lunedì 30 settembre 2019

Costituzione senza difesa, un sistema si avvia alla fine

La democrazia parlamentare si avvia alla sua fine, non illudetevi. Possiamo prenderla dal lato “sistemico” – in tutto l’Occidente scricchiola in modo vistosissimo, tra Trump, Johnson, Macron, ecc – oppure da quello “opportunistico” (le mosse dei partiti italiani), ma il risultato non cambia.
L’attacco finale all’impianto istituzionale della rappresentanza politica è partito e questa volta non appare più contrastabile. Vediamo perché e come.
1) Sei Regioni governate dal centrodestra (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli, Abruzzo e Piemonte) hanno sottoscritto la richiesta leghista di tenere un referendum per cambiare la legge elettorale e abrogare la parte proporzionale, instaurando così un sistema elettorale completamente maggioritario. Sul piano costituzionale la richiesta è formalmente corretta (bastano 5 Regioni o 500.000 firma di elettori) e dunque dovrebbe essere sottoposta al voto nella prossima primavera, a meno che il Parlamento non elabori una nuova legge elettorale (il che invaliderebbe il “quesito” scritto nella richiesta di referendum).
2) Il Movimento 5 Stelle, per bocca del suo traballante “capo politico”, chiede l’abolizione della “libertà di mandato” per i parlamentari, vincolando dunque deputati e senatori di una lista ad obbedire alle scelte delle direzioni del partito con cui sono stati eletti, pena la decadenza dal seggio. La Costituzione, in questo caso, prevede l’esatto opposto perché considera l’”eletto dal popolo” come un rappresentante degli interessi generali del paese, che dunque deve poter scegliere in libertà di coscienza, senza il ricatto dell’estromissione dalle istituzioni.
La ragione dell’insistenza grillina è di particolare pochezza: impedire il “mercato delle vacche”, ossia il passaggio continuo di parlamentari da un gruppo politico all’altro, con ovvie conseguenze sulla consistenza dei gruppi parlamentari e la tenuta delle maggioranze di governo. Un fenomeno in diminuzione, nell’attuale legislatura (sono stati 79, finora, ma la metà sono i renziani che hanno lasciato il Pd per fare gruppo a sé; mentre nei conqe anni precedenti erano stati 566). Avere dei robot schiaccia-pulsante al posto di esseri umani liberi non sembra proprio un “progresso” della democrazia…
3) Gli stessi Cinque Stelle hanno fatto della “riduzione dei parlamentari” una questione di (propria) vita o morte. Anch qui la motivazione è ridicola (“risparmieremo 500 milioni ad ogni legislatura”), perché risultati anche più rilevanti si possono ottenere riducendo gli stipendi dei parlamentari, effettivamente esagerati e i più alti in Europa. Comunque i Cnque Stelle otterranno questa riduzione della rappresentanza dal Pd, che era sempre stato contrario, ma deve in qualche modo far sì che il governo duri abbastanza da potersi riorganizzare e soprattutto ridisegnare il proprio profilo identitario, frantumato dall’era Renzi.
Le tre proposte-killer hanno un differente status istituzionale (la seconda e la terza richiedono una riforma costituzionale, quella leghista modifica la legge elettorale attualmente vigente, che è legge ordinaria) e anche diversa possibilità di passare (il “vincolo di mandato” richiede l’avvio di un processo di riforma costituzionale con quattro passaggi in aula, mentre la riduzione dei parlamentari è già arrivata alla vigilia dell’ultimo voto).
Ma tutte e tre convergono nella volontà di azzerare la possibilità che forze politiche nuove ed estranee ai poteri consolidati possano nascere, conquistare consensi, aggiudicarsi la maggioranza attraverso “libere elezioni”.
E vediamo perché.
Già a bocce ferme, senza altri cambiamenti, un sistema elettorale totalmente maggioritario riduce la rappresentanza parlamentare ad un “gioco a due”. Chi prende un voto in più governa per cinque anni grazie a una straripante maggioranza di parlamentari e chi ha un voto in meno “non rompe le palle”.
La frase sfuggita al solito Salvini chiarisce perfettamente il senso e non si presta ad equivoci. In un sistema del genere l’opposizione politica (ridotta ad un solo “partito” o “coalizione”) è ammessa come soprammobile impotente, che spera possa andare diversamente nella prossima legislatura. Chi non vede grandi problemi “di democrazia” nel maggioritario dovrebbe girare lo sguardo sulla Francia, dove un presidente eletto con il 24% può tranquillamente agire come un “re a tempo determinato”, schiacciando le manifestazioni di piazza e facendo sottoporre a processo l’opposizione parlamentare.
E teniamo sempre conto che stiamo parlando di governi le cui scelte fondamentali – legge di stabilità, politiche industriali, ecc – sono subordinate ferreamente alle decisioni dell’Unione Europea, che ha già da tempo ridotto la rappresentanza politica a puro gioco di marketing…
Se però vi aggiungiamo – come è obbligatorio fare – la riduzione dei parlamentari, avremo una situazione ancor meno democratica perché intere aree del paese potrebbero ritrovarsi senza alcun rappresentante eletto. Figuriamoci le diverse figure sociali, dunque, che non possono mai vedere il proprio interesse “rappresentato” dagli eletti da altri interessi.
Già ora l’intreccio di ostacoli regolamentari (alto numero di firme necessarie per presentare liste elettorali non presenti in Parlamento, Regioni, Comuni), altre soglie di sbarramento, ecc, impediscono praticamente che nuovi soggetti si facciano avanti.
Se infine dovesse, per qualche infernale alchimia parlamentare, dovesse essere approvato anche il “vincolo di mandato”, avremmo un Parlamento incaprettato: pochi eletti perché “nominati in seggi sicuri” dai capi-partito, senza possibilità di scelta, comunque sottoposti a un vincolo esterno sovranazionale.
Una micro-casta di servi dei servi dei servi dei servi. Molto ben pagati, come e più di ora. L’unica via di uscita, in una democrazia liberale, sarebbe la reintroduzione di una legge elettorale totalmente proporzionale, la selezione di un personale politico – se non altro – “rispettoso della volontà e degli interessi vitali dei propri elettori”. Un sogno utopico, nell’Italia attuale.
Bisogna essere perciò realisti. Non ci sono in questo momento forze politiche che possano o vogliano contrastare questa riduzione forzosa della rappresentanza politica. Quindi in qualche forma – con qualche sempre possibile variazione sul tema, vista la “fantasia istituzionale” italica – questo processo andrà avanti. E non ci si può attendere nessuna resistenza da parte del teorico “guardiano della Costituzione” – il Presidente della Repubblica – che da parlamentare è stato estensore delle prime leggi elettorali “maggioritarie” (il Mattarellum) e da presidente ha opposto solo rilievi minori ai due “decreti sicurezza” salvinian-fascisti.
Quindi il superamento della “democrazia parlamentare” è scritto nel prossimo futuro.
Per chi si contrappone come alternativa di sistema, politico e sociale, a questo buco nero della vita collettiva il primo compito è cambiare testa. Fin qui si è oscillato, “a sinistra”, tra l’accodamento minoritario alle frazioni più “sinceramente democratiche” dell’establishment e l’autoestraniazione dalla dialettica propriamente politica del paese, accontentandosi magari con l’esibizione di un “esser contro”, complessivamente impotente ma consolatorio.
Di certo, nessuno potrà andare avanti come prima, a meno di non voler accettare una sorte già scritta…

venerdì 27 settembre 2019

L’Italia si allinea. Al via il vero esercito europeo

C’è la firma del nuovo Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, sotto la lettera con cui l’Italia ha comunicato ufficialmente alla Francia la volontà di aderire all’European Intervention Initiative messa in piedi esattamente due anni fa Macron e costituita a Parigi il 25 giugno 2018.
Si tratta di una struttura militare europea al di fuori sia dagli ambiti NATO sia della PESCO (Cooperazione Strutturata Permanente nel settore della Difesa) prevista dai Trattati dell’Unione Europea. Ne avevamo parlato sul nostro giornale già un anno fa.
L’ EII, è l’iniziativa militare voluta dalla Francia, la quale da tempo manifesta la sua insoddisfazione per i minimi progressi della PESCO e intende accelerare la strutturazione dell’Unione Europea sulla Difesa per mettere in campo uno strumento militare multinazionale capace di “far fronte a crisi militari e calamità naturali sia a livello di analisi e pianificazione sia di intervento sul campo” sottolinea il direttore del sito specializzato Analisi Difesa.it
Gli obiettivi di Macron sulla funzione della EII sono tre:
  • Accelerare il processo di integrazione operativa di uno strumento militare Ue per far fronte alle crisi, struttura di cui si dibatte fin dagli anni ’90
  • Mantenere la Gran Bretagna agganciata all’Europa della Difesa proprio nella fase in cui il Brexit sembra concretizzarsi definitivamente anche per salvaguardare la stretta cooperazione tra Londra e Parigi nell’industria della Difesa
  • Costituire un’alternativa alla PESCO creando le basi per la costituzione di “forze armate europee” che Parigi immagina sotto la sua egida, è bene ricordare che la Francia, una volta che la Gran Bretagna è fuori, è ora l’unica potenza nucleare dell’Unione Europea.
Dell’Iniziativa d’Intervento Europea fanno parte, oltre alla Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Olanda, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia ed ora anche l’Italia.
Macron non nasconde però l’ambizone di costituire uno strumento d’intervento indipendente dagli Usa e dalla NATO, ma autonomo anche rispetto ai meccanismi dell’Unione Europea – ritenuti troppo lenti e inefficaci – che finora hanno impedito alla Ue di ricoprire reali ruoli militari nelle crisi internazionali e di avere una reale autonomia strategica.
L’iniziativa non è affatto benvista da Washington e dalla NATO ma trova qualche riluttanza anche in Germania, che pure ha aderito all’iniziativa, notoriamente indispettita dalle mire di leadership politico/militare europea della Francia ma anche dal tentativo di Parigi di mantenere in qualche modo legata la Gran Bretagna ad una Difesa europea in cui Berlino intende assumere la leadership. Una ambizione ben visibile nel Libro Bianco della Difesa tedesca del 2016 coordinato dall’allora ministro della Difesa Ursula von der Leyen, oggi presidente della Commissione Europea.
Sulla politica militare Germania e Francia, evidenziano ambizioni di leadership non sempre coincidenti. Macron a novembre dello scorso anno aveva invocato la necessità di “una vera armée europea” per difendersi dalle minacce provenienti da “Stati Uniti e Russia”. Diversamente, lo scorso 11 settembre la presidente della Commissione europea von Der Leyen ha dichiarato che “l’Unione Europea non sarà mai un’alleanza militare”, sottolineando però che gli Stati membri sono consapevoli “dell’importanza di una gestione comune delle loro forze militari”.
La riluttanza italiana ad aderire all’iniziativa è durata fino al 20 settembre quando il Ministero della Difesa e ancora prima Palazzo Chigi, hanno reso noto che l’Italia “darà la disponibilità a fornire, nella regione del Mediterraneo, la sua peculiare competenza nazionale nel settore della difesa e sicurezza”.
“Questa iniziativa – afferma il neoministro Guerini – è nata da una forte volontà politica e intende rafforzare la UE e la NATO, entrambe indispensabili a garantire la sicurezza dell’Europa e degli europei”.
Ma, come sottolinea Analisi Difesa, sebbene tutti gli stati –tranne la Finlandia – aderiscano alla Nato “è difficile vedere nella Iniziativa di Intervento Europea un rafforzamento dell’Alleanza Atlantica, tenuto conto che soprattutto quest’ultima dispone già di strutture di proiezione di comandi e forze militari a ogni livello per far fronte a crisi di ogni tipo”.
Fino a due mesi fa i ministri Trenta e Moavero avevano manifestato dubbi e perplessità sull’iniziativa. Ma poi c’è stato l’incontro bilaterale tra Macron e Conte e le perplessità sembrano venute meno. “La natura della EI2 non è certo mutata nell’ultimo anno né sono venuti meno i motivi di perplessità” commenta Gianandrea Gaiani su Analisi Difesa, “piuttosto sembra invece essere cambiata la politica italiana, oggi certo più filo-francese che mai dopo il ritorno del PD al governo e quindi non insensibile alle richieste di Macron affinchè anche Roma aderisse all’iniziativa”.
Il nuovo governo sembra aver deciso di accelerare il passo e siglare la sua adesione all’Iniziativa  d’Intervento Europea. Anche questo ci dà la cifra sul nuovo governo insediatosi a Palazzo Chigi.

mercoledì 25 settembre 2019

Se pure Draghi parla di Mmt, stanno alla frutta…

Se non fosse preoccupante, la situazione globale sarebbe persino divertente, in campo economico. Chiariamo subito: è divertente lo spaesamento assoluto delle “massime autorità”, cresciute a caviale e neoliberismo spinto, che da qualche tempo non ci capiscono più niente e vanno a tentoni.
La crisi è tornata, anzi non se n’era mai andata. Qualcuno – nell’Occidente – era riuscito a riprendersi, ma a scapito di altri; il “gioco a somma zero” per cui alcuni ladri rubano ad altri ladri, ma questo non produce crescita. Le politiche monetarie a”ultra-accomodanti” hanno contenuto il potenziale esplosivo, ma dopo quasi dieci anni mostrano il fiato corto.
I recenti dati sull’economia europea (e Usa) sono stati definiti “terribili” dagli stessi rilevatori, soprattutto per quanto riguarda l’economia tedesca, che è il motore oggettivo dell’economia eruopea.
L’ultima mazzata è arrivata ieri dagli indici Pmi. Un indice un po’ spurio, ma affidabile, perché si basa su una un’indagine condotta tra i direttori (Purchasing Managers) delle aziende prese a campione. A costoro vengono poste domande sull’andamento dell’azienda e sulle prospettive a breve termine, e quindi sul numero di impiegati, l’andamento della produzione, ordini ricevuti, prezzi, distribuzione e aspettative future.
Le risposte vengono trasformate in forma statistica, su una scala da 0 a 100, in cui il valore 50 indica la soglia sotto la quale si sta andando in recessione, mentre sopra di essa ci sarà crescita.
L’indice manifatturiero tedesco (relativo ai settori propriamente industriali) è sceso a quota 41,4 punti dai 43,5 di agosto, peggiorando a vista d’occhio. Non solo; è il peggiore da oltre 10 anni, e sconta “Tutte le incertezze sui conflitti commerciali, l’outlook per l’industria automobilistica e l’esito di Brexit stanno paralizzando i nuovi ordini, ai minimi dalla crisi finanziaria del 2009“, secondo il capo economista dell’istitituo Markit, che conduce l’indagine.
E questa volta non arriva neppure la compensazione dall’indice dei servizi, che è sceso a 52,5 punti, in calo rispetto ai 54,8 di agosto (gli analisti speravano si fermassesse a 54,4). Insomma gli indici Pmi confermano che non ci saranno miglioramenti significativi dell’economia tedesca nel 2019. Anzi, una recessione tecnica è molto probabile. A catena, questa discesa coinvolgerà tutti I paesi europei in proporzione alla loro dipendenza dalle filiere produttive di Berlino.
Bene. A questo punto le politiche di austerità non servono più nemmeno alla Germania e all’Olanda (che ci hanno speculato sopra molto, visto che colpivano soprattutto gli altri paesi, in primis quelli mediterranei). Dunque bisogna inventarsi qualcosa di diverso.
E qui viene il divertente. Nella sua ultima uscita da presidente della Bce, Mario Draghi ha risposto a una domanda sulla possibilità di ricorrere all’helicopter money (la misura disperata di buttare denaro dall’alto sulle città, per far ripartire la crescita) addirittura citando la Modern Monetary Theory (Mmt), un ramo minore del pensiero keynesiano (o addirittura pre-keynesiano, riproponendo suggestioni del “cartalismo”) da decenni schernito come panzana da tutto il mondo accademico mondiale. “Ci sono oggettivamente molte idee interessanti. Non sono state discusse dal Consiglio Direttivo. Dovremmo interessarcene, anche se non sono ancora state implementate” alla prova dei fatti.
Le sue perplessità sono di altra natura, perché “Quando si studiano più attentamente – ha aggiunto Draghi – ci si rende conto che l’obiettivo di distribuire denaro ad un soggetto o ad un altro è un tipico compito della politica fiscale. Quindi una decisione dei governi, non delle banche centrali. E’ la governance politica di queste idee che deve essere ben gestita”.

Ma erano del resto “scelte politiche”, non “tecniche”, anche le misure decise dalla Bce all’inizio del suo mandato, tanto che ancora oggi restano definite come “non convenzionali”, ossia non previste né dai trattati, né dallo statuto, né dai manuali di macroeconomia liberista. Tentativi, improvvisazioni, reazioni sintomatiche alla malattia, che hanno però trasferito immense risorse monetarie a un sistema finanziario in agonia (“da un soggetto all’altro”, ossia con decisione politica)…

Insomma: anche lui va a tentoni, cercando nel caos di una crisi incontrollata barlumi e suggerimenti sempre meno standard. E’ il fallimento di un pensiero, quello “unico”, dopo 30 anni di dominio assoluto e monopolio (o quasi) delle cattedre di economia. Il che implica che ci sono poche idee diverse in giro, perlomeno avanzate da personalità “autorevoli”.
Abbiamo detto della mini-sterzata che dovrebbe segnare la presidenza di Christine Lagarde, dal 1 novembre, con “narrazione ambientalista” a corredo di altre iniezioni di liquidità, di dimensione incerte e durata ancor più oscura. Così come della reazione della Federal Reserve statunitense, sostanzialmente simile ma agevolata dalla dimensione solo “nazionale” delle scelte Usa.
Entrambe, nella sostanza, riedizioni del quantitative easing, ossia degli stimoli monetari, che fin qui hanno finito per gonfiare il mercato finanziario senza incidere nell’economia reale.
Ma il mondo non è più soltanto occidentale e l’imperialismo Usa non comanda più di tanto. Cosa accade dall’altra parte del pianeta?
Anche la Cina deve affrontare un rallentamento visto dei suoi peraltro insostenibili ritmi di crescita. Però una cosa è passare dal 10% annuo, di qualche tempo fa al 6,2% previsto per quest’anno; tutt’altra è galleggiare nella stagnazione della crescita zero o quasi.
Ma proprio stamattina il governatore della Banca popolare cinese, Yi Gang, ha spiegato pubblicamente che Pechino “non intende inseguire le altre banche centrali, non ne ha bisogno”. Al contrario, spingerà per nuovi investimenti.
Pechino negli ultimi anni ha preferito seguire la strada dello stimolo fiscale per affrontare il rallentamento della crescita; migliaia di miliardi di yuan in tagli fiscali e l’emissione di speciali titoli di Stato da parte delle amministrazioni locali per finanziare progetti infrastrutturali.
Di fatto, sul piano internazionale la politica fiscale cinese si attua nella Via della Seta, vettore per l’aumento della produttività totale dei fattori produttivi mediante le connessioni, conseguente reflazione salariale nel continente asiatico (ossia forti aumenti salariali, al contrario che in Europa) e dunque nascita di un mercato alternativo a quello occidentale in crisi.
Non prendono invece in considerazione, almeno per ora, gli “stimoli monetari”. Non ne hanno bisogno, perché il loro cavallo “beve”, al contrario di quelli occidentali, e hanno liquidità da investire in progetti strategici. Altri “stimoli monetari” sarebbero un regalo immotivato al sistema finanziario occidentale, soprattutto statunitense.  E con la guerra dei dazi in corso, non se ne vedrebbe neanche geopoliticamente il motivo…

Mentre qui in Europa, come si dice “chi vorrebbe spendere non può” (per la Ue vieta nuova spesa in deficit), e “chi potrebbe spendere non vuole” (perché comanda nella Ue, e nessuno gli può ordinare di farlo).
Così stiamo assistendo a un “sorpasso” storico, grazie a strategie economiche opposte.

Sempre capitalismo è, diranno in tanti. Sì, ma quello vecchio non funziona neanche più.

martedì 24 settembre 2019

Nazionalizzare. Cui Prodest?

Il capitale multinazionale si muove come vuole, si sposta cercando di ridurre i costi di produzione (uniche variabili, ormai, sono i salari e le politiche fiscali nazionali), delocalizza, sfrutta territori e persone e se ne va.
Ma oltre a questa dinamica, ormai consaputa, rispetto alla quale gli Stati nazionali si comportano da servi (per debolezza o per convinzione ideologico-corruttiva), c’è anche la saturazione di mercato per alcune merci, mentre sorgono (a ritmo sempre più lento) nuovi bisogni indotti e merci in grado di soddisfarli.
La fuga del capitale multinazionale ha come unica risposta possibile la nazionalizzazione degli stabilimenti che vengono abbandonati, con terribili conseguenze sull’occupazione, specie in territori che non presentano particolare densità industriale.
Ma – è questo il merito della riflessione di Andrea Genovese e Mario Pansera – non tutti i settori produttivi sono uguali. Nazionalizzare uno stabilimento che produce merci “mature”, per cui esiste solo un mercato di sostituzione (peraltro rallentata dai bassi salari medi, che limitano i consumi) può avere un senso per tutelare l’occupazione, ma essere un fallimento nelle normali dinamiche “di mercato”.
Dunque si pone una domanda importante per chiunque non sia asservito ai desiderata del capitale: quali nazionalizzazioni sono strategiche e quali no? Una volta espropriata la fabbrica – senza indennizzo – bisogna sapere se quella produzione è ancora significativa (e in che misura) e cominciare a pensare a riconvertire su altri prodotti. Per cui in genere servono altri tipologie di stabilimento, ossia con nuovi investimenti

Insomma, salvaguardia dell’occupazione e utilità sociale della produzione debbono essere pensate come un tutto. Una volta era quasi normale chiedersi: cosa produrre e come, per soddisfare quali bisogni?
Non sarebbe del resto utile ridurre un punto di programma strategico come le nazionalizzazioni a “pillola” per curare qualsiasi malattia. Una visione alternativa della formazione sociale non può del resto limitarsi alla sola difesa del patrimonio industriale esistente (primo passo ovviamente necessario, altrimenti si affonda nel passato remoto), ma deve misurarsi con le modalità concrete della trasformazione produttiva possibile.
Buona lettura.
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Nazionalizzare. Cui Prodest?

La grave vicenda della Whirlpool di Napoli Est ci offre l’opportunità di sviluppare alcuni attuali spunti di riflessione sulla questione della produzione industriale, con particolare riferimento al settore degli elettrodomestici.

L’industria degli Elettrodomestici

A livello mondiale, il mercato del Grande Elettrodomestico continua a riportare trend positivi. Nel 2018, l’industria globale ha riportato un fatturato complessivo di 178 miliardi di euro (+2% circa rispetto al 2017). Una crescita, tuttavia, attribuibile prevalentemente alle dinamiche fortemente positive delle economie emergenti, come Cina, Vietnam (+21%; la regione Asia-Pacifico, nel suo complesso, contribuisce al 66% della crescita totale), Russia (+11%), America Latina (+9%). Molto positivo anche il trend dell’APAC, che contribuisce al 66% della crescita totale.
In Europa, i dati sono però negativi. Ad esempio, dopo anni di crescita sostenuta, il mercato tedesco sta vivendo una fase di stallo, pur rimanendo il terzo al mondo. Nel 2018, l’Italia ha registrato un trend negativo (-4%), accompagnato da un decremento dei prezzi medi. Neppure i processi di obsolescenza programmata, dunque, riescono a mantenere il mercato europeo in linea di galleggiamento.
A fronte di questi dati, alcuni segmenti continuano a riportare prestazioni positive: le lavatrici con capacità di carico elevate (superiori ai 9 kg, che registrano una crescita di ben il 61%) e quelle smart (+24%), che sono arrivate a rappresentare il 27% del mercato (in termini di valore) nel 2018.
Non sorprende, dunque, il fatto che la produzione di grandi elettrodomestici in Italia sia scesa ai minimi storici. Ad affermarlo è Ceced Italia, l’associazione che raggruppa i produttori di apparecchi domestici e professionali. I dati parlano chiaro: la produzione si è ridotta di un terzo negli ultimi 15 anni. Nello specifico, nel 2017, le lavatrici sono calate del -14% mentre sono aumentate le lavastoviglie (+6,5%) e i frigoriferi sono rimasti stabili. Il segmento cottura è diminuito con un -12% per i forni e un -13,7% per i piani di cottura.
Anche l’export è diminuito del -19% nel secondo semestre 2017, a conferma che l’Italia non è più produttore di grandi volumi, ma si è riposizionato verso l’alto la gamma, provando a rispondere ad una domanda che è certamente rilevante nel resto d’Europa.
Per quanto riguarda la rete produttiva italiana, gli ultimi anni si sono caratterizzati per chiusure e concentrazioni. In generale, sul territorio operano oggi le due multinazionali Whirlpool ed Electrolux. Whirlpool ha il quartier generale delle attività per l’Europa e il Medio-Oriente a Pero (in provincia di Milano); al momento, mantiene sei siti produttivi in Italia: Fabriano (piani cottura), Comunanza (lavatrici), Cassinetta di Biandronno (elettrodomestici da incasso), Siena (congelatori), Carinaro (ricambi e accessori), Napoli (lavatrici). Electrolux è attiva in 4 poli: a Porcia e Susegana (lavatrici e frigoriferi), Forlì (cottura) e Solaro (lavastoviglie). L’italiana Candy ha Brugherio (lavatrici), mentre sul mercato è entrata anche la cinese Haier, che produce frigoriferi a Campodoro.
Il rapporto del Ceced ha evidenziato inoltre che l’Italia, nonostante la grave contrazione, resta al secondo posto dopo la Germania come polo manifatturiero dell’elettrodomestico, prima di Francia, Spagna, UK e Polonia, considerata il più forte produttore emergente (grazie alle recenti delocalizzazioni produttive avvenute a seguito dell’ingresso di questo paese nell’Unione Europea).

Una crisi di sistema

Lo scenario è il solito. Uno stabilimento di una multinazionale, che ha beneficiato, in passato, di grossi e grassi contributi pubblici, viene inserito nella lista delle possibili dismissioni. Un fatto al quale abbiamo, tristemente, fatto l’abitudine. Una consuetudine logica, nell’era delle catene del valore globali che, secondo un moderno divide et impera, scompongono la produzione gerarchicamente, estremizzando, anche a livello territoriale, i concetti di divisione del lavoro e di specializzazione per acquisire forme di controllo totalizzante.
Forme, queste ultime, necessarie al grande capitale per perseguire repentine ristrutturazioni, in un contesto caratterizzato da un surplus di capacità produttiva; da una forte crisi della domanda aggregata in occidente (a seguito di anni di austerità e politiche deflazionistiche); da realtà produttive asiatiche che, ormai affrancate dal modello competitivo a basso costo si caratterizzano per alto valore aggiunto e contenuto innovativo (si pensi agli elettrodomestici iperconnessi basati sul paradigma dell’internet delle cose, e alla leadership cinese nel settore).

Quali Soluzioni?

In questo contesto, la soluzione proposta dal sindacalismo di classe e dalla sinistra radicale risponde alla parola d’ordine della nazionalizzazione.
La domanda che, umilmente, ci poniamo è: cui prodest? Siamo sicuri che un’ipotetica gestione pubblica (operata da manager formati sugli stessi manuali e nelle stesse business school) si comporterebbe diversamente da una privata, date le attuali condizioni ed il contesto economico in cui si troverebbe ad operare? Siamo sicuri che questa soluzione dispiacerebbe al management privato?
Nei fatti, una nazionalizzazione isoelata potrebbe creare una sorta di bad company pubblica su cui scaricare segmenti produttivi non redditizi; una bad company che avrebbe grosse difficoltà nel competere sul mercato, nel quale comunque i suoi prodotti dovrebbero trovare sbocchi, alle stesse condizioni, tutt’altro che facili, sperimentate dalla Whirlpool attuale.
Il risultato, molto probabilmente, sarebbe quello di creare una nuova azienda che dovrebbe trovarsi a compensare la ridotta competitività dello stabilimento italiano con sussidi e commesse pubbliche. La storia recente ci insegna che processi di nazionalizzazione isolati, quando avvengono all’interno di un paradigma economico dominante di tutt’altro segno, sono destinati a fallire. Portando, dunque, paradossalmente, ancor più acqua al mulino di chi predica la privatizzazione forzata di qualunque asset di pubblica utilità.
È forte la necessità di andare oltre; di ricercare nuove soluzioni. Di non fermarsi a contemplare quel che Claudio Lolli chiamerebbe un “orizzonte che si ferma al tetto”. Perché non sperimentare pratiche produttive che siano di reale sganciamento, ricollocando l’attività produttiva fuori dell’economia di mercato?
Nel caso specifico in questione, partendo dalla necessità ineludibile dell’esproprio della fabbrica (senza indennizzo), si potrebbe pensare ad un suo affidamento alle maestranze, unitamente allo stretto coinvolgimento di centri di ricerca ed università cittadine e della comunità locale che, per decenni, ha dovuto fare i conti con le esternalità negative relative all’attività dello stabilimento, in un contesto di grave emergenza ambientale, come quello di Napoli Est.
Ai lavoratori dello stabilimento andrebbe corrisposto un reddito di cittadinanza a tempo indeterminato. Una soluzione che, oltre a tamponare l’emergenza occupazionale, avrebbe il pregio di sottrarre le maestranze al ricatto capitalista, disaccoppiando reddito e lavoro. Ciò darebbe il tempo, alla comunità locale, di valutare opzioni alternative, come la riconversione dello stabilimento per fini di utilità sociale.
Sarebbe possibile, in questo modo, avviare una grande discussione sul futuro dello stabilimento. Produrre, sì: ma come? E che cosa? E per chi? E con quali risorse? Nazionalizzare lo stabilimento (e non l’intera compagnia che lo possiede), in questa fase, consentirebbe di produrre risposte avanzate a queste domande, sempre più urgenti? O garantirebbe, esclusivamente, una riproposizione, in salsa diversa, delle stesse ricette produttiviste capitaliste, votate alla massimizzazione dell’estrazione di plusvalore e dello sfruttamento di risorse naturali (seppure con l’intento di preservare i livelli occupazionali correnti)?
Potrebbe essere possibile utilizzare le crisi industriali non per riproporre vuoti schemi precostituiti, ma per promuovere e sviluppare nuove proposte che, coinvolgendo i lavoratori e le comunità popolari, possano costruire, pratiche produttive improntate a paradigmi alternativi, quale quello dell’Economia Circolare. In questa impresa, si potrebbe trarre vantaggio dalla grande esperienza recente di fabbriche autogestite e recuperate (Argentina in primis; ma anche casi italiani – pensiamo alla Rimaflow).
Il caso della Whirlpool di Napoli Est, dunque, potrebbe essere visto come un’opportunità per sperimentare un modello concreto che metta insieme l’idea di fabbrica come bene comune con l’imperativo di scardinare la logica consumista che produce disastri ambientali e deserti sociali. Si potrebbe, per esempio, utilizzare le competenze dei lavoratori per produrre nuovi modelli di lavatrici che durino nel tempo, facili da smontare e riparare.
La fabbrica occupata potrebbe diventare ad esempio un grande spazio di aggregazione dove riparare, fare manutenzione, e – perché no? – modificare la propria lavatrice a piacimento o per adattarla agli usi più vari. Il tutto potrebbe essere innestato in una logica di catena di valore ‘circolare’ nella quale altre esperienze simili (fabbriche occupate, piccole imprese familiari o cooperative) possano trovare sbocco per le loro attività.
A coloro ai quali tutto ciò apparire una vana utopia, invitiamo ad ri-analizzare criticamente i dati sconfortanti sul mercato degli elettrodomestici, che citavamo nella sezione iniziale di questo breve contributo; dati che si mantengono appena a galla grazie ai meccanismi di obsolescenza programmata.
La contrazione del consumo nel mondo occidentale appare evidente. Sebbene sia in parte dovuta alle irresponsabili politiche austeritarie e deflazioniste, essa, a nostro avviso non va riattivata attraverso i meccanismi altrettanto irresponsabili del consumismo capitalista. La vera utopia irrealizzabile, a nostro avviso è l’idea che le vendite di elettrodomestici debbano aumentare esponenzialmente ogni anno; un fatto che sottintende l’assurdità che le risorse del pianeta siano infinite, cosi come illimitata la voglia di possedere il maggior numero lavatrici da parte dei consumatori.

Un dibattito necessario

La teoria economica (e dobbiamo qui riferirci anche ad alcune interpretazioni degeneri, purtroppo egemoni nella cosiddetta sinistra radicale) ha in larga parte ignorato che il sistema capitalista non si regge esclusivamente sulla dinamica pubblico/privato, ma anche su due meccanismi fondamentali: il lavoro riproduttivo (già Marx, in realtà, parlava di household economics) o quello che Illich chiamava il lavoro ombra, svolto prevalentemente dalle donne; e i beni comuni, ossia l’insieme delle risorse comuni e i meccanismi che sottintendono alla loro gestione.
Perché dunque non andare oltre il dilemma pubblico/privato, nazionalizzare/privatizzare e teorizzare spazi produttivi che seguano la logica dell’autogestione e del protagonismo della classe operaia? Perché non riappropriarsi degli attuali spazi produttivi in crisi da sovrapproduzione o minacciati dalla caduta tendenziale del saggio di profitto e ridirigere la produzione verso qualcosa di utile e sostenibile nel tempo?
A tal proposito, ci proponiamo di attivare una dibattito su tre assi centrali: la necessità di andare oltre la dialettica pubblico/privato attraverso la rivalutazione di spazi produttivi come beni comuni e quindi ripensare la democrazia interna della fabbrica; la necessità di ripensare la tecnologia come mezzo di liberazione (autonomia, autocontrollo, possibilità di modificare e migliorare artefatti e processi) in contrapposizione al suo utilizzo come strumento di oppressione (efficienza e produttività fine a se stesse); e infine la necessità di creare meccanismi circolari che garantiscano la sostenibilità ambientale.

lunedì 23 settembre 2019

La guerra finanziaria del “capitalismo verde

Siamo entrati da molto tempo nell’era del “capitalismo assistito”, ma nessuno dei guardiani dell’ideologia neoliberista ha fin qui azzardato una critica, o almeno una fotografia asettica del fenomeno.
Anche la durata di questo periodo è avvolta nell’incertezza. Si potrebbe datarla a partire da Keynes, quindi dagli anni ‘30 (sia in versione nazifascista che in versione democratico-rooseveltiana, comunque su scala rigidamente nazionale e in chiave nazionalistica), anche se l’ondata neoliberista degli anni ‘80 ne decretò la (temporanea?) morte.
O forse si potrebbe fissare l’anno del “recupero vergognoso” al 2008, quando il crollo di Lehmann Brothers e del mercato dei “prodotti derivati” costrinse tutte le banche centrali del mondo a riversare nel sistema finanziario quantità gigantesche di moneta letteralmente “stampata di notte”. In barba cioè a tutte le teorie e le raccomandazioni che ne derivano, e definita “socialismo per ricchi” persino da Joseph Stiglitz (ex presidente della Baca Mondiale).
Il risultato di questa fase di “iniezioni di liquidità” è noto: il sistema è rimasto in vita, non è esploso, ma neanche ha ripreso a funzionare “normalmente” (per quel che può significare questo termine in sistemi teorici che ipotizzano come “normale” l’equilibrio economico e vedono nelle crisi il frutto di “errori”, anziché la fisiologia del capitalismo). Stagnazione più che decennale, che non pochi interpretano come avvio di quella “secolare”.
Il tentativo di ritorno alla normalità – stop ai quantitative easing, rialzo prudente dei tassi di interesse – c’è stato, ma è risultato subito intollerabile sia per il sistema finanziario occidentale che per l’industria propriamente detta. Dunque, la necessità di riprendere a “stampare moneta” si riaffaccia prepotente.
Lo pretende Trump dalla Federal Reserve, che obbedisce frenando. Ma intanto la banca centrale Usa è intervenuta per iniettare liquidità nel sistema interbancario statunitense, oltre ad aver abbassato i tassi di interesse. Quasi 300 miliardi di dollari fin qui, ma già da oggi e fino al 10 ottobre dovrebbe iniettare liquidità per almeno 75 miliardi al giorno (al giorno!). Il totale, alla fine dell’intervento, potrebbe superare i 1.300 miliardi di dollari.
Lo fa autonomamente la Bce con l’ultima decisione di Mario Draghi, suscitando proteste dai criminali del “Grande Nord” (Germania, Olanda, Finlandia, baltici colonizzati da Berlino).
Ma anche questa “flebo monetaria” continua, di per sé segnale di fallimento sistemico, non basta più. “Il cavallo non beve” (gli investimenti sono fermi), ed è inutile fornirgli acqua supplementare. Tocca letteralmente inventarsi qualcosa di diverso.
E l’occasione c’è. La “transizione ecologica ed energetica” è un bisogno immediato, anzi il mondo è a rischio per l’estremo ritardo con cui i governi – tutti sotto ricatto dei grandi gruppi multinazionali – stanno prendendo atto che il tempo per fare qualcosa è quasi scaduto. Dunque, le prossime mosse delle banche centrali, le uniche a disporre di qualche capacità operativa just in time, dovranno avere motivazioni green e obbiettivi conservatori sul piano economico.
Si tratta di salvare il capitalismo dicendo di voler salvare il pianeta.
Il discorso è quasi esplicito in un articolo dell’insospettabile Sole24Ore, quotidiano di Confindustria, dedicato all’ormai prossimo inizio dell’era Lagarde alla testa della Bce. Non si tratta di “pentirsi” del già combinato, né di convertirsi ad un credo cui nessun “investitore professionale” ha mai creduto. Si tratta di fare i conti con freddezza: le perdite provocate da disastri ambientali e climatici aumentano di continuo, e i profitti – anche per questo motivo (non chiedete a dei capitalisti di comprendere la “caduta tendenziale”…) – sono in calo.
Dunque si tratta di rendere la transizione ecologica un business profittevole, trovando per un verso le risorse monetarie necessarie (senza chiedere alle imprese di investire un dollaro proprio), creando un sistema finanziario ad hoc, utilizzando e sostenendo una versione innocua della “sensibilità ambientale”. In pratica, colpevolizzando i singoli esseri umani costretti a vivere in un sistema di produzione che non permette loro scelte libere sulle merci e blaterando di una “difesa dell’ambiente” che non metta mai in discussione quel sistema di produzione. In sintesi: un capitalismo finanziario spietato, ma verde.
Siamo troppo cattivi? “Prevenuti”? “Ideologici”?
Leggetevi IlSole, almeno… Anche solo il finale dell’articolo: il vento sta cambiando un po’ troppo in fretta: la stessa Bce ha sottolineato che una violenta “decarbonizzazione” dei portafogli mondiali rischia di destabilizzare il sistema finanziario internazionale. Quindi sì agli investimenti green, ma con regole chiare su cosa significhi essere “verde” e senza creare scossoni troppo forti nell’abbandono degli asset legati ai combustibili fossili.”
Traduciamo per i profani: “decarbonizzare i portafogli” significa vendere le azioni delle multinazionali petrolifere e similari (tutte quelle impegnate nelle energie fossili). Se le vendite sono massicce e continue, perché gli “investitori” hanno capito che il futuro di queste imprese non è roseo, i prezzi crollano e molti registreranno perdite cospicue “in portafoglio”. Quindi bisogna procede lentamente (“senza creare scossoni troppo forti”), dando il tempo alla “grande alleanza” delle banche centrali di creare un sistema finanziario specializzato ma non alternativo (“ il principio della ‘market neutrality’ obbliga l’istituzione comunitaria a non discriminare un settore rispetto ad altri”).
I tempi di questa “transizione finanziaria” possono essere troppo lenti rispetto a quelli fisico-ambientali, con la scienza a dare ormai meno di dieci anni prima del “punto di non ritorno”?
E che mai gliene può fregare, a questi signori che hanno creato il problema ambientale? Loro sono interessati unicamente al mantenimento del sistema (di produzione e finanziario). Il resto non conta. In fondo loro troveranno sempre un’isoletta abbastanza alta, rispetto al livello del mare in aumento…
Dunque dobbiamo prendere atto della situazione e non lasciarci abbindolare dalle frasi ad effetto, dal “buonismo” o “cattivismo” ambientale; dobbiamo “seguire il denaro” (follow the money), non le dichiarazioni ufficiali, per capire cosa sta accadendo.
Dobbiamo sapere che il progetto del ministro dell’economia tedesco Altmaier – poi ampliato nel mega-piano di investimenti deciso dal governo Merkel – prevede un “fondo per il clima” con rendimento al 2%, in modo da fare di Francoforte un polo dei “green bond”.
E che dal canto suo Macron ha riunito a Parigi i big del risparmio gestito. assieme a sei fondi sovrani (c’era Singapore, ma non i cinesi). In totale questi soggetti controllano 18 mila miliardi di dollari (dieci volte il Pil italiano). Anche Macron vuole fare di Parigi la “capitale finanziaria del verde”.
Molti pretendenti, tanta competizione (alla faccia dell’”unità europea”). Tutti a nascondersi dietro Greta e i sacrosanti movimenti ambientalisti, ma solo per condurre al meglio una vera e propria guerra finanziaria. In entrambi i casi, con la motivazione green si riapre il cordone della spesa in deficit. ;a. ovviamente, secono i trattati europei, non per tutti; solo perchi ha i conti pubblici in un determinato stato.
Claudio Lolli ci canterebbe del “nemico che marcia alla tua testa“. Dario Fo del “tutti uniti, tutti insieme.. ma scusa, quello non è il padrone?” Chico Medes, ambientalista brasiliano ucciso proprio per questo, ci ricorderebbe che “L’ambientalismo senza lotta di classe è semplicemente giardinaggio”.
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Bce, il nuovo «bazooka» di Lagarde è contro il climate change

Lagarde, che dal 1° novembre guiderà la Banca centrale europea, ha preso posizione contro il mutamento climatico. E non è sola: su iniziativa di Mark Carney, numero uno della Banca d’Inghilterra , è nato un colossale network finanziario a difesa dell’ambiente con trenta tra banche centrali e istituti di regolamentazione, forte di un portafoglio complessivo di 100mila miliardi di dollari.
Enrico Marro – IlSole24Ore
Christine ha in testa un “whatever it takes” diverso da quello di Mario: mentre allora ci fu la difesa dell’euro, oggi in primo piano c’è (anche) la lotta al cambiamento climatico, che «dev’essere al centro della missione della Bce e di ogni altra istituzione». Parola appunto di Christine Lagardel’ex ministro delle Finanze francese e attuale numero uno del Fondo monetario internazionale che dal primo novembre siederà sulla poltrona di Mario Draghi nel nuovo palazzo della Banca centrale europea a Francoforte. «Siamo solo agli inizi, ma dobbiamo farne una priorità”, ha scandito in una recente audizione al Parlamento Ue, aggiungendo che «ogni istituzione dovrebbe avere come missione la protezione dell’ambiente».
Certo, la Bce non può investire all’improvviso tutto il suo bilancio di 2600 miliardi di euro in green bond, anche perché non esiste un mercato di “obbligazioni verdi “così vasto. Ma la Lagarde ha chiaramente indicato che la strada su cui bisogna muoversi è quella degli investimenti sostenibili. Almeno per quanto riguarda l’istituzione che presto guiderà.
Sulla strada della lotta della Bce al global warming c’è un unico problema: il principio della “market neutrality”, che obbliga l’istituzione comunitaria a non discriminare un settore rispetto ad altri. La soluzione però è a portata di mano, e a indicarla è stata la stessa Lagarde. Si tratterebbe di accelerare il via libera alla normativa comunitaria, attualmente in discussione presso il Parlamento europeo, che classifica con precisione il profilo di sostenibilità dei vari asset finanziari. Provvedimento opportuno, anche perché classificazioni puntuali e dettagliate sugli investimenti sostenibili tendono a latitare, con la conseguenza che alcuni green bond si sono rivelati ben poco “verdi”, come ha rivelato un recente studio di Insight, società di asset management del gruppo Bny Mellon.
Christine in realtà potrebbe rivelarsi solo la punta dell’iceberg di un’inedita sensibilità ambientale del mondo finanziario, molto preoccupato delle ricadute economici di un climate change che secondo un recente studio di Moody’s Analytics potrebberoro toccare i 69mila miliardi di dollari. Oltre trenta tra banche centrali e autorità di regolamentazione hanno unito le proprie forze nel nuovo “Network for Greening and Financial System”, fondato dal Governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney (ex di Goldman Sachs e della Banca centrale canadese), che per primo nel settembre 2015 sollevò in ambito finanziario il problema del mutamento climatico. Il network può contare su asset gestiti colossali: qualcosa come 100mila miliardi di dollari, quaranta volte il debito pubblico italiano.
Intanto tutte le grandi multinazionali mondiali, inclusi i colossi della Silicon Valley e naturalmente le banche europee già colpite dai tassi sottozero, si stanno preparando a far fronte a un crollo della profittabilità legato al riscaldamento globale. Ma c’è già chi ha iniziato a soffrire: i l climate change sta colpendo con durezza alcuni settori del mondo della finanza e dell’economia. Un paio di esempi? Mentre le grandi società assicurative stanno già da anni leccandosi le ferite del mutamento climatico, con picchi di catastrofi naturali molto costosi da gestire, le major petrolifere sono alle prese con performance borsistiche assai deludenti, per usare un chiaro eufemismo, probabilmente legate a loro volta al vento che cambia nei portafogli degli investitori.
Forse, anzi, il vento sta cambiando un po’ troppo in fretta: la stessa Bce ha sottolineato che una violenta “decarbonizzazione” dei portafogli mondiali rischia di destabilizzare il sistema finanziario internazionale. Quindi sì agli investimenti green, ma con regole chiare su cosa significhi essere “verde” e senza creare scossoni troppo forti nell’abbandono degli asset legati ai combustibili fossili.

venerdì 20 settembre 2019

Quanto è costata la guerra in Afghanistan? All’Italia 7,5 miliardi di euro

Tra le spese indifferibili che compaiono nel bilancio dello Stato, c’è quello delle missioni militari all’estero che vengono ormai rifinanziate ogni anno senza alcuna opposizione. Gli unici che lo hanno fatto, nel 2008, furono due senatori della sinistra (Turigliatto e Rossi) che ne subirono tutte le conseguenze e furono messi fuori dai loro partiti – Prc e PdCI – che allora facevano parte del governo Prodi.
Anche quest’anno, mentre si discuteva del nuovo governo Conte e della manovra di bilancio da realizzare nei prossimi mesi, insieme alle cifre delle clausole di salvaguardia sull’Iva, veniva sempre fuori il dato di 4 miliardi di spese indifferibili che vanno sempre e comunque messe a bilancio e coperte dalla spesa pubblica. Uno dei capitoli di queste spese sono proprio le missioni militari all’estero. E dall’aria che tira non ci sembra proprio che dentro il nuovo governo gialloblu ci sia qualcuno che voglia rimettere in discussione – sul piano politico e su quello economico – la prosecuzione di queste operazioni di affiancamento alle aggressioni imperialiste realizzate dagli Usa o dalla Nato in questi anni. Insomma, su spese e interventismo militare (spesso mascherato con i rassicuranti termini di peace keeping o peace building), non si registra mai alcuna discontinuità, anzi si conferma la totale convergenza bipartisan o “tripartisan” più recentemente.
Ma quanto ci costano e quanto ci sono costate queste missioni militari?
L’Osservatorio Milex, ha puntato il microscopio su quella in Afghanistan e o dati rilevati ci parlano di una spesa di 7,5 miliardi di euro dal suo inizio, nel 2001, fino ad oggi.
Se dovessimo procedere con il criterio dei costi e benefici, un bilancio si impone ed è impietoso da ogni punto di vista, sia per la popolazione afghana sia per il nostro paese.
Il Rapporto Milex scrive che in termini di vite umane il conflitto ha causato 140mila vittime afgane, e tra queste ben 35mila sono civili. Tremilacinquecento sono invece stati i soldati occidentali deceduti in combattimento, 53 dei quali italiani. Morti anche almeno 1.700 contractors di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti. Dati impressionanti, al fronte dei quali sarebbe lecito attendersi importanti progressi nelle condizioni del paese. Invece, spiega il report di Milex, “a parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane maggiori), attribuibili al lavoro delle organizzazioni internazionali e delle ONG, l’Afganistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (su mille nati, 113 decessi entro il primo anno di vita ), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau ) ed è ancora uno 22 dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite ).
Secondo il Rapporto Milex, il costo sostenuto dall’Italia a partire dal novembre 2001 in tutte le missioni (Enduring Freedom fino al 2006, ISAF fino 2014, Resolute Support dal 2015) è di 6,3 miliardi di euro, cioè più di un milione di euro al giorno in media. A questo costo – spiega il dossier – “va aggiunto l’esborso di 360 milioni a sostegno delle forze armate afgane (120 milioni l’anno a partire dal 2015) e circa 900 milioni di spese aggiuntive relative al trasporto truppe, mezzi e materiali da e per l’Italia, alla costruzione di basi e altre infrastrutture militari in teatro, al supporto operativo della Task Force Air (Emirati, Qatar e Bahrein) e degli ufficiali di collegamento distaccati presso Comando Centrale USA di Tampa, Florida, al supporto d’intelligence degli agenti AISE, della protezione attiva e passiva delle basi, al supporto sanitario del personale della Croce Rossa Italiana, alla protezione delle sedi diplomatiche nazionali e alle attività umanitarie militari strumentali (CIMIC, classificate all’estero, con più realismo, come Psy Ops, cioè guerra psicologica: aiuti in cambio di informazioni). Si arriva così a oltre 7,5 miliardi, a fronte di 260 milioni investiti in iniziative di cooperazione civile”. 
A fronte di questi dati, il semplice buonsenso indicherebbe che è arrivato il tempo di mettere fine a queste missioni militari, alle spese che ne derivano e alla conseguenze politiche per il nostro paese sul piano delle relazioni internazionali. La stessa amministrazione Usa ha compreso che in Afghanistan ha perso la guerra scatenata nel 2001 (come del resto tutti quelli che hanno provato ad invadere l’Afghanistan, britannici e sovietici inclusi,ndr) e sta pensando di ritirare i propri militari. Non è che alla fine, per la consueta zelanteria e subalternità a Usa e Nato, sul campo rimarranno solo i soldati italiani? E quando si comincerà a discuterne dentro e fuori il Parlamento?

giovedì 19 settembre 2019

I lager di Francisco Franco: 296 campi di concentramento in cui regnava l’orrore

In occasione dell’80° anniversario della Fine della Guerra Civile Spagnola, è stato pubblicato in Spagna un esaustivo studio su quasi 300 centri di detenzione allestiti da Francisco Franco che documenta le orribili pene inflitte a circa un milione di prigionieri. Il giornalista Carlos Hernández di Miguel, autore di ”Gli ultimi spagnoli di Mauthausen” ci parla di un sistema repressivo basato sulla paura, lo sterminio e la “rieducazione”.
Il trasferimento avveniva in carri bestiame. Fame, “eserciti di pidocchi, cimici e pulci” (che facevano muovere i vestiti da soli a terra, evocava un prigioniero); malattie (tifo, tubercolosi, rogna …);  mancanza di assistenza sanitaria e di condizioni igieniche; sovraffollamento, umiliazioni, freddo e caldo estremi; pestaggi e torture letali; lavoro forzato in molti casi; paura di morire in qualsiasi momento. “Portarono via le loro cose ed i loro vestiti non appena arrivarono al campo; poi gli rasarono i capelli e li trasformarono in una massa amorfa e spersonalizzata che doveva essere spazzata via e che doveva negare i propri ideali ed i propri principi.”
Era un processo globale di disumanizzazione dei prigionieri che non erano considerati persone ma venivano trattati come sottouomini e come schiavi. Così ne narra il giornalista Carlos Hernández de Miguel, parlando del risultato dell’indagine che ha condotto per anni e che ha pubblicato nel libro ”I campi di concentramento de Franco” (Edizioni B), arrivato giovedì nelle librerie spagnole ed in cui, attraverso archivi e testimonianze di sopravvissuti, documenta fino a 296 campi di concentramento, 14 dei quali in Catalogna, considerati come tali dal regime franchista, aperti nel corso della guerra civile ed operanti durante la dittatura. Come la Falange de Cádiz avvertì sulla copertina del suo giornale ‘Águilas’: “Creeremo campi di concentramento per criminali pigri e politici; per massoni ed ebrei; per i nemici della Patria. Pane e giustizia”.
E da lì passarono circa un milione di internati tra uomini e donne, ovvero, coloro che. secondo i franchisti, erano solo “un’orda di assassini e fuorilegge” che non meritavano la protezione della Convenzione di Ginevra e che, secondo lo psichiatra primario di Franco, Antonio Vallejo-Nágera, erano identificati come “pazienti con il gene rosso”. 
Su di loro “non pesava nessuna accusa e/o capo di imputazione. Erano prigionieri di guerra repubblicani, di sinistra (politici e sindacalisti) “, ricorda l’autore di un altro saggio monumentale e necessario, ”Gli ultimi spagnoli di Mauthausen” (2015), dal quale ha tratto poi ” Deportado 4443 “ ( 2017) , un lavoro divulgativo realizzato con il fumettista Ioannes Ensis.


“Scappa dall’ombra di Auschwitz”

Quando si parla di campi di concentramento è impossibile non pensare allo sterminio di Hitler, con le caserme circondate da filo spinato. Le sanzioni e le condizioni citate erano simili, ma “dobbiamo fuggire dall’ombra di Auschwitz ed evitare il confronto diretto con il nazismo“, ammonisce Hernández, “perché può sembrare che a fronte di sei milioni di sterminati nelle camere a gas, le vittime di altri crimini contro l’umanità siano meno vittime. Franco aveva i suoi obiettivi, le guerre erano diverse e i campi di Franco erano un sistema con le sue peculiarità. Voleva sterminare alcuni e rieducare il resto.”
Sono stati campi improvvisati e c’è stata disorganizzazione, ma la loro creazione è stata premeditata“, dice l’autore, un ex corrispondente in conflitti come Kosovo, Palestina, Afghanistan e Iraq.
Il primo campo si aprì il 19 luglio 1936, appena 48 ore dopo il colpo di stato contro la Repubblica, a Zeluán, nell’ex protettorato spagnolo del Marocco. “Già in aprile, il generale Mola aveva chiamato alle armi per creare quell’atmosfera di terrore e per sparare a chiunque avesse legami con il Fronte Popolare“.
Il corso più lungo è stato quello di Miranda de Ebro (Burgos), chiuso nel 1947 e attraverso il quale sono passati 100.000 prigionieri. “Erano un’altra gamba, orribile e terrificante, del sistema repressivo di Franco“. Le prigioni meriterebbero un altro libro. Si aprirono campi in corride; in spazi sportivi, conventi e monasteri; in centri di asilo, fabbriche, magazzini, piste. Lì dentro le condizioni di vita e di morte dipendevano dall’arbitrarietà di ciascun ufficiale comandante. “I prigionieri ricordano la paura di morire in qualsiasi momento. Temevano che la porta si sarebbe aperta e sarebbero venuti a trovarli per un” tiro fuori “, il che significava che sarebbero stati colpiti in qualsiasi istante”
Delle testimonianze dei prigionieri, evidenzia Hernández, sono diverse le caratteristiche che li definivano. “Uno, la paura di morire in qualsiasi momento. Il panico del rumore di notte, perché se sentivano aprirsi una porta significava che venivano a trovare qualcuno per un “decollo” e gli veniva sparato”. E poi durante il giorno, le visite dei Falangisti che cercavano vendetta su ex vicini ma anche vedove a caccia dei presunti assassini dei loro mariti. “Il destino era lo stesso, finire morto in un fosso qualsiasi”.
Due, la fame ed i suoi effetti, che descrivono in modo netto: ”Acqua nera di castagne, acqua con lische di pesce e vermi, bevevamo l’urina stessa […] Siamo regrediti al punto da perdere tutta la dignità umana”, ricorda il prigioniero José María Muguerza. Un esempio: il caso che Guillermo Gómez Blanco ha raccontato del cane lupo che fu portato “per impressionare[…] un tenente molto nello stile della Gestapo, con la frusta e gli occhiali senza selle e che in una disattenzione è scomparso […] L’avevano mangiato crudo!” .
I sacerdoti hanno svolto un ruolo importante nell’indottrinamento e nella ‘rieducazione’. Ed hanno violato il segreto della confessione per ottenere informazioni dai prigionieri”
E tre: oltre che “ luoghi di sterminio, i campi servivano anche per la così detta ‘rieducazione’, ovvero, per ottenere sottomissione ideologica e mentale“, perché come diceva Franco, il suo obiettivo era “non solo vincere, ma convincere“, sebbene i suoi metodi riuscissero solo a sottomettere e riaffermare il disprezzo dei prigionieri nei confronti del regime.
I prigionieri erano obbligati a cantare ‘Volto al sole’ ed altri inni franchisti più volte al giorno ed a fare il saluto fascista. Poi dovevano partecipare alle messe ed alla comunione. Un ruolo fondamentale e minaccioso quello che la Chiesa cattolica ha esercitato, denuncia Hernandez, “un’indottrinamento forzato da parte dei sacerdoti.[…] hanno violato il segreto della confessione per ottenere informazioni dai prigionieri e usarle contro i loro coetanei”.
Il bilancio delle vittime è difficile da specificare. I 10.000 che erano stati indicati dallo storico Javier Rodrigo, che aveva registrato, ai suoi tempi, 188 campi, secondo Hernandez, sono meno di quelli ora accertati. “Ora, dopo aver documentato i nuovi campi, solo i morti in 15 dei 296 campi, ne hanno aggiunto altri 6.000”.
Non ci sono dati nei registri o nei cimiteri, le cause delle morti sono state falsificate. La maggioranza delle vittime si trova, ancora oggi, in fosse comuni in cui vennero gettati quelli che furono considerati “nemici irrecuperabili”, uccisi dopo aver lasciato il campo per essere sottoposti a consigli di guerra e processi sommari senza garanzie.

Vivi con “paura e vergogna”

Uno di quei prigionieri, Luis Ortiz, rilasciato nel 1943 e le cui parole chiudono il libro di Hernandez, è morto la scorsa settimana a 102 anni . Ha detto che voleva morire con gli stivali addosso e lo ha fatto, come messaggio da trasmettere ai giovani sulla vera realtà del regime franchista. “ Durante la dittatura, questi uomini che avevano difeso le idee democratiche vivevano con paura e vergogna perché la società identificava i repubblicani con criminali e assassini di preti”, lamenta il giornalista che aggiunge: “Coloro che vogliono riciclare il franchismo oggi devono ricordarsi loro che in questo paese c’era un regime democratico che è stato violato da un colpo di stato fascista con il sostegno dei nazisti e di Mussolini “.


Abusi e stupri di donne

Non c’erano campi femminili ma c’erano donne nei campi, come a Los Almendros de Alicante o Cabra (Cordova). La maggior parte era in prigione, ma soffriva la fame, il sovraffollamento ed i maltrattamenti proprio come gli uomini. E vessazioni, come la somministrazione forza di olio di ricino per provocargli la diarrea, e poi costringerle a sfilare con i capelli rasati.
La vasta pratica nei campi, secondo diverse testimonianze, fu lo stupro di mogli e figlie di prigionieri quando vennero per portare loro vestiti e cibo. I prigionieri sapevano che non avevano altra scelta che “abbassarsi”. A Castuera, quando ne portarono uno al muro, i suoi compagni gli cantavano: “Donna che adoro, quanto mi dispiace / non posso più abbracciarti (…). Piango perché tutto è finito / per salvarmi il tuo onore che hai dato / lo so anche io.”  Quasi 31.000 bambini sono nati in questo modo durante il regime di Franco secondo i dati delle Nazioni Unite.


In Catalogna, da Horta a Reus e Puigcerdà

Dei 296 campi di concentramento ufficiali di Franco, in Catalogna, ve ne furono 14 . Dopo la caduta di Barcellona, ​​il 26 gennaio 1939, i ribelli vennero ammassati nella prigione Modello, nella prigione femminile di Les Corts e nel castello di Montjuïc.
Ma poi, a febbraio, aprirono la Casa di la Caritat de Horta, un campo stabile con una capacità di 15.000 prigionieri che operò fino all’aprile del 1940. Lleida era la provincia catalana con più campi, sei, tra cui quello del Vecchio Seminario nella cattedrale, il conservatorio Vilalta e la fabbrica di cemento a Cervera (fino a 5.000 prigionieri). Anche i conventi di San Agustín de Igualada, Carmen de Manresa, La Punxa a Tarragona, la caserma di cavalleria di Reus , il deposito di carbone e il castello di San Fernando a Figueras furono usati come lager.