Un nuovo studio straordinario del
Pentagono ha concluso che l’ordine internazionale, sostenuto dagli USA,
stabilito dopo la Seconda Guerra Mondiale, si sta “logorando” e può
anche “collassare”, portando gli Stati Uniti a perdere la propria
posizione di “primato” negli affari del mondo.
La soluzione proposta per proteggere il potere statunitense, in questo nuovo ambiente “post-primato”, è tuttavia sempre la stessa: più sorveglianza, più propaganda (“manipolazione strategica delle percezioni”) e più espansionismo militare.
Il documento conclude che il mondo è entrato essenzialmente in una nuova fase di trasformazione, nella quale il potere statunitense è in declino, l’ordine internazionale è in dissoluzione e l’autorità dei governi in tutto il mondo va in frantumi.
Dopo aver perso lo status di “preminenza”del passato, gli Stati Uniti ora vivono nel mondo pericoloso e imprevedibile del “post-primato”, il cui carattere distintivo è la “resistenza all’autorità”.
Il pericolo non viene solo da grandi potenze rivali come Russia e Cina, entrambe rappresentate come minacce in rapida affermazione per gli interessi americani, ma anche dall’aumento del rischio di eventi in stile “Primavera Araba”. Essi non scoppieranno solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo, minando potenzialmente nei governi in carica la fiducia nell’immediato futuro.
Il rapporto, basato su un processo di ricerca intensivo della durata di un anno che ha previsto la consultazione con le agenzie chiave del Dipartimento della Difesa e dell’Esercito degli Stati Uniti, richiede al governo degli Stati Uniti di investire in maggiore sorveglianza, in migliore propaganda, per mezzo della “manipolazione strategica” dell’opinione pubblica, e in una “più ampia e condiscendente” forza militare statunitense.
Il rapporto è stato pubblicato a giugno dall’ U.S. Army War College’s Strategic Studies Institute per valutare l’approccio del DoD nell’accertamento dei rischi, a tutti i livelli, della pianificazione politica del Pentagono. Lo studio è stato sostenuto e sponsorizzato dall’ U.S. Army’s Strategic Plans and Policy Directorate; dal Joint Staff J5 (Sezione Strategia e Politica); dall’ Office of the Deputy Secretary of Defense for Strategy and Force Development; e dall’Army Study Program Management Office.
Collasso
Il rapporto lamenta il fatto che “Mentre gli USA rimangono, a livello globale, un gigante politico, economico e militare, non godono più di una posizione inattaccabile rispetto ai concorrenti dello Stato”.
“In breve, lo status quo ordito e favorito dagli strateghi americani dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che da decenni è stato il fattore principale e ‘vitale’ per il DoD, non si sta solo sfaldando, ma può infatti collassare.”
Lo studio descrive la natura essenzialmente imperiale di quest’ordine, sorretto dall’egemonia americana, con gli Stati Uniti e gli alleati che “dettano” parola per parola le condizioni per promuovere i propri interessi:
“L’ordine e le sue parti costituenti, emerse dalla Seconda Guerra Mondiale, sono stati trasformati in un sistema unipolare con il crollo dell’Unione Sovietica e da allora sono stati dominati, in linea di massima, dagli Stati Uniti e dai suoi più importanti alleati, occidentali e asiatici. Il collettivo delle forze dello status quo si sente a proprio agio nel ruolo dominante, dettando i termini delle conseguenze in ambito di sicurezza internazionale, e resiste alla progressiva affermazione di centri rivali di potere e autorità”.
Ma è finito il periodo in cui gli Stati Uniti e i suoi alleati potevano semplicemente ottenere ciò che vogliono. Rilevando che i funzionari statunitensi “sentono intrinsecamente l’obbligo di preservare la posizione globale degli Stati Uniti in un ordine internazionale favorevole”, il rapporto conclude che questo “ordine mondiale basato su regole che gli Stati Uniti hanno costruito e sostenuto per 7 decenni sta subendo un’enorme pressione”.
Il rapporto fornisce una dettagliata scomposizione del modo in cui il DoD percepisce che questo ordine si sta rapidamente dissolvendo, con il Pentagono che si muove sempre più veloce rispetto agli eventi mondiali. Avvertendo che “gli eventi globali avverranno più velocemente rispetto a quanto il DoD sia attualmente dotato per la loro gestione”, lo studio conclude che gli Stati Uniti “non possono più contare sulla posizione inattaccabile di predominio, supremazia o preminenza che hanno goduto per i 20 anni e più, successivi alla caduta dell’Unione Sovietica”.
Il potere degli Stati Uniti è così indebolito, che non può più “generare automaticamente una superiorità militare locale, coerente e sostenuta, da schierare in campo”.
Non è solo il potere statunitense a essere in declino. Lo studio dell’U.S. Army War College conclude che:
“Tutti gli Stati e le strutture tradizionali dell’autorità politica sono sotto pressione crescente, da parte di forze endogene ed esogene … La frattura del sistema globale post – Guerra Fredda è accompagnata dallo sfilacciamento interno del tessuto politico, sociale ed economico di quasi tutti gli Stati”.
Ma, come riporta il documento, questo non dovrebbe essere considerato disfattismo, ma piuttosto un “campanello d’allarme”. Se non si fa nulla per adattarsi a quest’ambiente “post-primato”, la complessità e la velocità degli eventi mondiali “si opporranno sempre più alla strategia, alla pianificazione e alla valutazione di rischio delle norme e delle faziosità”.
Difendere lo status quo
Posizione preminente nell’elenco delle forze che hanno buttato giù gli Stati Uniti dalla posizione di “preminenza” globale, afferma il rapporto, è ricoperta dal ruolo delle potenze concorrenti – i principali rivali come Russia e Cina, nonché figure di spicco più modesto come Iran e Corea del Nord.
Il documento è particolarmente schietto nel determinare perché gli Stati Uniti considerano minacce questi Paesi – non tanto a causa di questioni militari concrete o relative alla sicurezza, ma soprattutto perché il loro perseguimento dei legittimi interessi nazionali è in sé valutato dannoso per il predominio americano.
Russia e Cina sono descritte come “forze revisioniste” che beneficiano dell’ordine internazionale dominato dagli Stati Uniti, ma che osano “cercare una nuova distribuzione di potere e autorità, commisurata alla loro progressiva affermazione come rivali legittimi del predominio statunitense”. Russia e Cina, dicono gli analisti, “sono impegnate in un programma, con il quale intendono dimostrare i limiti dell’autorità, della volontà, della portata, dell’influenza e dell’impatto degli Stati Uniti”.
Il presupposto di questa conclusione è che l’ordine internazionale dello “status quo”, sostenuto dagli Stati Uniti, è fondamentalmente “favorevole” agli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Ogni impegno a vantaggio dell’ordine globale opera “a favore” di chiunque altro venga per abitudine considerato una minaccia per il potere e gli interessi degli Stati Uniti.
Russia e Cina quindi “cercano di ridefinire la loro posizione nello status quo esistente secondo modalità che, almeno, creino circostanze più favorevoli per il perseguimento dei loro obiettivi principali”. A prima vista, in ciò non sembra esserci niente di particolarmente grave. Quindi gli analisti sottolineano che “una prospettiva più massimalista le vede perseguire vantaggio a spese dirette degli Stati Uniti e dei principali alleati occidentali e asiatici”.
La cosa più evidente è che nel documento viene dato poco spazio alla conferma del modo in cui Russia e Cina costituiscono una minaccia significativa per la sicurezza nazionale americana.
La sfida principale è che esse “mirano alla ridefinizione dello status quo contemporaneo”, facendo uso di tecniche di “zona grigia”, che coinvolgono “mezzi e metodi che vanno ben oltre la provocazione aperta o esplicita e il conflitto”.
Queste “forme più oscure e meno evidenti di aggressione su base statale”, malgrado la mancanza di una vera violenza, sono condannate – ma poi, perdendo ogni senso di superiorità morale, lo studio del Pentagono perora che gli stessi Stati Uniti dovrebbero “rientrare in una zona grigia o ritirarsi”, per garantire la loro influenza.
Il documento espone anche le ragioni reali poiché gli Stati Uniti sono ostili alle “forze rivoluzionarie” come Iran e Corea del Nord: costituiscono ostacoli fondamentali per l’influenza imperiale degli Stati Uniti in quelle zone. Loro sono:
“… né soddisfatte dell’ordine contemporaneo, né il suo prodotto … Come minimo, esse intendono distruggere la portata dell’ordine guidato dagli Stati Uniti, in ciò che percepiscono come loro legittima sfera d’influenza. Sono anche decise a sostituire quest’ordine a livello locale con nuove regole stabilite, dettate da loro”.
Lungi dall’impuntarsi, come il governo degli Stati Uniti fa ufficialmente, sul fatto che Iran e Corea del Nord rappresentano minacce nucleari, il documento insiste invece nel considerarle problematiche per l’espansione dell’ordine “a guida americana”.
Perdere la guerra della propaganda
Nel mezzo della sfida rappresentata da questi poteri concorrenti, lo studio del Pentagono sottolinea la minaccia da parte di forze non statali che minano in modi diversi l’ordine “a guida americana”, soprattutto tramite le informazioni.
L’“iperconnessione e la trasformazione delle informazioni in arma, la disinformazione e la disaffezione”, osserva il gruppo di studio, portano alla diffusione incontrollata delle informazioni. L’esito è che il Pentagono affronta “l’inevitabile eliminazione della segretezza e della sicurezza operativa”.
“L’ampio accesso incontrollato alla tecnologia, che davvero ora è dato per scontato, sta minacciando sempre più i precedenti vantaggi delle intenzioni discrete, segrete o occulte, azioni o attività… Alla fine, i leader senior della difesa dovrebbero supporre che tutta l’attività connessa alla difesa, dai piccoli movimenti tattici alle grandi operazioni militari, avrebbero allora luogo completamente allo scoperto, da questo punto in avanti”.
Questa rivoluzione delle informazioni, a sua volta, porta alla “disintegrazione generalizzata delle strutture tradizionali di autorità … alimentate e/o accelerate dall’iperconnessione e dall’evidente decadimento e potenziale fallimento dello status quo post-Guerra Fredda”.
Disordini civili
Evidenziando la minaccia rappresentata da gruppi come ISIS e al-Qaeda, lo studio mostra anche che “l’instabilità senza capo (ad esempio, la Primavera Araba)” è un importante fattore chiave di “erosione generalizzata o dissoluzione delle strutture tradizionali di autorità”.
Il documento accenna che è probabile che tali disordini civili di popolo si affermino nelle patrie occidentali, inclusi gli Stati Uniti.
“Ad oggi, gli strateghi americani sono stati ossessionati da questa tendenza nel più grande Medio Oriente. Tuttavia, le stesse forze in gioco in loco stanno analogamente erodendo la portata e l’autorità dei governi di tutto il mondo … sarebbe imprudente non riconoscere che muteranno, diventeranno una metastasi e, nel tempo, si manifesteranno in modo diverso”.
La patria statunitense è segnalata come particolarmente vulnerabile al collasso delle “strutture d’autorità tradizionale”:
“Gli Stati Uniti e la loro popolazione sono sempre più esposti a danni ragguardevoli e all’erosione della sicurezza da parte di individui e di piccoli gruppi di attori motivati, usando abilmente la convergenza dell’iperconnessione, della paura e dell’aumento della vulnerabilità per seminare disordine e incertezza. Questa forma di resistenza all’autorità intensamente disorientante e scombussolante, giunge tramite violenza fisica, virtuale e psicologica e può creare effetti che appaiono, in buona sostanza, sproporzionati rispetto all’origine e alla dimensione fisica o grado del prossimo rischio o minaccia”.
Tuttavia, si riflette poco sul ruolo del governo degli stessi Stati Uniti nel sobillare una tale diffidenza endemica, per mezzo delle proprie linee di condotta politica.
Fatti sgradevoli
Tra i fattori chiave più pericolosi di questo rischio di disordini civili e di destabilizzazione di massa, il documento asserisce che vi sono diverse categorie di fatto. Oltre all’evidente “fact-free”, definita come informazioni che minano la “verità oggettiva”, le altre categorie comprendono verità reali che, tuttavia, sono danno per la reputazione mondiale dell’America.
Le informazioni “fact-inconvenient” consistono nell’esposizione dei “dettagli che, implicitamente, minano la legittima autorità ed erodono le relazioni tra i governi e governati” – fatti, ad esempio, che rivelano quanto la politica di un governo è corrotta, incompetente e non democratica.
Le informazioni “fact-perilous” si riferiscono sostanzialmente a fughe di notizie inerenti la sicurezza nazionale, da parte di informatori quali Edward Snowden o Chelsea Manning, “che svelano informazioni altamente classificate, sensibili o private che possono essere utilizzate per accelerare una perdita reale di vantaggio tattico, operativo o strategico.”
Le informazioni “fact-toxic” riguardano verità reali che, il documento recrimina, sono “esposte in assenza di contesto” per avvelenare “la rilevanza del discorso politico”. Tali informazioni sono considerate più persuasive nell’innescare insorgenze di disordini civili, perché ciò:
“… inevitabilmente indebolisce i fondamenti della sicurezza a livello internazionale, regionale, nazionale o personale. Infatti, le esposizioni fact-toxic sono le più suscettibili a innescare insicurezza virale o contagiosa attraverso o all’interno delle frontiere e tra un popolo e l’altro o tra i popoli”.
In breve, il gruppo di studio dell’U.S. Army War College crede che la diffusione di ‘fatti’che sfidano la legittimità dell’impero americano sia un importante fattore chiave del suo declino: non il comportamento effettivo dell’impero, come mostrato da tali fatti.
Sorveglianza di massa e guerra psicologica
Lo studio del Pentagono propone quindi due soluzioni alla minaccia delle informazioni.
La prima consiste nell’utilizzare meglio le capacità di sorveglianza di massa degli Stati Uniti, che sono descritte come “il complesso d’intelligence più grande e sofisticato e integrato al mondo”. Gli Stati Uniti possono “generare una visione più rapida e più affidabile rispetto alla capacità dei concorrenti, se optano in merito”. Insieme alla loro “impertinente presenza militare e alla proiezione del potere”, gli Stati Uniti si trovano in “un’invidiabile posizione di forza”.
È presumibile, tuttavia, che il problema è il fatto che gli Stati Uniti non usino completamente questa forza potenziale:
“Quella forza, però, sarà durevole solamente quanto la volontà degli Stati Uniti di considerarla e di utilizzarla a proprio vantaggio. Nella misura in cui gli Stati Uniti e la propria iniziativa di difesa saranno la guida, altri seguiranno …”
Il documento critica anche le strategie americane di concentrarsi troppo sul tentativo di difendersi contro gli sforzi stranieri di penetrare o perturbare l’intelligence statunitense, a scapito dello “sfruttamento mirato della stessa architettura per la manipolazione strategica delle percezioni e la sua relativa influenza sui risultati della politica e della sicurezza.”
I funzionari del Pentagono pertanto devono semplicemente accettare che:
“… la patria degli Stati Uniti, i singoli cittadini americani, e l’opinione pubblica e le percezioni statunitensi diventeranno sempre più campi di battaglia”.
Supremazia militare
Rimpiangendo la perdita del primato statunitense, il rapporto del Pentagono considera l’espansione delle forze armate americane come unica opzione.
Tuttavia non basta il consenso bipartisan sul suprematismo militare. Il documento richiede una forza militare così potente che possa salvaguardare la “massima libertà d’azione”, e consentire agli Stati Uniti di “dettare o mantenere una significativa influenza sui risultati nelle controversie internazionali”.
Ci si troverebbe in difficoltà nel trovare, in qualsiasi documento dell’Esercito degli Stati Uniti, una dichiarazione più chiara dell’intenzione imperiale:
“Mentre, come regola, i leader americani di entrambi i partiti politici si sono costantemente impegnati a mantenere la superiorità militare statunitense su tutti i potenziali Stati rivali, la realtà post-primato richiede una forza militare più ampia e condiscendente che possa generare vantaggio e opzioni nella più vasta gamma possibile di esigenze militari. Per la leadership politica degli Stati Uniti, il mantenimento del vantaggio militare preserva la massima libertà d’azione… Infine, consente a chi prende le decisioni a livello statunitense di avere la possibilità di dettare o detenere una significativa influenza sui risultati delle controversie internazionali, all’ombra di una considerevole capacità militare statunitense e della promessa implicita di conseguenze inaccettabili, in caso si faccia uso di tale potenziale”.
Ancora una volta, il potere militare è essenzialmente raffigurato come uno strumento in mano agli Stati Uniti per forzare, minacciare e persuadere altri Paesi a sottomettersi alle richieste degli Stati Uniti.
Il concetto stesso di ʽdifesaʼ è quindi riformato come capacità di utilizzare forze militari travolgenti per raggiungere i suoi scopi – tutto ciò che mina questa capacità finisce per apparire automaticamente una minaccia che merita di essere attaccata.
Impero del capitale
Di conseguenza, un obiettivo fondamentale di questo espansionismo militare è garantire che gli Stati Uniti e i suoi partner internazionali abbiano “accesso senza ostacoli all’aria, al mare, allo spazio, al cyberspazio e allo spettro elettromagnetico per assicurare la loro sicurezza e prosperità”.
Ciò significa anche che gli Stati Uniti devono mantenere la possibilità di accesso fisico a qualsiasi zona vogliano, ogniqualvolta lovogliono:
“La mancanza o le limitazioni alla capacità degli Stati Uniti di entrare e operare nelle zone chiave del mondo, ad esempio, minano sia la sicurezza degli Stati Uniti, sia quella dei partner”.
Gli Stati Uniti devono quindi cercare di ridurre al minimo ogni “interruzione deliberata, malevola o accidentale all’accesso ai beni comuni, alle zone critiche, alle risorse e ai mercati”.
Senza mai riferirsi direttamente al ʽcapitalismoʼ, il documento elimina ogni ambiguità su come il Pentagono consideri questa la nuova era di “Conflitto Persistente 2.0”:
“… alcuni stanno combattendo la globalizzazione e la globalizzazione sta anche contrattaccando attivamente. Tutte queste forze, insieme, stanno lacerando il tessuto della sicurezza e dell’amministrazione stabile alla quale tutti gli Stati aspirano e si affidano per la sopravvivenza”.
Si tratta quindi di una guerra tra la globalizzazione capitalista condotta dagli Stati Uniti e coloro che resistono.
E per vincerla, il documento avanza una combinazione di strategie: consolidare il complesso dell’intelligence degli Stati Uniti e utilizzarlo più spietatamente; intensificare la sorveglianza di massa e la propaganda per manipolare l’opinione pubblica; espandere il potere militare statunitense per garantire l’accesso a “zone strategiche, mercati e risorse”.
Ciononostante, l’obiettivo è nel complesso piuttosto modesto – per evitare che l’ordine a guida USA crolli ulteriormente:
“…. mentre lo status quo favorevole dominato dagli Stati Uniti è sotto una forte pressione interna ed esterna, il potere americano adattato può contribuire a scongiurare o addirittura ribaltare un palese fallimento nelle zone più critiche”.
La speranza è che gli Stati Uniti siano in grado di modellare “un ordine post-primato, a livello internazionale, ristrutturato e nondimeno ancora favorevole”.
La soluzione proposta per proteggere il potere statunitense, in questo nuovo ambiente “post-primato”, è tuttavia sempre la stessa: più sorveglianza, più propaganda (“manipolazione strategica delle percezioni”) e più espansionismo militare.
Il documento conclude che il mondo è entrato essenzialmente in una nuova fase di trasformazione, nella quale il potere statunitense è in declino, l’ordine internazionale è in dissoluzione e l’autorità dei governi in tutto il mondo va in frantumi.
Dopo aver perso lo status di “preminenza”del passato, gli Stati Uniti ora vivono nel mondo pericoloso e imprevedibile del “post-primato”, il cui carattere distintivo è la “resistenza all’autorità”.
Il pericolo non viene solo da grandi potenze rivali come Russia e Cina, entrambe rappresentate come minacce in rapida affermazione per gli interessi americani, ma anche dall’aumento del rischio di eventi in stile “Primavera Araba”. Essi non scoppieranno solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo, minando potenzialmente nei governi in carica la fiducia nell’immediato futuro.
Il rapporto, basato su un processo di ricerca intensivo della durata di un anno che ha previsto la consultazione con le agenzie chiave del Dipartimento della Difesa e dell’Esercito degli Stati Uniti, richiede al governo degli Stati Uniti di investire in maggiore sorveglianza, in migliore propaganda, per mezzo della “manipolazione strategica” dell’opinione pubblica, e in una “più ampia e condiscendente” forza militare statunitense.
Il rapporto è stato pubblicato a giugno dall’ U.S. Army War College’s Strategic Studies Institute per valutare l’approccio del DoD nell’accertamento dei rischi, a tutti i livelli, della pianificazione politica del Pentagono. Lo studio è stato sostenuto e sponsorizzato dall’ U.S. Army’s Strategic Plans and Policy Directorate; dal Joint Staff J5 (Sezione Strategia e Politica); dall’ Office of the Deputy Secretary of Defense for Strategy and Force Development; e dall’Army Study Program Management Office.
Collasso
Il rapporto lamenta il fatto che “Mentre gli USA rimangono, a livello globale, un gigante politico, economico e militare, non godono più di una posizione inattaccabile rispetto ai concorrenti dello Stato”.
“In breve, lo status quo ordito e favorito dagli strateghi americani dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che da decenni è stato il fattore principale e ‘vitale’ per il DoD, non si sta solo sfaldando, ma può infatti collassare.”
Lo studio descrive la natura essenzialmente imperiale di quest’ordine, sorretto dall’egemonia americana, con gli Stati Uniti e gli alleati che “dettano” parola per parola le condizioni per promuovere i propri interessi:
“L’ordine e le sue parti costituenti, emerse dalla Seconda Guerra Mondiale, sono stati trasformati in un sistema unipolare con il crollo dell’Unione Sovietica e da allora sono stati dominati, in linea di massima, dagli Stati Uniti e dai suoi più importanti alleati, occidentali e asiatici. Il collettivo delle forze dello status quo si sente a proprio agio nel ruolo dominante, dettando i termini delle conseguenze in ambito di sicurezza internazionale, e resiste alla progressiva affermazione di centri rivali di potere e autorità”.
Ma è finito il periodo in cui gli Stati Uniti e i suoi alleati potevano semplicemente ottenere ciò che vogliono. Rilevando che i funzionari statunitensi “sentono intrinsecamente l’obbligo di preservare la posizione globale degli Stati Uniti in un ordine internazionale favorevole”, il rapporto conclude che questo “ordine mondiale basato su regole che gli Stati Uniti hanno costruito e sostenuto per 7 decenni sta subendo un’enorme pressione”.
Il rapporto fornisce una dettagliata scomposizione del modo in cui il DoD percepisce che questo ordine si sta rapidamente dissolvendo, con il Pentagono che si muove sempre più veloce rispetto agli eventi mondiali. Avvertendo che “gli eventi globali avverranno più velocemente rispetto a quanto il DoD sia attualmente dotato per la loro gestione”, lo studio conclude che gli Stati Uniti “non possono più contare sulla posizione inattaccabile di predominio, supremazia o preminenza che hanno goduto per i 20 anni e più, successivi alla caduta dell’Unione Sovietica”.
Il potere degli Stati Uniti è così indebolito, che non può più “generare automaticamente una superiorità militare locale, coerente e sostenuta, da schierare in campo”.
Non è solo il potere statunitense a essere in declino. Lo studio dell’U.S. Army War College conclude che:
“Tutti gli Stati e le strutture tradizionali dell’autorità politica sono sotto pressione crescente, da parte di forze endogene ed esogene … La frattura del sistema globale post – Guerra Fredda è accompagnata dallo sfilacciamento interno del tessuto politico, sociale ed economico di quasi tutti gli Stati”.
Ma, come riporta il documento, questo non dovrebbe essere considerato disfattismo, ma piuttosto un “campanello d’allarme”. Se non si fa nulla per adattarsi a quest’ambiente “post-primato”, la complessità e la velocità degli eventi mondiali “si opporranno sempre più alla strategia, alla pianificazione e alla valutazione di rischio delle norme e delle faziosità”.
Difendere lo status quo
Posizione preminente nell’elenco delle forze che hanno buttato giù gli Stati Uniti dalla posizione di “preminenza” globale, afferma il rapporto, è ricoperta dal ruolo delle potenze concorrenti – i principali rivali come Russia e Cina, nonché figure di spicco più modesto come Iran e Corea del Nord.
Il documento è particolarmente schietto nel determinare perché gli Stati Uniti considerano minacce questi Paesi – non tanto a causa di questioni militari concrete o relative alla sicurezza, ma soprattutto perché il loro perseguimento dei legittimi interessi nazionali è in sé valutato dannoso per il predominio americano.
Russia e Cina sono descritte come “forze revisioniste” che beneficiano dell’ordine internazionale dominato dagli Stati Uniti, ma che osano “cercare una nuova distribuzione di potere e autorità, commisurata alla loro progressiva affermazione come rivali legittimi del predominio statunitense”. Russia e Cina, dicono gli analisti, “sono impegnate in un programma, con il quale intendono dimostrare i limiti dell’autorità, della volontà, della portata, dell’influenza e dell’impatto degli Stati Uniti”.
Il presupposto di questa conclusione è che l’ordine internazionale dello “status quo”, sostenuto dagli Stati Uniti, è fondamentalmente “favorevole” agli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Ogni impegno a vantaggio dell’ordine globale opera “a favore” di chiunque altro venga per abitudine considerato una minaccia per il potere e gli interessi degli Stati Uniti.
Russia e Cina quindi “cercano di ridefinire la loro posizione nello status quo esistente secondo modalità che, almeno, creino circostanze più favorevoli per il perseguimento dei loro obiettivi principali”. A prima vista, in ciò non sembra esserci niente di particolarmente grave. Quindi gli analisti sottolineano che “una prospettiva più massimalista le vede perseguire vantaggio a spese dirette degli Stati Uniti e dei principali alleati occidentali e asiatici”.
La cosa più evidente è che nel documento viene dato poco spazio alla conferma del modo in cui Russia e Cina costituiscono una minaccia significativa per la sicurezza nazionale americana.
La sfida principale è che esse “mirano alla ridefinizione dello status quo contemporaneo”, facendo uso di tecniche di “zona grigia”, che coinvolgono “mezzi e metodi che vanno ben oltre la provocazione aperta o esplicita e il conflitto”.
Queste “forme più oscure e meno evidenti di aggressione su base statale”, malgrado la mancanza di una vera violenza, sono condannate – ma poi, perdendo ogni senso di superiorità morale, lo studio del Pentagono perora che gli stessi Stati Uniti dovrebbero “rientrare in una zona grigia o ritirarsi”, per garantire la loro influenza.
Il documento espone anche le ragioni reali poiché gli Stati Uniti sono ostili alle “forze rivoluzionarie” come Iran e Corea del Nord: costituiscono ostacoli fondamentali per l’influenza imperiale degli Stati Uniti in quelle zone. Loro sono:
“… né soddisfatte dell’ordine contemporaneo, né il suo prodotto … Come minimo, esse intendono distruggere la portata dell’ordine guidato dagli Stati Uniti, in ciò che percepiscono come loro legittima sfera d’influenza. Sono anche decise a sostituire quest’ordine a livello locale con nuove regole stabilite, dettate da loro”.
Lungi dall’impuntarsi, come il governo degli Stati Uniti fa ufficialmente, sul fatto che Iran e Corea del Nord rappresentano minacce nucleari, il documento insiste invece nel considerarle problematiche per l’espansione dell’ordine “a guida americana”.
Perdere la guerra della propaganda
Nel mezzo della sfida rappresentata da questi poteri concorrenti, lo studio del Pentagono sottolinea la minaccia da parte di forze non statali che minano in modi diversi l’ordine “a guida americana”, soprattutto tramite le informazioni.
L’“iperconnessione e la trasformazione delle informazioni in arma, la disinformazione e la disaffezione”, osserva il gruppo di studio, portano alla diffusione incontrollata delle informazioni. L’esito è che il Pentagono affronta “l’inevitabile eliminazione della segretezza e della sicurezza operativa”.
“L’ampio accesso incontrollato alla tecnologia, che davvero ora è dato per scontato, sta minacciando sempre più i precedenti vantaggi delle intenzioni discrete, segrete o occulte, azioni o attività… Alla fine, i leader senior della difesa dovrebbero supporre che tutta l’attività connessa alla difesa, dai piccoli movimenti tattici alle grandi operazioni militari, avrebbero allora luogo completamente allo scoperto, da questo punto in avanti”.
Questa rivoluzione delle informazioni, a sua volta, porta alla “disintegrazione generalizzata delle strutture tradizionali di autorità … alimentate e/o accelerate dall’iperconnessione e dall’evidente decadimento e potenziale fallimento dello status quo post-Guerra Fredda”.
Disordini civili
Evidenziando la minaccia rappresentata da gruppi come ISIS e al-Qaeda, lo studio mostra anche che “l’instabilità senza capo (ad esempio, la Primavera Araba)” è un importante fattore chiave di “erosione generalizzata o dissoluzione delle strutture tradizionali di autorità”.
Il documento accenna che è probabile che tali disordini civili di popolo si affermino nelle patrie occidentali, inclusi gli Stati Uniti.
“Ad oggi, gli strateghi americani sono stati ossessionati da questa tendenza nel più grande Medio Oriente. Tuttavia, le stesse forze in gioco in loco stanno analogamente erodendo la portata e l’autorità dei governi di tutto il mondo … sarebbe imprudente non riconoscere che muteranno, diventeranno una metastasi e, nel tempo, si manifesteranno in modo diverso”.
La patria statunitense è segnalata come particolarmente vulnerabile al collasso delle “strutture d’autorità tradizionale”:
“Gli Stati Uniti e la loro popolazione sono sempre più esposti a danni ragguardevoli e all’erosione della sicurezza da parte di individui e di piccoli gruppi di attori motivati, usando abilmente la convergenza dell’iperconnessione, della paura e dell’aumento della vulnerabilità per seminare disordine e incertezza. Questa forma di resistenza all’autorità intensamente disorientante e scombussolante, giunge tramite violenza fisica, virtuale e psicologica e può creare effetti che appaiono, in buona sostanza, sproporzionati rispetto all’origine e alla dimensione fisica o grado del prossimo rischio o minaccia”.
Tuttavia, si riflette poco sul ruolo del governo degli stessi Stati Uniti nel sobillare una tale diffidenza endemica, per mezzo delle proprie linee di condotta politica.
Fatti sgradevoli
Tra i fattori chiave più pericolosi di questo rischio di disordini civili e di destabilizzazione di massa, il documento asserisce che vi sono diverse categorie di fatto. Oltre all’evidente “fact-free”, definita come informazioni che minano la “verità oggettiva”, le altre categorie comprendono verità reali che, tuttavia, sono danno per la reputazione mondiale dell’America.
Le informazioni “fact-inconvenient” consistono nell’esposizione dei “dettagli che, implicitamente, minano la legittima autorità ed erodono le relazioni tra i governi e governati” – fatti, ad esempio, che rivelano quanto la politica di un governo è corrotta, incompetente e non democratica.
Le informazioni “fact-perilous” si riferiscono sostanzialmente a fughe di notizie inerenti la sicurezza nazionale, da parte di informatori quali Edward Snowden o Chelsea Manning, “che svelano informazioni altamente classificate, sensibili o private che possono essere utilizzate per accelerare una perdita reale di vantaggio tattico, operativo o strategico.”
Le informazioni “fact-toxic” riguardano verità reali che, il documento recrimina, sono “esposte in assenza di contesto” per avvelenare “la rilevanza del discorso politico”. Tali informazioni sono considerate più persuasive nell’innescare insorgenze di disordini civili, perché ciò:
“… inevitabilmente indebolisce i fondamenti della sicurezza a livello internazionale, regionale, nazionale o personale. Infatti, le esposizioni fact-toxic sono le più suscettibili a innescare insicurezza virale o contagiosa attraverso o all’interno delle frontiere e tra un popolo e l’altro o tra i popoli”.
In breve, il gruppo di studio dell’U.S. Army War College crede che la diffusione di ‘fatti’che sfidano la legittimità dell’impero americano sia un importante fattore chiave del suo declino: non il comportamento effettivo dell’impero, come mostrato da tali fatti.
Sorveglianza di massa e guerra psicologica
Lo studio del Pentagono propone quindi due soluzioni alla minaccia delle informazioni.
La prima consiste nell’utilizzare meglio le capacità di sorveglianza di massa degli Stati Uniti, che sono descritte come “il complesso d’intelligence più grande e sofisticato e integrato al mondo”. Gli Stati Uniti possono “generare una visione più rapida e più affidabile rispetto alla capacità dei concorrenti, se optano in merito”. Insieme alla loro “impertinente presenza militare e alla proiezione del potere”, gli Stati Uniti si trovano in “un’invidiabile posizione di forza”.
È presumibile, tuttavia, che il problema è il fatto che gli Stati Uniti non usino completamente questa forza potenziale:
“Quella forza, però, sarà durevole solamente quanto la volontà degli Stati Uniti di considerarla e di utilizzarla a proprio vantaggio. Nella misura in cui gli Stati Uniti e la propria iniziativa di difesa saranno la guida, altri seguiranno …”
Il documento critica anche le strategie americane di concentrarsi troppo sul tentativo di difendersi contro gli sforzi stranieri di penetrare o perturbare l’intelligence statunitense, a scapito dello “sfruttamento mirato della stessa architettura per la manipolazione strategica delle percezioni e la sua relativa influenza sui risultati della politica e della sicurezza.”
I funzionari del Pentagono pertanto devono semplicemente accettare che:
“… la patria degli Stati Uniti, i singoli cittadini americani, e l’opinione pubblica e le percezioni statunitensi diventeranno sempre più campi di battaglia”.
Supremazia militare
Rimpiangendo la perdita del primato statunitense, il rapporto del Pentagono considera l’espansione delle forze armate americane come unica opzione.
Tuttavia non basta il consenso bipartisan sul suprematismo militare. Il documento richiede una forza militare così potente che possa salvaguardare la “massima libertà d’azione”, e consentire agli Stati Uniti di “dettare o mantenere una significativa influenza sui risultati nelle controversie internazionali”.
Ci si troverebbe in difficoltà nel trovare, in qualsiasi documento dell’Esercito degli Stati Uniti, una dichiarazione più chiara dell’intenzione imperiale:
“Mentre, come regola, i leader americani di entrambi i partiti politici si sono costantemente impegnati a mantenere la superiorità militare statunitense su tutti i potenziali Stati rivali, la realtà post-primato richiede una forza militare più ampia e condiscendente che possa generare vantaggio e opzioni nella più vasta gamma possibile di esigenze militari. Per la leadership politica degli Stati Uniti, il mantenimento del vantaggio militare preserva la massima libertà d’azione… Infine, consente a chi prende le decisioni a livello statunitense di avere la possibilità di dettare o detenere una significativa influenza sui risultati delle controversie internazionali, all’ombra di una considerevole capacità militare statunitense e della promessa implicita di conseguenze inaccettabili, in caso si faccia uso di tale potenziale”.
Ancora una volta, il potere militare è essenzialmente raffigurato come uno strumento in mano agli Stati Uniti per forzare, minacciare e persuadere altri Paesi a sottomettersi alle richieste degli Stati Uniti.
Il concetto stesso di ʽdifesaʼ è quindi riformato come capacità di utilizzare forze militari travolgenti per raggiungere i suoi scopi – tutto ciò che mina questa capacità finisce per apparire automaticamente una minaccia che merita di essere attaccata.
Impero del capitale
Di conseguenza, un obiettivo fondamentale di questo espansionismo militare è garantire che gli Stati Uniti e i suoi partner internazionali abbiano “accesso senza ostacoli all’aria, al mare, allo spazio, al cyberspazio e allo spettro elettromagnetico per assicurare la loro sicurezza e prosperità”.
Ciò significa anche che gli Stati Uniti devono mantenere la possibilità di accesso fisico a qualsiasi zona vogliano, ogniqualvolta lovogliono:
“La mancanza o le limitazioni alla capacità degli Stati Uniti di entrare e operare nelle zone chiave del mondo, ad esempio, minano sia la sicurezza degli Stati Uniti, sia quella dei partner”.
Gli Stati Uniti devono quindi cercare di ridurre al minimo ogni “interruzione deliberata, malevola o accidentale all’accesso ai beni comuni, alle zone critiche, alle risorse e ai mercati”.
Senza mai riferirsi direttamente al ʽcapitalismoʼ, il documento elimina ogni ambiguità su come il Pentagono consideri questa la nuova era di “Conflitto Persistente 2.0”:
“… alcuni stanno combattendo la globalizzazione e la globalizzazione sta anche contrattaccando attivamente. Tutte queste forze, insieme, stanno lacerando il tessuto della sicurezza e dell’amministrazione stabile alla quale tutti gli Stati aspirano e si affidano per la sopravvivenza”.
Si tratta quindi di una guerra tra la globalizzazione capitalista condotta dagli Stati Uniti e coloro che resistono.
E per vincerla, il documento avanza una combinazione di strategie: consolidare il complesso dell’intelligence degli Stati Uniti e utilizzarlo più spietatamente; intensificare la sorveglianza di massa e la propaganda per manipolare l’opinione pubblica; espandere il potere militare statunitense per garantire l’accesso a “zone strategiche, mercati e risorse”.
Ciononostante, l’obiettivo è nel complesso piuttosto modesto – per evitare che l’ordine a guida USA crolli ulteriormente:
“…. mentre lo status quo favorevole dominato dagli Stati Uniti è sotto una forte pressione interna ed esterna, il potere americano adattato può contribuire a scongiurare o addirittura ribaltare un palese fallimento nelle zone più critiche”.
La speranza è che gli Stati Uniti siano in grado di modellare “un ordine post-primato, a livello internazionale, ristrutturato e nondimeno ancora favorevole”.
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