martedì 16 gennaio 2018

Il lato oscuro dello shopping: o lavori di domenica (e nelle feste), o te ne vai

Ormai inventeranno dei giorni in più per poter tenere aperto il negozio», confessa scherzando una commessa ad Annalisa Dordoni, dottoranda in sociologia all’Università Bicocca, che ha realizzato una ricerca sui nuovi ritmi e tempi di lavoro del commercio in due delle principali strade europee dello shopping, corso Buenos Aires a Milano e Oxford Street a Londra. «I rossi sul calendario non ce li chiedono. Non ci chiedono le domeniche, non ci chiedono niente. Noi ci becchiamo gli orari e quelli che ci danno facciamo», raccontano.
Primo maggio, ferragosto, 25 aprile, 2 giugno, Ognissanti, Immacolata, Epifania e tutte le domeniche: qualcosa di aperto in Italia ormai si trova sempre. «Dall’attuazione del decreto “Salva-Italia” del governo Monti, nel 2012, il nostro Paese è diventato patria della deregolamentazione nell’apertura dei negozi», spiega Annalisa Dordoni. Con il caso limite del centro commerciale più grande d’Italia, Oriocenter a Bergamo , che quest’anno ha aperto (in parte) pure il 25 dicembre, provocando il primo sciopero natalizio del settore.
Sebbene molti Paesi siano considerati “più liberisti” di noi, nel resto d’Europa una regolamentazione esiste. Nel Regno Unito le aperture domenicali sono normate in base alla metratura dei supermercati e dei negozi. In Germania (tranne qualche deroga) si può aprire per un massimo di dieci domeniche e per un orario ridotto. In Francia solo per cinque domeniche. In Spagna e in Austria l’apertura domenicale è prevista unicamente per i negozi delle zone turistiche.
Gli esercenti italiani invece non hanno limiti: in teoria possono tenere su le serrande 365 giorni all’anno, 24 ore su 24, sette giorni su sette. Causando problemi sia ai piccoli negozi – che fanno fatica più dei grandi a tenere aperto – sia ai lavoratori. Che in molti casi finiscono per vivere quella che nelle interviste definiscono “settimana al contrario” rispetto al resto del mondo. Quando gli amici nei fine settimana o nei giorni di festa si fermano o vanno a fare shopping, commessi e commesse lavorano di più. Quando i figli non vanno a scuola, mamme e papà lavoratori del commercio sono pronti a rimboccarsi le maniche, finendo per ridurre all’osso il tempo trascorso in famiglia. «Per loro il concetto del week end non esiste», dice Dordoni. E in Italia la situazione è peggio che altrove: se gli addetti al commercio nel Regno Unito lavorano per legge nazionale cinque giorni su sette, da noi sono impiegati invece sei giorni su sette. Con un solo giorno libero e non due.

Annalisa Dordoni ha realizzato 50 interviste dietro i banconi delle affollate shopping street milanesi e londinesi. «A Oxford Street, i commessi sono più giovani e sono sia uomini che donne», spiega la ricercatrice. «Mentre in Italia ci sono molte più donne, e sono anche più avanti con l’età. Quindi trovi molte donne in gravidanza o con figli, che fanno una fatica enorme a incastrare questi tempi di lavoro con la vita familiare». Tra le testimonianze raccolte, c’è anche quella di una ragazza incinta che, dopo una giornata di lavoro sempre in piedi, durante le pulizie di chiusura si è sentita male. Qualche giorno dopo ha scoperto di aver perso il bambino. «Magari dovevo fermarmi», racconta. «Sono andata avanti. Poi, sono andata a prendere il treno. Ricordo ancora la fatica e il mal di testa... Ho detto: se chiamo l’ambulanza che succede, perdo il lavoro?».
Quello che accomuna i lavoratori delle domeniche e dei festivi è la difficoltà ad avere «una vita sociale normale», spiega Dordoni. «Ho incontrato molte persone che non hanno una relazione stabile o che fanno fatica ad avere relazioni sociali, perché quando il sabato e la domenica gli altri escono loro sono al lavoro». Il risultato è che «non hanno potere di gestire il proprio tempo».
I racconti hanno questo tenore: «I giorni che io ho non coincidono mai con quelli dei miei amici, cioè la mia amica magari sabato e domenica è off e io lavoro sempre il sabato e la domenica»; «Il mio rapporto con i miei amici è praticamente inesistente, passo quasi tutto il mio tempo al lavoro e non ho tempo per vivere».
È quello che la ricercatrice chiama “disuguaglianza di potere nell’accesso al tempo”. Non solo il tempo per le relazioni sociali, ma anche il “tempo per sé”. «Una modalità temporale che serve per riuscire a ragionare sulla propria vita, a fare un minimo di introspezione per capire cosa si vuole fare o dove si vuole arrivare», spiega Dordoni. «Durante le interviste emerge infatti un affidarsi al caso». Molti lavoratori erano studenti, che hanno cominciato a lavorare part time nei negozi, abbandonando poi l’università, quando magari rimaneva solo la tesi da scrivere per laurearsi. «Dalle loro testimonianze appare chiaro che non ci hanno neanche riflettuto su queste scelte. Il fatto di avere dei tempi così destrutturati, vivendo giorno per giorno, con turni che cambiano anche all’ultimo momento, non permette di riflettere sulla propria vita. Nel momento in cui non hai una routine e non puoi progettare quello che farai tra un mese o domani, come puoi progettare se dare un esame all’università o continuare a studiare? Questo incide molto sulla consapevolezza delle proprie scelte e colpisce soprattutto i giovani. Molti si ritrovano a essere definitivamente commessi senza averlo mai davvero deciso».

I calendari dei turni molto spesso vengono dettati dall’alto, comunicati con al massimo una settimana di anticipo. E senza alcuna concertazione con i lavoratori: anche laddove in passato accadeva, come in Ikea, ormai la gestione delle turnazioni è stata affidata a un algoritmo, come abbiamo raccontato. E con i negozi sempre sotto organico, se qualcuno si ammala bisogna essere disponibili a rimpiazzarlo anche quando si ha il giorno libero. «In negozi con due o tre persone, si cerca di non stare a casa anche quando si ha la febbre per non scombinare i piani dei colleghi», racconta Dordoni.
Senza dimenticare che in Italia non esiste il diritto di scegliere di non lavorare la domenica o nei festivi. «Nel Regno Unito, per legge nazionale e non per accordi tre le parti sociali, è sancito il diritto di non lavorare la domenica (the right to opt out of Sunday Working, ndr)», spiega Dordoni. «Il lavoratore è tenuto semplicemente a comunicare tre mesi prima al datore di lavoro la decisione. E non può essere discriminato per questo». Da noi no. O meglio, alcuni contratti prevedono la possibilità di scelta, ma non sempre viene rispettata. Mentre altri non la prevedono affatto. Un contratto nazionale del commercio esiste, ma è stato sottoscritto solo da Confcommercio e non da Federdistribuzione. Quindi dipende a quale associazione di categoria aderisce il punto vendita. E il risultato è una giungla di condizioni lavorative, tra chi applica le maggiorazioni retributive dei festivi al 30%, chi percentuali più basse, chi solo agli straordinari e chi non le applica per niente. Per cui per molti lavorare domenica equivale spesso a lavorare di martedì.
E i sindacati? «Il tasso di sindacalizzazione nei negozi è molto basso», spiega Dordoni. «E molti non si avvicinano ai sindacati per il timore di essere spostati in altri punti vendita fuori città». È quello che è successo al di là di una delle belle vetrine di corso Buenos Aires: uno dei commessi, che stava iniziando una causa di lavoro, prima è stato trasferito, e alla fine è stato costretto a dare le dimissioni. Benvenuti nell’era dei negozi aperti sette giorni su sette. Anche a Pasqua e a Natale.

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