi di
 produzione” sono quasi tutti di proprietà privata e che, dunque, essere
 disponibili a vendere la propria forza lavoro non sarà affatto 
sufficiente a trovarlo, un lavoro. 
Nasce
 da questa diffusa consapevolezza il moltiplicarsi di proposte più o 
meno realistiche su “reddito di cittadinanza”, reddito minimo 
garantito”, basic income e via fantasticando. Non perché si 
tratti di soluzioni teoriche mal congegnate, a volte, ma per il banale 
fatto che l’erogatore di questo reddito dovrebbe essere lo Stato, o 
comunque istituzioni appartenenti alla sfera pubblica; che possono 
operare solo disponendo di risorse finanziarie derivanti dalla 
tassazione diretta (su redditi, ricavi, patrimoni, ecc) e indiretta (sui
 consumi, sotto forma di Iva o simili).
Ma
 il pensiero economico prevalente – anglosassone-neoliberista o 
germanico-ordoliberista – prescrive come indispensabile la riduzione al 
minimo delle di uno Stato: polizia, esercito, magistratura, servizi non 
remunerativi per i privati. E, di conseguenza, la riduzione al minimo 
del prelievo fiscale.
Ne
 deriva che uno Stato sempre più “povero” non ha alcuna possibilità di 
erogare reddito a un numero di cittadini sempre crescente che non 
riescono a trovare autonomamente un lavoro retribuito quanto basta a 
sopravvivere.
Ma
 fermare l’introduzione dell’automazione nei processi produttivi non si 
può. Anche se non vivessimo in regime capitalistico – appropriazione 
privata di quote crescenti della ricchezza prodotta – il lato “positivo”
 dell’automazione è solare: riduzione della fatica umana, sia dal lato 
fisico che da quello delle funzioni intellettuali noiose e ripetitive.
La soluzione “socialista” sarebbe la più logica (lavorare meno, lavorare tutti),
 ma è quella più difficile a farsi per pure ragioni di rapporti di 
forza: presuppone una rivoluzione globale, o perlomeno in un gran numero
 di paesi tecnologicamente avanzati.
Dunque,
 per tranquillizzare almeno un po’ le crescenti masse di disoccupati o 
sottoccupati – precari, part time, intermittenti, ecc, comunque con un 
salario al di sotto del livello minimo della sopravvivenza – diversi 
centri di analisi, media, opinionisti, ecc, si preoccupano di diffondere
 informazioni notevolmente addomesticate su come andranno le cose.
Appartiene a questo genere oppiaceo il rapporto elaborato dalla McKinsey e proposto in pillole da IlSole24Ore.
 Da un lato viene posto il dato agghiacciante – da qui al 2030, in tutto
 il mondo, spariranno 800 milioni di posti di lavoro – dall’altro in 
sedativo travestito da “consigli degli esperti”, con il titolo Ecco cosa devono imparare i nostri figli per battere i robot.
Ve lo riproponiamo così com’è, intervallato con le nostre obiezioni (in corsivo) proprio per evidenziare l’aspetto-sonnifero. Il
 crudele fato ha voluto che questo articoletto uscisse nello stesso 
giorno in cui l’Istat rende nti i dati sull’occupazione nella sola 
Italia, e che lo stesso giornale riassume – correttamente – nel titolo Cresce il lavoro ma non la qualità: boom di occupazione «bassa» e contratti precari,
 smontando in un colpo solo sia la narrazione proposta con insistenza 
dai camerieri di Renzi (“abbiamo creato un milione di posti di lavoro”),
 sia il clima di “fiducia nel futuro che questo articolo vorrebbe 
spargere.
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