Se
non fosse preoccupante, la situazione globale sarebbe persino
divertente, in campo economico. Chiariamo subito: è divertente lo
spaesamento assoluto delle “massime autorità”, cresciute a caviale e
neoliberismo spinto, che da qualche tempo non ci capiscono più niente e
vanno a tentoni.
La crisi è tornata, anzi non se n’era mai andata. Qualcuno – nell’Occidente – era riuscito a riprendersi, ma a scapito di altri; il “gioco a somma zero” per cui alcuni ladri rubano ad altri ladri, ma questo non produce crescita. Le politiche monetarie a”ultra-accomodanti” hanno contenuto il potenziale esplosivo, ma dopo quasi dieci anni mostrano il fiato corto.
I recenti dati sull’economia europea (e Usa) sono stati definiti “terribili” dagli stessi rilevatori, soprattutto per quanto riguarda l’economia tedesca, che è il motore oggettivo dell’economia eruopea.
L’ultima mazzata è arrivata ieri dagli indici Pmi. Un indice un po’ spurio, ma affidabile, perché si basa su una un’indagine condotta tra i direttori (Purchasing Managers) delle aziende prese a campione. A costoro vengono poste domande sull’andamento dell’azienda e sulle prospettive a breve termine, e quindi sul numero di impiegati, l’andamento della produzione, ordini ricevuti, prezzi, distribuzione e aspettative future.
Le risposte vengono trasformate in forma statistica, su una scala da 0 a 100, in cui il valore 50 indica la soglia sotto la quale si sta andando in recessione, mentre sopra di essa ci sarà crescita.
L’indice manifatturiero tedesco (relativo ai settori propriamente industriali) è sceso a quota 41,4 punti dai 43,5 di agosto, peggiorando a vista d’occhio. Non solo; è il peggiore da oltre 10 anni, e sconta “Tutte le incertezze sui conflitti commerciali, l’outlook per l’industria automobilistica e l’esito di Brexit stanno paralizzando i nuovi ordini, ai minimi dalla crisi finanziaria del 2009“, secondo il capo economista dell’istitituo Markit, che conduce l’indagine.
E questa volta non arriva neppure la compensazione dall’indice dei servizi, che è sceso a 52,5 punti, in calo rispetto ai 54,8 di agosto (gli analisti speravano si fermassesse a 54,4). Insomma gli indici Pmi confermano che non ci saranno miglioramenti significativi dell’economia tedesca nel 2019. Anzi, una recessione tecnica è molto probabile. A catena, questa discesa coinvolgerà tutti I paesi europei in proporzione alla loro dipendenza dalle filiere produttive di Berlino.
Bene. A questo punto le politiche di austerità non servono più nemmeno alla Germania e all’Olanda (che ci hanno speculato sopra molto, visto che colpivano soprattutto gli altri paesi, in primis quelli mediterranei). Dunque bisogna inventarsi qualcosa di diverso.
E qui viene il divertente. Nella sua ultima uscita da presidente della Bce, Mario Draghi ha risposto a una domanda sulla possibilità di ricorrere all’helicopter money (la misura disperata di buttare denaro dall’alto sulle città, per far ripartire la crescita) addirittura citando la Modern Monetary Theory (Mmt), un ramo minore del pensiero keynesiano (o addirittura pre-keynesiano, riproponendo suggestioni del “cartalismo”) da decenni schernito come panzana da tutto il mondo accademico mondiale. “Ci sono oggettivamente molte idee interessanti. Non sono state discusse dal Consiglio Direttivo. Dovremmo interessarcene, anche se non sono ancora state implementate” alla prova dei fatti.
Le sue perplessità sono di altra natura, perché “Quando si studiano più attentamente – ha aggiunto Draghi – ci si rende conto che l’obiettivo di distribuire denaro ad un soggetto o ad un altro è un tipico compito della politica fiscale. Quindi una decisione dei governi, non delle banche centrali. E’ la governance politica di queste idee che deve essere ben gestita”.
Ma erano del resto “scelte politiche”, non “tecniche”, anche le misure decise dalla Bce all’inizio del suo mandato, tanto che ancora oggi restano definite come “non convenzionali”, ossia non previste né dai trattati, né dallo statuto, né dai manuali di macroeconomia liberista. Tentativi, improvvisazioni, reazioni sintomatiche alla malattia, che hanno però trasferito immense risorse monetarie a un sistema finanziario in agonia (“da un soggetto all’altro”, ossia con decisione politica)…
Insomma: anche lui va a tentoni, cercando nel caos di una crisi incontrollata barlumi e suggerimenti sempre meno standard. E’ il fallimento di un pensiero, quello “unico”, dopo 30 anni di dominio assoluto e monopolio (o quasi) delle cattedre di economia. Il che implica che ci sono poche idee diverse in giro, perlomeno avanzate da personalità “autorevoli”.
Abbiamo detto della mini-sterzata che dovrebbe segnare la presidenza di Christine Lagarde, dal 1 novembre, con “narrazione ambientalista” a corredo di altre iniezioni di liquidità, di dimensione incerte e durata ancor più oscura. Così come della reazione della Federal Reserve statunitense, sostanzialmente simile ma agevolata dalla dimensione solo “nazionale” delle scelte Usa.
Entrambe, nella sostanza, riedizioni del quantitative easing, ossia degli stimoli monetari, che fin qui hanno finito per gonfiare il mercato finanziario senza incidere nell’economia reale.
Ma il mondo non è più soltanto occidentale e l’imperialismo Usa non comanda più di tanto. Cosa accade dall’altra parte del pianeta?
Anche la Cina deve affrontare un rallentamento visto dei suoi peraltro insostenibili ritmi di crescita. Però una cosa è passare dal 10% annuo, di qualche tempo fa al 6,2% previsto per quest’anno; tutt’altra è galleggiare nella stagnazione della crescita zero o quasi.
Ma proprio stamattina il governatore della Banca popolare cinese, Yi Gang, ha spiegato pubblicamente che Pechino “non intende inseguire le altre banche centrali, non ne ha bisogno”. Al contrario, spingerà per nuovi investimenti.
Pechino negli ultimi anni ha preferito seguire la strada dello stimolo fiscale per affrontare il rallentamento della crescita; migliaia di miliardi di yuan in tagli fiscali e l’emissione di speciali titoli di Stato da parte delle amministrazioni locali per finanziare progetti infrastrutturali.
Di fatto, sul piano internazionale la politica fiscale cinese si attua nella Via della Seta, vettore per l’aumento della produttività totale dei fattori produttivi mediante le connessioni, conseguente reflazione salariale nel continente asiatico (ossia forti aumenti salariali, al contrario che in Europa) e dunque nascita di un mercato alternativo a quello occidentale in crisi.
Non prendono invece in considerazione, almeno per ora, gli “stimoli monetari”. Non ne hanno bisogno, perché il loro cavallo “beve”, al contrario di quelli occidentali, e hanno liquidità da investire in progetti strategici. Altri “stimoli monetari” sarebbero un regalo immotivato al sistema finanziario occidentale, soprattutto statunitense. E con la guerra dei dazi in corso, non se ne vedrebbe neanche geopoliticamente il motivo…
Mentre qui in Europa, come si dice “chi vorrebbe spendere non può” (per la Ue vieta nuova spesa in deficit), e “chi potrebbe spendere non vuole” (perché comanda nella Ue, e nessuno gli può ordinare di farlo).
Così stiamo assistendo a un “sorpasso” storico, grazie a strategie economiche opposte.
Sempre capitalismo è, diranno in tanti. Sì, ma quello vecchio non funziona neanche più.
La crisi è tornata, anzi non se n’era mai andata. Qualcuno – nell’Occidente – era riuscito a riprendersi, ma a scapito di altri; il “gioco a somma zero” per cui alcuni ladri rubano ad altri ladri, ma questo non produce crescita. Le politiche monetarie a”ultra-accomodanti” hanno contenuto il potenziale esplosivo, ma dopo quasi dieci anni mostrano il fiato corto.
I recenti dati sull’economia europea (e Usa) sono stati definiti “terribili” dagli stessi rilevatori, soprattutto per quanto riguarda l’economia tedesca, che è il motore oggettivo dell’economia eruopea.
L’ultima mazzata è arrivata ieri dagli indici Pmi. Un indice un po’ spurio, ma affidabile, perché si basa su una un’indagine condotta tra i direttori (Purchasing Managers) delle aziende prese a campione. A costoro vengono poste domande sull’andamento dell’azienda e sulle prospettive a breve termine, e quindi sul numero di impiegati, l’andamento della produzione, ordini ricevuti, prezzi, distribuzione e aspettative future.
Le risposte vengono trasformate in forma statistica, su una scala da 0 a 100, in cui il valore 50 indica la soglia sotto la quale si sta andando in recessione, mentre sopra di essa ci sarà crescita.
L’indice manifatturiero tedesco (relativo ai settori propriamente industriali) è sceso a quota 41,4 punti dai 43,5 di agosto, peggiorando a vista d’occhio. Non solo; è il peggiore da oltre 10 anni, e sconta “Tutte le incertezze sui conflitti commerciali, l’outlook per l’industria automobilistica e l’esito di Brexit stanno paralizzando i nuovi ordini, ai minimi dalla crisi finanziaria del 2009“, secondo il capo economista dell’istitituo Markit, che conduce l’indagine.
E questa volta non arriva neppure la compensazione dall’indice dei servizi, che è sceso a 52,5 punti, in calo rispetto ai 54,8 di agosto (gli analisti speravano si fermassesse a 54,4). Insomma gli indici Pmi confermano che non ci saranno miglioramenti significativi dell’economia tedesca nel 2019. Anzi, una recessione tecnica è molto probabile. A catena, questa discesa coinvolgerà tutti I paesi europei in proporzione alla loro dipendenza dalle filiere produttive di Berlino.
Bene. A questo punto le politiche di austerità non servono più nemmeno alla Germania e all’Olanda (che ci hanno speculato sopra molto, visto che colpivano soprattutto gli altri paesi, in primis quelli mediterranei). Dunque bisogna inventarsi qualcosa di diverso.
E qui viene il divertente. Nella sua ultima uscita da presidente della Bce, Mario Draghi ha risposto a una domanda sulla possibilità di ricorrere all’helicopter money (la misura disperata di buttare denaro dall’alto sulle città, per far ripartire la crescita) addirittura citando la Modern Monetary Theory (Mmt), un ramo minore del pensiero keynesiano (o addirittura pre-keynesiano, riproponendo suggestioni del “cartalismo”) da decenni schernito come panzana da tutto il mondo accademico mondiale. “Ci sono oggettivamente molte idee interessanti. Non sono state discusse dal Consiglio Direttivo. Dovremmo interessarcene, anche se non sono ancora state implementate” alla prova dei fatti.
Le sue perplessità sono di altra natura, perché “Quando si studiano più attentamente – ha aggiunto Draghi – ci si rende conto che l’obiettivo di distribuire denaro ad un soggetto o ad un altro è un tipico compito della politica fiscale. Quindi una decisione dei governi, non delle banche centrali. E’ la governance politica di queste idee che deve essere ben gestita”.
Ma erano del resto “scelte politiche”, non “tecniche”, anche le misure decise dalla Bce all’inizio del suo mandato, tanto che ancora oggi restano definite come “non convenzionali”, ossia non previste né dai trattati, né dallo statuto, né dai manuali di macroeconomia liberista. Tentativi, improvvisazioni, reazioni sintomatiche alla malattia, che hanno però trasferito immense risorse monetarie a un sistema finanziario in agonia (“da un soggetto all’altro”, ossia con decisione politica)…
Insomma: anche lui va a tentoni, cercando nel caos di una crisi incontrollata barlumi e suggerimenti sempre meno standard. E’ il fallimento di un pensiero, quello “unico”, dopo 30 anni di dominio assoluto e monopolio (o quasi) delle cattedre di economia. Il che implica che ci sono poche idee diverse in giro, perlomeno avanzate da personalità “autorevoli”.
Abbiamo detto della mini-sterzata che dovrebbe segnare la presidenza di Christine Lagarde, dal 1 novembre, con “narrazione ambientalista” a corredo di altre iniezioni di liquidità, di dimensione incerte e durata ancor più oscura. Così come della reazione della Federal Reserve statunitense, sostanzialmente simile ma agevolata dalla dimensione solo “nazionale” delle scelte Usa.
Entrambe, nella sostanza, riedizioni del quantitative easing, ossia degli stimoli monetari, che fin qui hanno finito per gonfiare il mercato finanziario senza incidere nell’economia reale.
Ma il mondo non è più soltanto occidentale e l’imperialismo Usa non comanda più di tanto. Cosa accade dall’altra parte del pianeta?
Anche la Cina deve affrontare un rallentamento visto dei suoi peraltro insostenibili ritmi di crescita. Però una cosa è passare dal 10% annuo, di qualche tempo fa al 6,2% previsto per quest’anno; tutt’altra è galleggiare nella stagnazione della crescita zero o quasi.
Ma proprio stamattina il governatore della Banca popolare cinese, Yi Gang, ha spiegato pubblicamente che Pechino “non intende inseguire le altre banche centrali, non ne ha bisogno”. Al contrario, spingerà per nuovi investimenti.
Pechino negli ultimi anni ha preferito seguire la strada dello stimolo fiscale per affrontare il rallentamento della crescita; migliaia di miliardi di yuan in tagli fiscali e l’emissione di speciali titoli di Stato da parte delle amministrazioni locali per finanziare progetti infrastrutturali.
Di fatto, sul piano internazionale la politica fiscale cinese si attua nella Via della Seta, vettore per l’aumento della produttività totale dei fattori produttivi mediante le connessioni, conseguente reflazione salariale nel continente asiatico (ossia forti aumenti salariali, al contrario che in Europa) e dunque nascita di un mercato alternativo a quello occidentale in crisi.
Non prendono invece in considerazione, almeno per ora, gli “stimoli monetari”. Non ne hanno bisogno, perché il loro cavallo “beve”, al contrario di quelli occidentali, e hanno liquidità da investire in progetti strategici. Altri “stimoli monetari” sarebbero un regalo immotivato al sistema finanziario occidentale, soprattutto statunitense. E con la guerra dei dazi in corso, non se ne vedrebbe neanche geopoliticamente il motivo…
Mentre qui in Europa, come si dice “chi vorrebbe spendere non può” (per la Ue vieta nuova spesa in deficit), e “chi potrebbe spendere non vuole” (perché comanda nella Ue, e nessuno gli può ordinare di farlo).
Così stiamo assistendo a un “sorpasso” storico, grazie a strategie economiche opposte.
Sempre capitalismo è, diranno in tanti. Sì, ma quello vecchio non funziona neanche più.
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