Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»
Sono i primi due commi dell’articolo
21 della Costituzione della Repubblica Italiana che stanno per essere
messi in discussione dalle multinazionali dell’informatica e della rete e
dal governo Gentiloni.
La sconfitta dei democratici alle elezioni di novembre 2016 ha
determinato una reazione delle forze della sinistra liberal legate alla
leadership di Obama in tutto l’Occidente. Il fenomeno fake news, nato da
un altro caso inesistente come il Russiagate, ha determinato un giro di
vite nei confronti dell’editoria web che non ha precedenti.
Google ha utilizzato il suo famoso
algoritmo di PageRank per di fatto censurare i siti di informazione che
abbiano una visione, soprattutto in politica estera, contraria alle
campagne di demonizzazione effettuate dai media occidentali. Sei una
pagina russa o filorussa? Google potrebbe presto bollarti come sito di
fake news e farti arretrare nel posizionamento all’interno del suo
motore di ricerca.
Più di Google si è spesa Twitter, il
social dei cinguettii, che da anni subisce un netto calo di popolarità
non vuole essere da meno e partecipare anch’essa all’operazione di
polizia del pensiero e da un po’ di tempo a questa parte si assiste a un
sistematico oscuramento di account e tweets scomodi: gli account dei
terroristi islamici dell’ISIS invece continuano a essere tollerati,
chissà perché.
Facebook invece ne ha fatto un vero e
proprio cruccio e da un anno a questa parte le pagine che non abbiano
già acquisito una certa popolarità sono state depotenziate della loro
capacità di entrare nel newsfeed dei loro seguaci, e commenti e post di
un certo tipo sono spesso soggetti a essere bollati come spam, i profili
degli utenti che si permettono di trattare certi argomenti che non
piacciono al politicamente corretto occidentale sono spesso soggetti a
chiusure temporanee o cancellazione.
Dalle parti di Obama e dei suoi
accoliti, che controllano alla grande informazione e media, devono aver
capito che internet può essere si un mezzo per inscenare rivolte e
rivoluzioni colorate, ma anche un mezzo per la controinformazione:
meglio che sui social quindi tornino a girare solo gattini e donnine in
posa per gli autoscatti.
Ma se il discorso delle multinazionali
si può comprendere, non pagano le tasse, figurarsi se ci aspettiamo che
rispettino la costituzione, quello che sta tentando di inscenare il
governo del PD con il suo sceriffo Minniti è intollerabile. Demandare
alla polizia il compito di svelare le bufale e non allo spirito critico
del lettore e tutt’al più al diritto di replica sancito dalla legge
sulla stampa è da polizia di regime. Un provvedimento quello del
ministro degli interni che farebbe impallidire i regimi del 900 ai quali
spesso la sinistra liberale si sente moralmente superiore.
Quella di permettere al cittadino
anonimo di decretare quali siano le notizie false ricorda allo stesso
tempo i delatori che permettevano ai regimi fascisti di individuare gli
ebrei da deportare o i nemici politici. Come abbiamo già ricordato già
le volte scorse in Italia esiste già una deontologia giornalistica
sancita dall’Ordine dei Giornalisti e dalle svariate leggi sulla stampa,
anche un articolo o un servizio che scrive fesserie ha lo stesso
diritto di parola degli altri salvo nei casi disciplinati dall’Ordine.
E questo è un principio costituzionale
che non può essere violato in nome di una caccia alle streghe o per
ottenere vantaggi politici. Soprattutto se questa morale sul giornalismo
viene fatta da un partito attorno al quale girano testate e giornalisti
che di certo non passerebbero indenni a un controllo serrato sulla
veridicità di quanto scrivono o dichiarano alla televisione.
Un esempio su tutti ce lo fornisce una
testata come Repubblica: per anni ha dato per buone le notizie
dell’Osservatorio dei diritti umani in Siria, che chi è informato sulle
questioni mediorientali conosce, più che un osservatorio è un piccolo
ufficio composto da una persona, Rami Abdul Rahman, un amico dei ribelli
scappato dalla Siria ai tempi di Hafez al Assad, che agisce nella
capitale del Regno Unito. L’Osservatorio è sempre stato in pratica il
megafono dei cosiddetti ribelli siriani, dunque tremendamente di parte,
ma la testata edita dal Gruppo Gedi (che detiene anche le quote del
gruppo editoriale l’Espresso) ha continuato per anni a citarlo come
fonte attendibile sui presunti crimini di Assad.
Ebbene all’inizio del nuovo anno un
giornalista di Repubblica ha finalmente avuto il coraggio di svelare la
verità che altri già avevano svelato. L’Osservatorio non è affidabile e
il buon giornalista Carlo Ciavoni lo svela con un articolo dal titolo
emblematico: “Siria, le narrazioni fasulle dell”Osservatorio siriano sui
diritti’ che copre i crimini dei cosiddetti ‘ribelli'”. Un articolo di
denuncia dei terroristi qaedisti erroneamente chiamati ribelli e della
loro cassa di risonanza mediatica. Il giorno dopo l’articolo non c’è
più, ma non è scomparso: la redazione di Repubblica gli ha sostituito
titolo e contenuti, mantenendo però lo stesso link, il titolo ora è
“Siria, il difficile mestiere di informare”, ma della denuncia di
Ciavoni non c’è traccia.
Ciavoni si giustificherà con un
comunicato su twitter con l’alibi della fretta, che lo aveva condotto a
scrivere un articolo considerato “fazioso”. Di fatto Ciavoni aveva
denunciato quanto denunciato da mezzo mondo dell’informazione da sette
anni a questa parte. A Repubblica però forse non ci tenevano a passare
come una testata che per anni ha prodotto sistematicamente le tanto
temute fake news che si vorrebbe censurare e allora ben venga la censura
di un loro collaboratore che ha svolto semplicemente il suo dovere
sancito dalla Costituzione italiana. Scusi a chi ha detto “fake news”?
Verrebbe da chiedersi a chi giova
tutto questo e perché il nostro paese dovrebbe seguire gli americani di
Obama e le loro multinazionali in questa follia di questa nuova
psicopolizia del XXI secolo. Avremmo ben altri e più gravi problemi da
risolvere.
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