venerdì 12 gennaio 2018

La disoccupazione tecnologica curata con la propaganda

Calcolando che l’automazione si applica sia alle mansioni quasi soltanto manuali, quanto (e a volte più facilmente) a quelle “di concetto”, la previsione è facile: centinaia di milioni di esseri umani resteranno senza un lavoro. Quindi con seri problemi di sopravvivenza, visto che i “mezzi di produzione” sono quasi tutti di proprietà privata e che, dunque, essere disponibili a vendere la propria forza lavoro non sarà affatto sufficiente a trovarlo, un lavoro.
Nasce da questa diffusa consapevolezza il moltiplicarsi di proposte più o meno realistiche su “reddito di cittadinanza”, reddito minimo garantito”, basic income e via fantasticando. Non perché si tratti di soluzioni teoriche mal congegnate, a volte, ma per il banale fatto che l’erogatore di questo reddito dovrebbe essere lo Stato, o comunque istituzioni appartenenti alla sfera pubblica; che possono operare solo disponendo di risorse finanziarie derivanti dalla tassazione diretta (su redditi, ricavi, patrimoni, ecc) e indiretta (sui consumi, sotto forma di Iva o simili).
Ma il pensiero economico prevalente – anglosassone-neoliberista o germanico-ordoliberista – prescrive come indispensabile la riduzione al minimo delle di uno Stato: polizia, esercito, magistratura, servizi non remunerativi per i privati. E, di conseguenza, la riduzione al minimo del prelievo fiscale.
Ne deriva che uno Stato sempre più “povero” non ha alcuna possibilità di erogare reddito a un numero di cittadini sempre crescente che non riescono a trovare autonomamente un lavoro retribuito quanto basta a sopravvivere.
Ma fermare l’introduzione dell’automazione nei processi produttivi non si può. Anche se non vivessimo in regime capitalistico – appropriazione privata di quote crescenti della ricchezza prodotta – il lato “positivo” dell’automazione è solare: riduzione della fatica umana, sia dal lato fisico che da quello delle funzioni intellettuali noiose e ripetitive.
La soluzione “socialista” sarebbe la più logica (lavorare meno, lavorare tutti), ma è quella più difficile a farsi per pure ragioni di rapporti di forza: presuppone una rivoluzione globale, o perlomeno in un gran numero di paesi tecnologicamente avanzati.
Dunque, per tranquillizzare almeno un po’ le crescenti masse di disoccupati o sottoccupati – precari, part time, intermittenti, ecc, comunque con un salario al di sotto del livello minimo della sopravvivenza – diversi centri di analisi, media, opinionisti, ecc, si preoccupano di diffondere informazioni notevolmente addomesticate su come andranno le cose.
Appartiene a questo genere oppiaceo il rapporto elaborato dalla McKinsey e proposto in pillole da IlSole24Ore. Da un lato viene posto il dato agghiacciante – da qui al 2030, in tutto il mondo, spariranno 800 milioni di posti di lavoro – dall’altro in sedativo travestito da “consigli degli esperti”, con il titolo Ecco cosa devono imparare i nostri figli per battere i robot.
Ve lo riproponiamo così com’è, intervallato con le nostre obiezioni (in corsivo) proprio per evidenziare l’aspetto-sonnifero. Il crudele fato ha voluto che questo articoletto uscisse nello stesso giorno in cui l’Istat rende nti i dati sull’occupazione nella sola Italia, e che lo stesso giornale riassume – correttamente – nel titolo Cresce il lavoro ma non la qualità: boom di occupazione «bassa» e contratti precari, smontando in un colpo solo sia la narrazione proposta con insistenza dai camerieri di Renzi (“abbiamo creato un milione di posti di lavoro”), sia il clima di “fiducia nel futuro che questo articolo vorrebbe spargere.

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