Le crisi, come ben sappiamo, sono i più grandi veicoli di cambiamenti e ribaltamenti storici. Le origini di questa tutta statunitense vera e propria “celebrazione” del consumismo, sono da ricercare fra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta dell’Ottocento, un momento che vide farsi largo alcune delle realtà economiche e finanziarie più influenti al mondo, cavalcate da personaggi distruttivamente incisivi quali Jay Gould e Kim Fisk, celeberrimi speculatori finanziari e primi promotori della febbre dell’oro, nonché fautori dello storico “Panico del 1869” uno dei più eclatanti tentativi di monopolizzazione del mercato dell’oro statunitense, avvenuto proprio durante il venerdì nero. Erano gli anni della frivola abbondanza post-seconda rivoluzione industriale e delle grandi banche d’affari, mai realmente sconfitte dall’amministrazione Jackson e anzi, viste sempre più di buon occhio anche dagli inquilini e frequentatori della Casa Bianca. Nel quadro di generale euforia e degenerata vitalità finanziaria, la festività del “Giorno del ringraziamento” altra celebrazione che a noi europei non può che apparire insulsa, deprecabile e anche alquanto pagliaccesca – per gli ovvi risvolti e risultati che ben tutti conosciamo ai danni dei nobili Nativi – in quegli anni fungeva da ideale data di inizio per le compere e grandi spese natalizie.
Con grande rammarico, possiamo constatare come non sia veramente cambiato nulla rispetto a più di un secolo addietro, anzi, lo scenario è peggiorato e di molto. Fu proprio la crisi del 2007, il famoso scoppio della bolla immobiliare a slanciare, con rinnovata follia consumistica, il già celebre venerdì nero. Dai giorni di quella che ora definiamo sui libri di storia come “Grande recessione”, sono state sempre più le orde che hanno dato prova di completo scollamento dalla realtà in cui sopravvivono. Innanzi ai nuovi templi della globalizzazione materialista, primo fra tutti l’odioso Wal-Mart, si accalcano masse di poveracci, capaci persino di prendere residenza per un lasso di tempo davanti a quelle luminose vetrine, pur di accaparrarsi prima di altri sciagurati, ogni genere di oggetto desiderabile e agguantabile. Ogni anno si contano i morti, i feriti e le violenze che questa tragedia causa puntualmente, diveniamo così ancor più consapevoli di quanto un simile trionfo del materialismo non è altro che che un esperimento, un metro di valutazione per quegli organi finanziari ben stretti ai mercati, per nulla bisognosi e sempre pronti a farsi due risate nell’ombra, osservando il livello di degrado animico e sociale a cui molti sono giunti. Consumare nell’ignoranza fino alla propria dipartita.
Chi ancora vuole dare peso ed importanza ad uno spirito slegato dalla materia, anziché farsi abbindolare dai fronzoli e i merletti di Macy’s, le parate in strada, i babbi natale con coca cola alla mano e le nauseabonde quantità di inutili merci, preferirà quell’intimo focolare domestico, la mistica atmosfera di una attesa secolare, tramandataci per sentirci realizzati in una dimensione diversa, ma purtroppo, non facilmente percettibile dalle intorpidite masse. Il venerdì nero è, come molte usanze statunitensi nate ieri, una fastidiosa glorificazione dell’oggetto ai danni della trascendenza e dell’alto simbolo che le festività calendariali rappresentano. Gli scioperi italiani, ora affiancati anche da quelli tedeschi contro il blob multinazionale Amazon, incarnazione del precariato globale, sono solo una piccola scintilla luminosa all’interno di una oscura voragine. Finché non sapremo abbattere il muro del consumismo, anche chi oggi manifesta contro chi lo sottopaga, in realtà, giuoca a fare la marionetta in un turpe spettacolo giramondo. Troppo facile invitare a recidere la fune del consumismo? Sarebbe già gran cosa non americanizzarci dunque, poiché se una analisi, seppur semplice e basilare, non ci aiuta a capire il terribile passo che stiamo compiendo, allora forse siamo già ad un punto di non ritorno. L’Italia non si merita tutto ciò e ancora adesso, nonostante tutto possiamo, forse ancora per poco, riconoscerci come i meno ammattiti e ammaliati da questa oscena e triste orgia del superfluo.