giovedì 30 novembre 2017

Ricchi per caso?

La storia economica d’Italia soffre spesso di una notevole disparità di attenzione rispetto agli altri grandi temi del dibattito storiografico contemporaneo. Se può apparire umanamente più interessante la vita politica, sociale e culturale rispetto alle dinamiche economiche di medio periodo, purtuttavia occorre comunque riconoscere ai processi produttivi e alle decisioni istituzionali di grande respiro un ruolo determinante nello studio dell’Italia di ieri e di oggi.
D’altro canto non per forza l’economia annoia o risulta pesante al lettore non specialista: le pregevoli opere di Cipolla, di Galbraith e di Luzzato dimostrano come il gusto e la colta misura della scrittura possano rendere ben intriganti le vicende narrate, non dimenticando mai il ruolo positivo della disciplina. La capacità di offrire una rilettura organica del mondo di ieri, infatti, permette di inserire i problemi contingenti di oggi in una prospettiva d’insieme, utile per intendere al meglio le possibilità di sviluppo e le tare secolari della realtà italiana.

La copertina del volume, saggio corale che comprende le opere di G. Cappelli, A. Colli, E. Felice, A. Nuvolari e A. Rinaldi.
In tal senso, il volume Ricchi per caso a cura di Paolo Di Martino e Michelangelo Vasta (Il Mulino, 319 pagine) mostra al meglio la potenza della storia economica, ricollegando al contempo l’analisi delle politiche economiche dello Stato unitario con i problemi irrisolti dell’epoca contemporanea. Il metodo utilizzato, cioè l’approccio istituzionale è utilizzato secondo la completa sintesi di Sergio Cesaratto
nell’accezione più anglosassone a cui si riferiscono gli autori le istituzioni si identificano sia con lo Stato che con le regole più informali che governano la società civile in un continuum spesso dimenticato da coloro che si scagliano contro la casta politica, quasi che vi fosse soluzione di continuità fra questa e la società da cui proviene.
Utilizzando un punto di vista sicuramente originale, l’opera coinvolge ambiti e strumenti metodologici pluridisciplinari, realizzando un saggio a più voci che ritrae con successo uno spaccato della classe dirigente italiana e del suo modo di esserlo- e non esserlo- nel corso dei 150 anni successivi all’Unità. Affrontata la traiettoria storica d’Italia, le fasi di ascesa e di stasi, il miracolo e il successivo declino, gli autori si soffermano nel tratteggiare la formazione e il ruolo del capitale umano nell’Italia contemporanea, con particolare attenzione alla storia della pubblica istruzione da Casati alla Gelmini. Alla debolezza strutturale dell’educazione nazionale- in termini quantitativi, qualitativi e di rapporto rispetto al resto del Vecchio Continente- il libro appaia l’altro grande problema dell’economia italiana: la dimensione e il ruolo della piccola impresa.
Su quest’aspetto a nostro avviso si evidenzia il punto di vista mainstream dell’opera. La piccola impresa italiana, secondo il testo, è improduttiva, non tiene il passo dello sviluppo tecnologico, non fa ricerca, “sopravvive” grazie a un fisco lasco e a una weltanschauung dominante che demonizza la grande industria capitalistica (e i suoi proprietari) a favore della fabrichetta artigianale dove il padrone è al tempo stesso operaio tra i suoi operai. In sostanza, l’ideologia liberale che informa il volume emerge in maniera stridente su questo tema, accompagnando alla descrizione storico-economica giudizi di valore di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Gli errori strategici del Capitale privato italiano hanno vanificato i grandiosi sforzi pioneristici in settori ad alta tecnologia: il caso della Olivetti parla da sé.
In effetti alcuni passaggi risultano eccessivamente forzati al fil rouge della casualità del benessere italiano, pendant del classico sminuimento delle qualità nazionali, come altresì appare abbastanza incomprensibile la scarsissima attenzione data in un testo di storia economica agli snodi fondamentali dell’unificazione monetaria e alle conseguenze devastanti del cambio fisso sulla dinamica economica italiana. Manca, ancora, qualunque accenno al divorzio Bankitalia-Tesoro del 1981, vero responsabile dell’aumento del debito pubblico, applicato da Beniamino Andreatta appositamente per distruggere quella piccola impresa che veniva reputata moralmente inutile e dannosa quando i dati produttivi dicevano ben altro.

Andamento della produttività italiana, francese e tedesca. Palesi gli stop italiani in concomitanza con l’irrigidimento del tasso di cambio (SME credibile prima e Euro poi). Fonte.
Se il tema dell’opera è “la parabola dello sviluppo economico italiano” non si possono tralasciare cesure così esiziali. Dal punto di vista prettamente storico, poi, non si può spiegare la svalutazione della Lira nel corso degli anni Settanta come un facilone metodo di governo dell’economia dimenticando di ricordare la natura esogena dell’impennata inflazionistica- la crisi petrolifera del 1973 non crediamo fosse colpa della DC- e che, in quel decennio, la combinazione di inflazione e svalutazione permisero un’irripetuta crescita reale dei salari e, quindi, uno spostamento della ricchezza dall’alto al basso mantenendo stabili occupazione e livello di benessere nonostante la strategia della tensione e la crisi del modello fordista fossero problematiche all’ordine del giorno in Occidente.

Salari, inflazione e movimento operaio produssero negli anni Settanta un’innegabile avanzamento del benessere tra le classi subalterne. A perderci, evidentemente, era il Capitale finanziario. (Fonte)
Tornando allora all’analisi istituzionale oggetto dell’opera, possiamo dunque concordare con il testo affermando che il Paese non è stato spesso in grado di offrire istituzioni all’altezza delle esigenze di una società moderna a capitalismo maturo. Le nostre conclusioni però risultano esattamente opposte a quelle degli autori. Il problema italiano ha riguardato e riguarda tutt’ora il grande Capitale privato, il suo esercito di interessi e di interessati che, infestando le istituzioni e le centrali mediatiche, è riuscito a piegare l’azione dello Stato sugli interessi di classe, contingenti e fatui, a danno del futuro del Paese. E’ l’interesse di classe a mantenere nell’Italia liberale nelll’ignoranza e nella miseria più nera la stragrande maggioranza degli italiani; è l’interesse di classe che lucra sulle commesse belliche e sul Fascismo; è l’interesse di classe, infine, che sabota la Costituzione e impedisce serie politiche di programmazione e di distribuzione della ricchezza.
Basti pensare in fondo alla scelta dell’Europa a mezzo vincolo esterno– e nel 1978 con lo SME e nel 1997 con l’Euro- per comprendere come un’élite dissociata e però sempre al potere informi ai suoi piaceri il destino di sessantuno milioni di italiani. Nella loro crassa ricchezza e nella crescente povertà d’Italia, poco c’entra il caso e molto, se non tutto, la sempiterna cupidigia reazionaria e antidemocratica delle classi dominanti.

Nessun commento:

Posta un commento