Il
capitale multinazionale si muove come vuole, si sposta cercando di
ridurre i costi di produzione (uniche variabili, ormai, sono i salari e
le politiche fiscali nazionali), delocalizza, sfrutta territori e
persone e se ne va.
Ma oltre a questa dinamica, ormai consaputa, rispetto alla quale gli Stati nazionali si comportano da servi (per debolezza o per convinzione ideologico-corruttiva), c’è anche la saturazione di mercato per alcune merci, mentre sorgono (a ritmo sempre più lento) nuovi bisogni indotti e merci in grado di soddisfarli.
La fuga del capitale multinazionale ha come unica risposta possibile la nazionalizzazione degli stabilimenti che vengono abbandonati, con terribili conseguenze sull’occupazione, specie in territori che non presentano particolare densità industriale.
Ma – è questo il merito della riflessione di Andrea Genovese e Mario Pansera – non tutti i settori produttivi sono uguali. Nazionalizzare uno stabilimento che produce merci “mature”, per cui esiste solo un mercato di sostituzione (peraltro rallentata dai bassi salari medi, che limitano i consumi) può avere un senso per tutelare l’occupazione, ma essere un fallimento nelle normali dinamiche “di mercato”.
Dunque si pone una domanda importante per chiunque non sia asservito ai desiderata del capitale: quali nazionalizzazioni sono strategiche e quali no? Una volta espropriata la fabbrica – senza indennizzo – bisogna sapere se quella produzione è ancora significativa (e in che misura) e cominciare a pensare a riconvertire su altri prodotti. Per cui in genere servono altri tipologie di stabilimento, ossia con nuovi investimenti
Insomma, salvaguardia dell’occupazione e utilità sociale della produzione debbono essere pensate come un tutto. Una volta era quasi normale chiedersi: cosa produrre e come, per soddisfare quali bisogni?
Non sarebbe del resto utile ridurre un punto di programma strategico come le nazionalizzazioni a “pillola” per curare qualsiasi malattia. Una visione alternativa della formazione sociale non può del resto limitarsi alla sola difesa del patrimonio industriale esistente (primo passo ovviamente necessario, altrimenti si affonda nel passato remoto), ma deve misurarsi con le modalità concrete della trasformazione produttiva possibile.
Buona lettura.
*****
Ma oltre a questa dinamica, ormai consaputa, rispetto alla quale gli Stati nazionali si comportano da servi (per debolezza o per convinzione ideologico-corruttiva), c’è anche la saturazione di mercato per alcune merci, mentre sorgono (a ritmo sempre più lento) nuovi bisogni indotti e merci in grado di soddisfarli.
La fuga del capitale multinazionale ha come unica risposta possibile la nazionalizzazione degli stabilimenti che vengono abbandonati, con terribili conseguenze sull’occupazione, specie in territori che non presentano particolare densità industriale.
Ma – è questo il merito della riflessione di Andrea Genovese e Mario Pansera – non tutti i settori produttivi sono uguali. Nazionalizzare uno stabilimento che produce merci “mature”, per cui esiste solo un mercato di sostituzione (peraltro rallentata dai bassi salari medi, che limitano i consumi) può avere un senso per tutelare l’occupazione, ma essere un fallimento nelle normali dinamiche “di mercato”.
Dunque si pone una domanda importante per chiunque non sia asservito ai desiderata del capitale: quali nazionalizzazioni sono strategiche e quali no? Una volta espropriata la fabbrica – senza indennizzo – bisogna sapere se quella produzione è ancora significativa (e in che misura) e cominciare a pensare a riconvertire su altri prodotti. Per cui in genere servono altri tipologie di stabilimento, ossia con nuovi investimenti
Insomma, salvaguardia dell’occupazione e utilità sociale della produzione debbono essere pensate come un tutto. Una volta era quasi normale chiedersi: cosa produrre e come, per soddisfare quali bisogni?
Non sarebbe del resto utile ridurre un punto di programma strategico come le nazionalizzazioni a “pillola” per curare qualsiasi malattia. Una visione alternativa della formazione sociale non può del resto limitarsi alla sola difesa del patrimonio industriale esistente (primo passo ovviamente necessario, altrimenti si affonda nel passato remoto), ma deve misurarsi con le modalità concrete della trasformazione produttiva possibile.
Buona lettura.
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Nazionalizzare. Cui Prodest?
La
grave vicenda della Whirlpool di Napoli Est ci offre l’opportunità di
sviluppare alcuni attuali spunti di riflessione sulla questione della
produzione industriale, con particolare riferimento al settore degli
elettrodomestici.
L’industria degli Elettrodomestici
A
livello mondiale, il mercato del Grande Elettrodomestico continua a
riportare trend positivi. Nel 2018, l’industria globale ha riportato un
fatturato complessivo di 178 miliardi di euro (+2% circa rispetto al
2017). Una crescita, tuttavia, attribuibile prevalentemente alle
dinamiche fortemente positive delle economie emergenti, come Cina,
Vietnam (+21%; la regione Asia-Pacifico, nel suo complesso,
contribuisce al 66% della crescita totale), Russia (+11%), America
Latina (+9%). Molto positivo anche il trend dell’APAC, che contribuisce
al 66% della crescita totale.
In Europa, i dati sono però negativi. Ad esempio, dopo anni di crescita sostenuta, il mercato tedesco sta vivendo una fase di stallo, pur rimanendo il terzo al mondo. Nel 2018, l’Italia ha registrato un trend negativo (-4%), accompagnato da un decremento dei prezzi medi. Neppure i processi di obsolescenza programmata, dunque, riescono a mantenere il mercato europeo in linea di galleggiamento.
A
fronte di questi dati, alcuni segmenti continuano a riportare
prestazioni positive: le lavatrici con capacità di carico elevate
(superiori ai 9 kg, che registrano una crescita di ben il 61%) e quelle
smart (+24%), che sono arrivate a rappresentare il 27% del mercato (in
termini di valore) nel 2018.
Non
sorprende, dunque, il fatto che la produzione di grandi
elettrodomestici in Italia sia scesa ai minimi storici. Ad affermarlo è Ceced Italia,
l’associazione che raggruppa i produttori di apparecchi domestici e
professionali. I dati parlano chiaro: la produzione si è ridotta di un
terzo negli ultimi 15 anni. Nello specifico, nel 2017, le lavatrici sono
calate del -14% mentre sono aumentate le lavastoviglie (+6,5%) e i
frigoriferi sono rimasti stabili. Il segmento cottura è diminuito con un
-12% per i forni e un -13,7% per i piani di cottura.
Anche
l’export è diminuito del -19% nel secondo semestre 2017, a conferma che
l’Italia non è più produttore di grandi volumi, ma si è riposizionato
verso l’alto la gamma, provando a rispondere ad una domanda che è
certamente rilevante nel resto d’Europa.
Per
quanto riguarda la rete produttiva italiana, gli ultimi anni si sono
caratterizzati per chiusure e concentrazioni. In generale, sul
territorio operano oggi le due multinazionali Whirlpool ed Electrolux.
Whirlpool ha il quartier generale delle attività per l’Europa e il
Medio-Oriente a Pero (in provincia di Milano); al momento, mantiene sei
siti produttivi in Italia: Fabriano (piani cottura), Comunanza
(lavatrici), Cassinetta di Biandronno (elettrodomestici da incasso),
Siena (congelatori), Carinaro (ricambi e accessori), Napoli (lavatrici).
Electrolux è attiva in 4 poli: a Porcia e Susegana (lavatrici e
frigoriferi), Forlì (cottura) e Solaro (lavastoviglie). L’italiana Candy
ha Brugherio (lavatrici), mentre sul mercato è entrata anche la cinese
Haier, che produce frigoriferi a Campodoro.
Il rapporto del Ceced ha evidenziato inoltre che l’Italia, nonostante la grave contrazione, resta al secondo posto dopo la Germania come
polo manifatturiero dell’elettrodomestico, prima di Francia, Spagna, UK
e Polonia, considerata il più forte produttore emergente (grazie alle
recenti delocalizzazioni produttive avvenute a seguito dell’ingresso di
questo paese nell’Unione Europea).
Una crisi di sistema
Lo
scenario è il solito. Uno stabilimento di una multinazionale, che ha
beneficiato, in passato, di grossi e grassi contributi pubblici, viene
inserito nella lista delle possibili dismissioni. Un fatto al quale
abbiamo, tristemente, fatto l’abitudine. Una consuetudine logica,
nell’era delle catene del valore globali che, secondo un moderno divide et impera,
scompongono la produzione gerarchicamente, estremizzando, anche a
livello territoriale, i concetti di divisione del lavoro e di
specializzazione per acquisire forme di controllo totalizzante.
Forme,
queste ultime, necessarie al grande capitale per perseguire repentine
ristrutturazioni, in un contesto caratterizzato da un surplus di
capacità produttiva; da una forte crisi della domanda aggregata in
occidente (a seguito di anni di austerità e politiche deflazionistiche);
da realtà produttive asiatiche che, ormai affrancate dal modello
competitivo a basso costo si caratterizzano per alto valore aggiunto e
contenuto innovativo (si pensi agli elettrodomestici iperconnessi basati
sul paradigma dell’internet delle cose, e alla leadership cinese nel settore).
Quali Soluzioni?
In
questo contesto, la soluzione proposta dal sindacalismo di classe e
dalla sinistra radicale risponde alla parola d’ordine della nazionalizzazione.
La domanda che, umilmente, ci poniamo è: cui prodest?
Siamo sicuri che un’ipotetica gestione pubblica (operata da manager
formati sugli stessi manuali e nelle stesse business school) si
comporterebbe diversamente da una privata, date le attuali condizioni ed
il contesto economico in cui si troverebbe ad operare? Siamo sicuri che
questa soluzione dispiacerebbe al management privato?
Nei fatti, una nazionalizzazione isoelata potrebbe creare una sorta di bad company pubblica su cui scaricare segmenti produttivi non redditizi; una bad company che avrebbe grosse difficoltà nel competere sul mercato,
nel quale comunque i suoi prodotti dovrebbero trovare sbocchi, alle
stesse condizioni, tutt’altro che facili, sperimentate dalla Whirlpool
attuale.
Il risultato, molto probabilmente, sarebbe quello di creare una nuova azienda che dovrebbe trovarsi a compensare la ridotta competitività
dello stabilimento italiano con sussidi e commesse pubbliche. La storia
recente ci insegna che processi di nazionalizzazione isolati, quando
avvengono all’interno di un paradigma economico dominante di tutt’altro
segno, sono destinati a fallire. Portando, dunque, paradossalmente,
ancor più acqua al mulino di chi predica la privatizzazione forzata di
qualunque asset di pubblica utilità.
È
forte la necessità di andare oltre; di ricercare nuove soluzioni. Di
non fermarsi a contemplare quel che Claudio Lolli chiamerebbe un
“orizzonte che si ferma al tetto”. Perché non sperimentare pratiche
produttive che siano di reale sganciamento, ricollocando l’attività produttiva fuori dell’economia di mercato?
Nel
caso specifico in questione, partendo dalla necessità ineludibile
dell’esproprio della fabbrica (senza indennizzo), si potrebbe pensare ad
un suo affidamento alle maestranze, unitamente allo stretto
coinvolgimento di centri di ricerca ed università cittadine e della
comunità locale che, per decenni, ha dovuto fare i conti con le
esternalità negative relative all’attività dello stabilimento, in un
contesto di grave emergenza ambientale, come quello di Napoli Est.
Ai
lavoratori dello stabilimento andrebbe corrisposto un reddito di
cittadinanza a tempo indeterminato. Una soluzione che, oltre a tamponare
l’emergenza occupazionale, avrebbe il pregio di sottrarre le maestranze
al ricatto capitalista, disaccoppiando reddito e lavoro. Ciò darebbe il
tempo, alla comunità locale, di valutare opzioni alternative, come la
riconversione dello stabilimento per fini di utilità sociale.
Sarebbe
possibile, in questo modo, avviare una grande discussione sul futuro
dello stabilimento. Produrre, sì: ma come? E che cosa? E per chi? E con
quali risorse? Nazionalizzare lo stabilimento (e non l’intera compagnia
che lo possiede), in questa fase, consentirebbe di produrre risposte
avanzate a queste domande, sempre più urgenti? O garantirebbe,
esclusivamente, una riproposizione, in salsa diversa, delle stesse
ricette produttiviste capitaliste, votate alla massimizzazione
dell’estrazione di plusvalore e dello sfruttamento di risorse naturali
(seppure con l’intento di preservare i livelli occupazionali correnti)?
Potrebbe
essere possibile utilizzare le crisi industriali non per riproporre
vuoti schemi precostituiti, ma per promuovere e sviluppare nuove
proposte che, coinvolgendo i lavoratori e le comunità popolari, possano
costruire, pratiche produttive improntate a paradigmi alternativi, quale
quello dell’Economia Circolare. In questa impresa, si potrebbe trarre
vantaggio dalla grande esperienza recente di fabbriche autogestite e
recuperate (Argentina in primis; ma anche casi italiani – pensiamo alla
Rimaflow).
Il
caso della Whirlpool di Napoli Est, dunque, potrebbe essere visto come
un’opportunità per sperimentare un modello concreto che metta insieme
l’idea di fabbrica come bene comune
con l’imperativo di scardinare la logica consumista che produce
disastri ambientali e deserti sociali. Si potrebbe, per esempio,
utilizzare le competenze dei lavoratori per produrre nuovi modelli di
lavatrici che durino nel tempo, facili da smontare e riparare.
La
fabbrica occupata potrebbe diventare ad esempio un grande spazio di
aggregazione dove riparare, fare manutenzione, e – perché no? –
modificare la propria lavatrice a piacimento o per adattarla agli usi
più vari. Il tutto potrebbe essere innestato in una logica di catena di
valore ‘circolare’ nella quale altre esperienze simili (fabbriche
occupate, piccole imprese familiari o cooperative) possano trovare
sbocco per le loro attività.
A
coloro ai quali tutto ciò apparire una vana utopia, invitiamo ad
ri-analizzare criticamente i dati sconfortanti sul mercato degli
elettrodomestici, che citavamo nella sezione iniziale di questo breve
contributo; dati che si mantengono appena a galla grazie ai meccanismi
di obsolescenza programmata.
La
contrazione del consumo nel mondo occidentale appare evidente. Sebbene
sia in parte dovuta alle irresponsabili politiche austeritarie e
deflazioniste, essa, a nostro avviso non va riattivata attraverso i
meccanismi altrettanto irresponsabili del consumismo capitalista. La
vera utopia irrealizzabile, a nostro avviso è l’idea che le vendite di
elettrodomestici debbano aumentare esponenzialmente ogni anno; un fatto
che sottintende l’assurdità che le risorse del pianeta siano infinite,
cosi come illimitata la voglia di possedere il maggior numero lavatrici
da parte dei consumatori.
Un dibattito necessario
La
teoria economica (e dobbiamo qui riferirci anche ad alcune
interpretazioni degeneri, purtroppo egemoni nella cosiddetta sinistra
radicale) ha in larga parte ignorato che il sistema capitalista non si
regge esclusivamente sulla dinamica pubblico/privato, ma anche su due
meccanismi fondamentali: il lavoro riproduttivo (già Marx, in realtà, parlava di household economics) o quello che Illich chiamava il lavoro ombra, svolto prevalentemente dalle donne; e i beni comuni, ossia l’insieme delle risorse comuni e i meccanismi che sottintendono alla loro gestione.
Perché
dunque non andare oltre il dilemma pubblico/privato,
nazionalizzare/privatizzare e teorizzare spazi produttivi che seguano la
logica dell’autogestione e del protagonismo della classe operaia?
Perché non riappropriarsi degli attuali spazi produttivi in crisi da
sovrapproduzione o minacciati dalla caduta tendenziale del saggio di profitto e ridirigere la produzione verso qualcosa di utile e sostenibile nel tempo?
A
tal proposito, ci proponiamo di attivare una dibattito su tre assi
centrali: la necessità di andare oltre la dialettica pubblico/privato
attraverso la rivalutazione di spazi produttivi come beni comuni e
quindi ripensare la democrazia interna della fabbrica; la necessità di
ripensare la tecnologia come mezzo di liberazione (autonomia,
autocontrollo, possibilità di modificare e migliorare artefatti e
processi) in contrapposizione al suo utilizzo come strumento di
oppressione (efficienza e produttività fine a se stesse); e infine la
necessità di creare meccanismi circolari che garantiscano la
sostenibilità ambientale.
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