mercoledì 24 gennaio 2018

Lo Stato di Polizia del PD e la polizia del pensiero di stampo orwelliano

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»
Sono i primi due commi dell’articolo 21 della Costituzione della Repubblica Italiana che stanno per essere messi in discussione dalle multinazionali dell’informatica e della rete e dal governo Gentiloni.
La sconfitta dei democratici alle elezioni di novembre 2016 ha determinato una reazione delle forze della sinistra liberal legate alla leadership di Obama in tutto l’Occidente. Il fenomeno fake news, nato da un altro caso inesistente come il Russiagate, ha determinato un giro di vite nei confronti dell’editoria web che non ha precedenti.
Google ha utilizzato il suo famoso algoritmo di PageRank per di fatto censurare i siti di informazione che abbiano una visione, soprattutto in politica estera, contraria alle campagne di demonizzazione effettuate dai media occidentali. Sei una pagina russa o filorussa? Google potrebbe presto bollarti come sito di fake news e farti arretrare nel posizionamento all’interno del suo motore di ricerca.
Più di Google si è spesa Twitter, il social dei cinguettii, che da anni subisce un netto calo di popolarità non vuole essere da meno e partecipare anch’essa all’operazione di polizia del pensiero e da un po’ di tempo a questa parte si assiste a un sistematico oscuramento di account e tweets scomodi: gli account dei terroristi islamici dell’ISIS invece continuano a essere tollerati, chissà perché.
Facebook invece ne ha fatto un vero e proprio cruccio e da un anno a questa parte le pagine che non abbiano già acquisito una certa popolarità sono state depotenziate della loro capacità di entrare nel newsfeed dei loro seguaci, e commenti e post di un certo tipo sono spesso soggetti a essere bollati come spam, i profili degli utenti che si permettono di trattare certi argomenti che non piacciono al politicamente corretto occidentale sono spesso soggetti a chiusure temporanee o cancellazione.
Dalle parti di Obama e dei suoi accoliti, che controllano alla grande informazione e media, devono aver capito che internet può essere si un mezzo per inscenare rivolte e rivoluzioni colorate, ma anche un mezzo per la controinformazione: meglio che sui social quindi tornino a girare solo gattini e donnine in posa per gli autoscatti.
Ma se il discorso delle multinazionali si può comprendere, non pagano le tasse, figurarsi se ci aspettiamo che rispettino la costituzione, quello che sta tentando di inscenare il governo del PD con il suo sceriffo Minniti è intollerabile. Demandare alla polizia il compito di svelare le bufale e non allo spirito critico del lettore e tutt’al più al diritto di replica sancito dalla legge sulla stampa è da polizia di regime. Un provvedimento quello del ministro degli interni che farebbe impallidire i regimi del 900 ai quali spesso la sinistra liberale si sente moralmente superiore.
Quella di permettere al cittadino anonimo di decretare quali siano le notizie false ricorda allo stesso tempo i delatori che permettevano ai regimi fascisti di individuare gli ebrei da deportare o i nemici politici. Come abbiamo già ricordato già le volte scorse in Italia esiste già una deontologia giornalistica sancita dall’Ordine dei Giornalisti e dalle svariate leggi sulla stampa, anche un articolo o un servizio che scrive fesserie ha lo stesso diritto di parola degli altri salvo nei casi disciplinati dall’Ordine.
E questo è un principio costituzionale che non può essere violato in nome di una caccia alle streghe o per ottenere vantaggi politici. Soprattutto se questa morale sul giornalismo viene fatta da un partito attorno al quale girano testate e giornalisti che di certo non passerebbero indenni a un controllo serrato sulla veridicità di quanto scrivono o dichiarano alla televisione.
Un esempio su tutti ce lo fornisce una testata come Repubblica: per anni ha dato per buone le notizie dell’Osservatorio dei diritti umani in Siria, che chi è informato sulle questioni mediorientali conosce, più che un osservatorio è un piccolo ufficio composto da una persona, Rami Abdul Rahman, un amico dei ribelli scappato dalla Siria ai tempi di Hafez al Assad, che agisce nella capitale del Regno Unito. L’Osservatorio è sempre stato in pratica il megafono dei cosiddetti ribelli siriani, dunque tremendamente di parte, ma la testata edita dal Gruppo Gedi (che detiene anche le quote del gruppo editoriale l’Espresso) ha continuato per anni a citarlo come fonte attendibile sui presunti crimini di Assad.
Ebbene all’inizio del nuovo anno un giornalista di Repubblica ha finalmente avuto il coraggio di svelare la verità che altri già avevano svelato. L’Osservatorio non è affidabile e il buon giornalista Carlo Ciavoni lo svela con un articolo dal titolo emblematico: “Siria, le narrazioni fasulle dell”Osservatorio siriano sui diritti’ che copre i crimini dei cosiddetti ‘ribelli'”. Un articolo di denuncia dei terroristi qaedisti erroneamente chiamati ribelli e della loro cassa di risonanza mediatica. Il giorno dopo l’articolo non c’è più, ma non è scomparso: la redazione di Repubblica gli ha sostituito titolo e contenuti, mantenendo però lo stesso link, il titolo ora è “Siria, il difficile mestiere di informare”, ma della denuncia di Ciavoni non c’è traccia.
Ciavoni si giustificherà con un comunicato su twitter con l’alibi della fretta, che lo aveva condotto a scrivere un articolo considerato “fazioso”. Di fatto Ciavoni aveva denunciato quanto denunciato da mezzo mondo dell’informazione da sette anni a questa parte. A Repubblica però forse non ci tenevano a passare come una testata che per anni ha prodotto sistematicamente le tanto temute fake news che si vorrebbe censurare e allora ben venga la censura di un loro collaboratore che ha svolto semplicemente il suo dovere sancito dalla Costituzione italiana. Scusi a chi ha detto “fake news”?
Verrebbe da chiedersi a chi giova tutto questo e perché il nostro paese dovrebbe seguire gli americani di Obama e le loro multinazionali in questa follia di questa nuova psicopolizia del XXI secolo. Avremmo ben altri e più gravi problemi da risolvere.

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