Un
nuovo studio straordinario del
Pentagono ha concluso che l’ordine internazionale, sostenuto dagli USA,
stabilito dopo la Seconda Guerra Mondiale, si sta “logorando” e può
anche “collassare”, portando gli Stati Uniti a perdere la propria
posizione di “primato” negli affari del mondo.
La soluzione proposta per proteggere il potere statunitense, in
questo nuovo ambiente “post-primato”, è tuttavia sempre la stessa: più
sorveglianza, più propaganda (“manipolazione strategica delle
percezioni”) e più espansionismo militare.
Il documento conclude che il mondo è entrato essenzialmente in una
nuova fase di trasformazione, nella quale il potere statunitense è in
declino, l’ordine internazionale è in dissoluzione e l’autorità dei
governi in tutto il mondo va in frantumi.
Dopo aver perso lo status di “preminenza”del passato, gli Stati Uniti
ora vivono nel mondo pericoloso e imprevedibile del “post-primato”, il
cui carattere distintivo è la “resistenza all’autorità”.
Il pericolo non viene solo da grandi potenze rivali come Russia e
Cina, entrambe rappresentate come minacce in rapida affermazione per gli
interessi americani, ma anche dall’aumento del rischio di eventi in
stile “Primavera Araba”. Essi non scoppieranno solo in Medio Oriente, ma
in tutto il mondo, minando potenzialmente nei governi in carica la
fiducia nell’immediato futuro.
Il rapporto, basato su un processo di ricerca intensivo della durata
di un anno che ha previsto la consultazione con le agenzie chiave del
Dipartimento della Difesa e dell’Esercito degli Stati Uniti, richiede al
governo degli Stati Uniti di investire in maggiore sorveglianza, in
migliore propaganda, per mezzo della “manipolazione strategica”
dell’opinione pubblica, e in una “più ampia e condiscendente” forza
militare statunitense.
Il rapporto è stato pubblicato a giugno dall’ U.S. Army War College’s
Strategic Studies Institute per valutare l’approccio del DoD
nell’accertamento dei rischi, a tutti i livelli, della pianificazione
politica del Pentagono. Lo studio è stato sostenuto e sponsorizzato
dall’ U.S. Army’s Strategic Plans and Policy Directorate; dal Joint
Staff J5 (Sezione Strategia e Politica); dall’ Office of the Deputy
Secretary of Defense for Strategy and Force Development; e dall’Army
Study Program Management Office.
Collasso
Il rapporto lamenta il fatto che “Mentre gli USA rimangono, a livello
globale, un gigante politico, economico e militare, non godono più di
una posizione inattaccabile rispetto ai concorrenti dello Stato”.
“In breve, lo status quo
ordito e favorito dagli strateghi americani dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che da decenni è stato il fattore principale e ‘vitale’ per il DoD, non si sta solo sfaldando, ma può infatti collassare.”
Lo studio descrive la natura essenzialmente imperiale di
quest’ordine, sorretto dall’egemonia americana, con gli Stati Uniti e
gli alleati che “dettano” parola per parola le condizioni per promuovere
i propri interessi:
“L’ordine e le sue parti costituenti, emerse dalla Seconda Guerra
Mondiale, sono stati trasformati in un sistema unipolare con il crollo
dell’Unione Sovietica e da allora sono stati dominati, in linea di
massima, dagli Stati Uniti e dai suoi più importanti alleati,
occidentali e asiatici. Il collettivo delle forze dello status quo si
sente a proprio agio nel ruolo dominante, dettando i termini delle
conseguenze in ambito di sicurezza internazionale, e resiste alla
progressiva affermazione di centri rivali di potere e autorità”.
Ma è finito il periodo in cui gli Stati Uniti e i suoi alleati
potevano semplicemente ottenere ciò che vogliono. Rilevando che i
funzionari statunitensi “sentono intrinsecamente l’obbligo di preservare
la posizione globale degli Stati Uniti in un ordine internazionale
favorevole”, il rapporto conclude che questo “ordine mondiale basato su
regole che gli Stati Uniti hanno costruito e sostenuto per 7 decenni sta
subendo un’enorme pressione”.
Il rapporto fornisce una dettagliata scomposizione del modo in cui il
DoD percepisce che questo ordine si sta rapidamente dissolvendo, con il
Pentagono che si muove sempre più veloce rispetto agli eventi mondiali.
Avvertendo che “gli eventi globali avverranno più velocemente rispetto a
quanto il DoD sia attualmente dotato per la loro gestione”, lo studio
conclude che gli Stati Uniti “non possono più contare sulla posizione
inattaccabile di predominio, supremazia o preminenza che hanno goduto
per i 20 anni e più, successivi alla caduta dell’Unione Sovietica”.
Il potere degli Stati Uniti è così indebolito, che non può più
“generare automaticamente una superiorità militare locale, coerente e
sostenuta, da schierare in campo”.
Non è solo il potere statunitense a essere in declino. Lo studio dell’U.S. Army War College conclude che:
“Tutti gli Stati e le strutture tradizionali dell’autorità
politica sono sotto pressione crescente, da parte di forze endogene ed
esogene … La frattura del sistema globale post – Guerra Fredda è
accompagnata dallo sfilacciamento interno del tessuto politico, sociale
ed economico di quasi tutti gli Stati”.
Ma, come riporta il documento, questo non dovrebbe essere considerato
disfattismo, ma piuttosto un “campanello d’allarme”. Se non si fa nulla
per adattarsi a quest’ambiente “post-primato”, la complessità e la
velocità degli eventi mondiali “si opporranno sempre più alla strategia,
alla pianificazione e alla valutazione di rischio delle norme e delle
faziosità”.
Difendere lo status quo
Posizione preminente nell’elenco delle forze che hanno buttato giù
gli Stati Uniti dalla posizione di “preminenza” globale, afferma il
rapporto, è ricoperta dal ruolo delle potenze concorrenti – i principali
rivali come Russia e Cina, nonché figure di spicco più modesto come
Iran e Corea del Nord.
Il documento è particolarmente schietto nel determinare perché gli
Stati Uniti considerano minacce questi Paesi – non tanto a causa di
questioni militari concrete o relative alla sicurezza, ma soprattutto
perché il loro perseguimento dei legittimi interessi nazionali è in sé
valutato dannoso per il predominio americano.
Russia e Cina sono descritte come “forze revisioniste” che
beneficiano dell’ordine internazionale dominato dagli Stati Uniti, ma
che osano “cercare una nuova distribuzione di potere e autorità,
commisurata alla loro progressiva affermazione come rivali legittimi del
predominio statunitense”. Russia e Cina, dicono gli analisti, “sono
impegnate in un programma, con il quale intendono dimostrare i limiti
dell’autorità, della volontà, della portata, dell’influenza e
dell’impatto degli Stati Uniti”.
Il presupposto di questa conclusione è che l’ordine internazionale
dello “status quo”, sostenuto dagli Stati Uniti, è fondamentalmente
“favorevole” agli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Ogni
impegno a vantaggio dell’ordine globale opera “a favore” di chiunque
altro venga per abitudine considerato una minaccia per il potere e gli
interessi degli Stati Uniti.
Russia e Cina quindi “cercano di ridefinire la loro posizione nello
status quo esistente secondo modalità che, almeno, creino circostanze
più favorevoli per il perseguimento dei loro obiettivi principali”. A
prima vista, in ciò non sembra esserci niente di particolarmente grave.
Quindi gli analisti sottolineano che “una prospettiva più massimalista
le vede perseguire vantaggio a spese dirette degli Stati Uniti e dei
principali alleati occidentali e asiatici”.
La cosa più evidente è che nel documento viene dato poco spazio alla
conferma del modo in cui Russia e Cina costituiscono una minaccia
significativa per la sicurezza nazionale americana.
La sfida principale è che esse “mirano alla ridefinizione dello
status quo contemporaneo”, facendo uso di tecniche di “zona grigia”, che
coinvolgono “mezzi e metodi che vanno ben oltre la provocazione aperta o
esplicita e il conflitto”.
Queste “forme più oscure e meno evidenti di aggressione su base
statale”, malgrado la mancanza di una vera violenza, sono condannate –
ma poi, perdendo ogni senso di superiorità morale, lo studio del
Pentagono perora che gli stessi Stati Uniti dovrebbero “rientrare in una
zona grigia o ritirarsi”, per garantire la loro influenza.
Il documento espone anche le ragioni reali poiché gli Stati Uniti
sono ostili alle “forze rivoluzionarie” come Iran e Corea del Nord:
costituiscono ostacoli fondamentali per l’influenza imperiale degli
Stati Uniti in quelle zone. Loro sono:
“… né soddisfatte dell’ordine contemporaneo, né il suo prodotto …
Come minimo, esse intendono distruggere la portata dell’ordine guidato
dagli Stati Uniti, in ciò che percepiscono come loro legittima sfera
d’influenza. Sono anche decise a sostituire quest’ordine a livello
locale con nuove regole stabilite, dettate da loro”.
Lungi dall’impuntarsi, come il governo degli Stati Uniti fa
ufficialmente, sul fatto che Iran e Corea del Nord rappresentano minacce
nucleari, il documento insiste invece nel considerarle problematiche
per l’espansione dell’ordine “a guida americana”.
Perdere la guerra della propaganda
Nel mezzo della sfida rappresentata da questi poteri concorrenti, lo
studio del Pentagono sottolinea la minaccia da parte di forze non
statali che minano in modi diversi l’ordine “a guida americana”,
soprattutto tramite le informazioni.
L’“iperconnessione e la trasformazione delle informazioni in arma, la
disinformazione e la disaffezione”, osserva il gruppo di studio,
portano alla diffusione incontrollata delle informazioni. L’esito è che
il Pentagono affronta “l’inevitabile eliminazione della segretezza e
della sicurezza operativa”.
“L’ampio accesso incontrollato alla tecnologia, che davvero ora è
dato per scontato, sta minacciando sempre più i precedenti vantaggi
delle intenzioni discrete, segrete o occulte, azioni o attività… Alla
fine, i leader senior della difesa dovrebbero supporre che tutta
l’attività connessa alla difesa, dai piccoli movimenti tattici alle
grandi operazioni militari, avrebbero allora luogo completamente allo
scoperto, da questo punto in avanti”.
Questa rivoluzione delle informazioni, a sua volta, porta alla
“disintegrazione generalizzata delle strutture tradizionali di autorità …
alimentate e/o accelerate dall’iperconnessione e dall’evidente
decadimento e potenziale fallimento dello status quo post-Guerra
Fredda”.
Disordini civili
Evidenziando la minaccia rappresentata da gruppi come ISIS e
al-Qaeda, lo studio mostra anche che “l’instabilità senza capo (ad
esempio, la Primavera Araba)” è un importante fattore chiave di
“erosione generalizzata o dissoluzione delle strutture tradizionali di
autorità”.
Il documento accenna che è probabile che tali disordini civili di
popolo si affermino nelle patrie occidentali, inclusi gli Stati Uniti.
“Ad oggi, gli strateghi americani sono stati ossessionati da
questa tendenza nel più grande Medio Oriente. Tuttavia, le stesse forze
in gioco in loco stanno analogamente erodendo la portata e l’autorità
dei governi di tutto il mondo … sarebbe imprudente non riconoscere che
muteranno, diventeranno una metastasi e, nel tempo, si manifesteranno in
modo diverso”.
La patria statunitense è segnalata come particolarmente vulnerabile al collasso delle “strutture d’autorità tradizionale”:
“Gli Stati Uniti e la loro popolazione sono sempre più esposti a
danni ragguardevoli e all’erosione della sicurezza da parte di individui
e di piccoli gruppi di attori motivati, usando abilmente la convergenza
dell’iperconnessione, della paura e dell’aumento della vulnerabilità
per seminare disordine e incertezza. Questa forma di resistenza
all’autorità intensamente disorientante e scombussolante, giunge tramite
violenza fisica, virtuale e psicologica e può creare effetti che
appaiono, in buona sostanza, sproporzionati rispetto all’origine e alla
dimensione fisica o grado del prossimo rischio o minaccia”.
Tuttavia, si riflette poco sul ruolo del governo degli stessi Stati
Uniti nel sobillare una tale diffidenza endemica, per mezzo delle
proprie linee di condotta politica.
Fatti sgradevoli
Tra i fattori chiave più pericolosi di questo rischio di disordini
civili e di destabilizzazione di massa, il documento asserisce che vi
sono diverse categorie di fatto. Oltre all’evidente “fact-free”,
definita come informazioni che minano la “verità oggettiva”, le altre
categorie comprendono
verità reali che, tuttavia, sono danno per la reputazione mondiale dell’America.
Le informazioni “fact-inconvenient” consistono nell’esposizione dei
“dettagli che, implicitamente, minano la legittima autorità ed erodono
le relazioni tra i governi e governati” – fatti, ad esempio, che
rivelano quanto la politica di un governo è corrotta, incompetente e non
democratica.
Le informazioni “fact-perilous” si riferiscono sostanzialmente a
fughe di notizie inerenti la sicurezza nazionale, da parte di
informatori quali Edward Snowden o Chelsea Manning, “che svelano
informazioni altamente classificate, sensibili o private che possono
essere utilizzate per accelerare una perdita reale di vantaggio tattico,
operativo o strategico.”
Le informazioni “fact-toxic” riguardano verità reali che, il
documento recrimina, sono “esposte in assenza di contesto” per
avvelenare “la rilevanza del discorso politico”. Tali informazioni sono
considerate più persuasive nell’innescare insorgenze di disordini
civili, perché ciò:
“… inevitabilmente indebolisce i fondamenti della sicurezza a
livello internazionale, regionale, nazionale o personale. Infatti, le
esposizioni fact-toxic sono le più suscettibili a innescare insicurezza
virale o contagiosa attraverso o all’interno delle frontiere e tra un
popolo e l’altro o tra i popoli”.
In breve, il gruppo di studio dell’U.S. Army War College crede che la
diffusione di ‘fatti’che sfidano la legittimità dell’impero americano
sia un importante fattore chiave del suo declino: non il comportamento
effettivo dell’impero, come mostrato da tali fatti.
Sorveglianza di massa e guerra psicologica
Lo studio del Pentagono propone quindi due soluzioni alla minaccia delle informazioni.
La prima consiste nell’utilizzare meglio le capacità di sorveglianza
di massa degli Stati Uniti, che sono descritte come “il complesso
d’intelligence più grande e sofisticato e integrato al mondo”. Gli Stati
Uniti possono “generare una visione più rapida e più affidabile
rispetto alla capacità dei concorrenti, se optano in merito”. Insieme
alla loro “impertinente presenza militare e alla proiezione del potere”,
gli Stati Uniti si trovano in “un’invidiabile posizione di forza”.
È presumibile, tuttavia, che il problema è il fatto che gli Stati Uniti non usino completamente questa forza potenziale:
“Quella forza, però, sarà durevole solamente quanto la volontà
degli Stati Uniti di considerarla e di utilizzarla a proprio vantaggio.
Nella misura in cui gli Stati Uniti e la propria iniziativa di difesa
saranno la guida, altri seguiranno …”
Il documento critica anche le strategie americane di concentrarsi
troppo sul tentativo di difendersi contro gli sforzi stranieri di
penetrare o perturbare l’intelligence statunitense, a scapito dello
“sfruttamento mirato della stessa architettura per la manipolazione
strategica delle percezioni e la sua relativa influenza sui risultati
della politica e della sicurezza.”
I funzionari del Pentagono pertanto devono semplicemente accettare che:
“… la patria degli Stati Uniti, i singoli cittadini americani, e
l’opinione pubblica e le percezioni statunitensi diventeranno sempre più
campi di battaglia”.
Supremazia militare
Rimpiangendo la perdita del primato statunitense, il rapporto del
Pentagono considera l’espansione delle forze armate americane come unica
opzione.
Tuttavia non basta il consenso bipartisan sul suprematismo militare.
Il documento richiede una forza militare così potente che possa
salvaguardare la “massima libertà d’azione”, e consentire agli Stati
Uniti di “dettare o mantenere una significativa influenza sui risultati
nelle controversie internazionali”.
Ci si troverebbe in difficoltà nel trovare, in qualsiasi documento
dell’Esercito degli Stati Uniti, una dichiarazione più chiara
dell’intenzione imperiale:
“Mentre, come regola, i leader americani di entrambi i partiti
politici si sono costantemente impegnati a mantenere la superiorità
militare statunitense su tutti i potenziali Stati rivali, la realtà
post-primato richiede una forza militare più ampia e condiscendente che
possa generare vantaggio e opzioni nella più vasta gamma possibile di
esigenze militari. Per la leadership politica degli Stati Uniti, il
mantenimento del vantaggio militare preserva la massima libertà
d’azione… Infine, consente a chi prende le decisioni a livello
statunitense di avere la possibilità di dettare o detenere una
significativa influenza sui risultati delle controversie internazionali,
all’ombra di una considerevole capacità militare statunitense e della
promessa implicita di conseguenze inaccettabili, in caso si faccia uso
di tale potenziale”.
Ancora una volta, il potere militare è essenzialmente raffigurato
come uno strumento in mano agli Stati Uniti per forzare, minacciare e
persuadere altri Paesi a sottomettersi alle richieste degli Stati Uniti.
Il concetto stesso di ʽdifesaʼ è quindi riformato come capacità di
utilizzare forze militari travolgenti per raggiungere i suoi scopi –
tutto ciò che mina questa capacità finisce per apparire automaticamente
una minaccia che merita di essere attaccata.
Impero del capitale
Di conseguenza, un obiettivo fondamentale di questo espansionismo
militare è garantire che gli Stati Uniti e i suoi partner internazionali
abbiano “accesso senza ostacoli all’aria, al mare, allo spazio, al
cyberspazio e allo spettro elettromagnetico per assicurare la loro
sicurezza e prosperità”.
Ciò significa anche che gli Stati Uniti devono mantenere la
possibilità di accesso fisico a qualsiasi zona vogliano, ogniqualvolta
lovogliono:
“La mancanza o le limitazioni alla capacità degli Stati Uniti di
entrare e operare nelle zone chiave del mondo, ad esempio, minano sia la
sicurezza degli Stati Uniti, sia quella dei partner”.
Gli Stati Uniti devono quindi cercare di ridurre al minimo ogni
“interruzione deliberata, malevola o accidentale all’accesso ai beni
comuni, alle zone critiche, alle risorse e ai mercati”.
Senza mai riferirsi direttamente al ʽcapitalismoʼ, il documento
elimina ogni ambiguità su come il Pentagono consideri questa la nuova
era di “Conflitto Persistente 2.0”:
“… alcuni stanno combattendo la globalizzazione e la
globalizzazione sta anche contrattaccando attivamente. Tutte queste
forze, insieme, stanno lacerando il tessuto della sicurezza e
dell’amministrazione stabile alla quale tutti gli Stati aspirano e si
affidano per la sopravvivenza”.
Si tratta quindi di una guerra tra la globalizzazione capitalista condotta dagli Stati Uniti e coloro che resistono.
E per vincerla, il documento avanza una combinazione di strategie:
consolidare il complesso dell’intelligence degli Stati Uniti e
utilizzarlo più spietatamente; intensificare la sorveglianza di massa e
la propaganda per manipolare l’opinione pubblica; espandere il potere
militare statunitense per garantire l’accesso a “zone strategiche,
mercati e risorse”.
Ciononostante, l’obiettivo è nel complesso piuttosto modesto – per evitare che l’ordine a guida USA crolli ulteriormente:
“…. mentre lo status quo favorevole dominato dagli Stati Uniti è
sotto una forte pressione interna ed esterna, il potere americano
adattato può contribuire a scongiurare o addirittura ribaltare un palese
fallimento nelle zone più critiche”.
La speranza è che gli Stati Uniti siano in grado di modellare “un
ordine post-primato, a livello internazionale, ristrutturato e nondimeno
ancora favorevole”.