Nuovo attacco dell’Ocse al sistema
pensionistico italiano. Secondo il rapporto «Pension at a glance 2017»,
reso noto ieri, questa spesa è pari al 16,3% del Pil (dato del 2013),
inferiore solo alla Grecia (17,4%) e doppia rispetto alla media Ocse
(8,2%). Dal 2000 sarebbe aumentata addirittura del 21%. Da sola, la
spesa previdenziale assorbirebbe un terzo di quella pubblica: il 32%
contro il 18% della media dei paesi Ocse. Questi dati sono fake news. È
stato da tempo chiarito – ma non ancora abbastanza, evidentemente, per
gli «esperti» dell’Ocse – che in Italia la spesa previdenziale contiene
quella dell’assistenza.
È un’anomalia, segnalata dai sindacati fino al presidente dell’Inps Tito Boeri secondo il quale l’Istituto dovrebbe chiamarsi «della Protezione sociale» e non della «Previdenza». Su 440 prestazioni erogate, solo 150 sarebbero di natura pensionistica. Felice Roberto Pizzuti ha scritto di recente su Il manifesto che, esclusi i trattamenti di fine rapporto (un salario differito, ammortizzatori sociali, non pensioni) e la valutazione al lordo delle ritenute fiscali (in Italia mediamente più elevate) la spesa netta per le pensioni è pari all’11% del Pil in linea con quella di Francia e Germania. Non solo. Secondo Alberto Brambilla, ex sottosegretario di un governo Berlusconi, i conti sarebbero in attivo. Le entrate sono di 172,2 miliardi, le spese 168,5 miliardi. L’attivo sarebbe di 3,7 miliardi, esclusa l’assistenza.
Ci si interroga sulle ragioni di questa disinformazione sistematica, del resto non nuova. Per Giorgio Ambrogioni, presidente del Cida, l’allarmismo dell’Ocse si spiega con la volontà politica di creare un conflitto generazione tra giovani e anziani, facendo credere che siano le pensioni di questi ultimi ad essere la causa della precarietà dei primi. C’è anche un altro motivo: dopo avere rapinato i dipendenti pubblici con il blocco degli stipendi e del turn-over, e avere tramortito quelli del privato con un taglio dei salari, tra i più bassi in Europa, ora è il turno delle pensioni usate come bancomat per prelievi straordinari o blocchi alla perequazione. Da ultima, deve avere pesato l’intenzione dei sindacati di bloccare l’aumento automatico dell’età pensionabile stabilita dalla «riforma» Fornero. Già la Commissione Ue ha avvertito il governo a non cedere a una richiesta in fondo modesta e ragionevole. L’avvertimento è diventato una minaccia la settimana scorsa quando è stata diffusa la «bufala» di una spesa pari a 88 miliardi di euro in più di quanto lo Stato incassa dai contributi, il 5,2% del Pil. Questa fake news è contenuta in un «rapporto sull’invecchiamento» della Commissione Ue.
Sul tavolo restano i problemi reali, creati a partire dalla riforma Dini del 1995. L’Italia è uno dei pochi paesi ad avere vincolato l’età pensionabile all’aspettativa di vita. Per questo motivo i giovani nati nel 1996 che oggi hanno vent’anni lavoreranno fino a 71 anni e 2 mesi. È la stima più alta di tutti i paesi Ocse dopo la Danimarca (74 anni). Ma queste cifre sono puramente indicative. Considerato il calo delle nascite (-100 mila in dieci anni) e l’aumento dell’età media (nel 2050 gli over 65 saranno il 72% contro una media Ocse del 53%) è possibile che l’asticella crescerà ancora di più, arrivando ai 75 anni prospettati da Tito Boeri o, perché no, anche 80. Al di là delle cifre, poco credibili, il senso delle riforme previdenziali – e del mercato del lavoro, dal «pacchetto Treu» del 1997 al Jobs Act del 2015 – che hanno portato a questa situazione è il seguente: in un’economia post-fordista, dove il lavoro «fisso» è destinato a essere sostituito da quello «precario», si lavorerà sempre di più, per tutta la vita, con stipendi irrisori e con pensioni da fame – sempre che i ventenni riescano a raggiungere il traguardo, «lavoretto» dopo «lavoretto». Una prospettiva non certo scontata rispetto alla quale nessuno – Ocse compreso – riesce a dare una spiegazione che non sia quella di considerare inevitabile la prospettiva disumana di una vita indebitata e povera per tutti.
Dietro il gran parlare sulle pensioni oggi c’è questa bomba sociale. E sono ancora in pochi a denunciarlo. Lo ha fatto ieri il segretario confederale Cgil Maurizio Landini per il quale «bisogna rimettere mano a una riforma delle pensioni sbagliata che non dà futuro ai giovani. Il sistema puramente contributivo non esiste al mondo tranne che in Cile. E mi sembra un bel disastro».
È un’anomalia, segnalata dai sindacati fino al presidente dell’Inps Tito Boeri secondo il quale l’Istituto dovrebbe chiamarsi «della Protezione sociale» e non della «Previdenza». Su 440 prestazioni erogate, solo 150 sarebbero di natura pensionistica. Felice Roberto Pizzuti ha scritto di recente su Il manifesto che, esclusi i trattamenti di fine rapporto (un salario differito, ammortizzatori sociali, non pensioni) e la valutazione al lordo delle ritenute fiscali (in Italia mediamente più elevate) la spesa netta per le pensioni è pari all’11% del Pil in linea con quella di Francia e Germania. Non solo. Secondo Alberto Brambilla, ex sottosegretario di un governo Berlusconi, i conti sarebbero in attivo. Le entrate sono di 172,2 miliardi, le spese 168,5 miliardi. L’attivo sarebbe di 3,7 miliardi, esclusa l’assistenza.
Ci si interroga sulle ragioni di questa disinformazione sistematica, del resto non nuova. Per Giorgio Ambrogioni, presidente del Cida, l’allarmismo dell’Ocse si spiega con la volontà politica di creare un conflitto generazione tra giovani e anziani, facendo credere che siano le pensioni di questi ultimi ad essere la causa della precarietà dei primi. C’è anche un altro motivo: dopo avere rapinato i dipendenti pubblici con il blocco degli stipendi e del turn-over, e avere tramortito quelli del privato con un taglio dei salari, tra i più bassi in Europa, ora è il turno delle pensioni usate come bancomat per prelievi straordinari o blocchi alla perequazione. Da ultima, deve avere pesato l’intenzione dei sindacati di bloccare l’aumento automatico dell’età pensionabile stabilita dalla «riforma» Fornero. Già la Commissione Ue ha avvertito il governo a non cedere a una richiesta in fondo modesta e ragionevole. L’avvertimento è diventato una minaccia la settimana scorsa quando è stata diffusa la «bufala» di una spesa pari a 88 miliardi di euro in più di quanto lo Stato incassa dai contributi, il 5,2% del Pil. Questa fake news è contenuta in un «rapporto sull’invecchiamento» della Commissione Ue.
Sul tavolo restano i problemi reali, creati a partire dalla riforma Dini del 1995. L’Italia è uno dei pochi paesi ad avere vincolato l’età pensionabile all’aspettativa di vita. Per questo motivo i giovani nati nel 1996 che oggi hanno vent’anni lavoreranno fino a 71 anni e 2 mesi. È la stima più alta di tutti i paesi Ocse dopo la Danimarca (74 anni). Ma queste cifre sono puramente indicative. Considerato il calo delle nascite (-100 mila in dieci anni) e l’aumento dell’età media (nel 2050 gli over 65 saranno il 72% contro una media Ocse del 53%) è possibile che l’asticella crescerà ancora di più, arrivando ai 75 anni prospettati da Tito Boeri o, perché no, anche 80. Al di là delle cifre, poco credibili, il senso delle riforme previdenziali – e del mercato del lavoro, dal «pacchetto Treu» del 1997 al Jobs Act del 2015 – che hanno portato a questa situazione è il seguente: in un’economia post-fordista, dove il lavoro «fisso» è destinato a essere sostituito da quello «precario», si lavorerà sempre di più, per tutta la vita, con stipendi irrisori e con pensioni da fame – sempre che i ventenni riescano a raggiungere il traguardo, «lavoretto» dopo «lavoretto». Una prospettiva non certo scontata rispetto alla quale nessuno – Ocse compreso – riesce a dare una spiegazione che non sia quella di considerare inevitabile la prospettiva disumana di una vita indebitata e povera per tutti.
Dietro il gran parlare sulle pensioni oggi c’è questa bomba sociale. E sono ancora in pochi a denunciarlo. Lo ha fatto ieri il segretario confederale Cgil Maurizio Landini per il quale «bisogna rimettere mano a una riforma delle pensioni sbagliata che non dà futuro ai giovani. Il sistema puramente contributivo non esiste al mondo tranne che in Cile. E mi sembra un bel disastro».
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