Alla fine, si può ben dire che, nonostante tutto, non tutti hanno dimenticato. La sala del Sally Brown Rude-pub riempita
per tre ore abbondanti nella sera di mercoledì 27 marzo da persone di
tutte le fasce di età ci ridà l’importanza che l’esercizio della memoria
storica (in tempi, da questo punto di vista, perlomeno discutibili)
ancora riveste per alcuni di noi.
L’occasione, se così si può chiamare, sono i venti anni da quella maledetta notte tra il 23 e il 24 marzo del 1999 in cui la Nato dette inizio al primo dei 78 giorni di bombardamenti sull’allora Repubblica federale jugoslava, a Belgrado, Serbia odierna. In uno di numerosi appuntamenti che si stanno tenendo su tutto il territorio nazionale, ne abbiamo discusso con Andrea Martocchia (Cnj), Alberto Fazolo e Sergio Cararo (Contropiano), a cui è seguito un lungo e ricco dibattito con gli organizzatori della serata (Usb, Noi Restiamo, Osa, Magazzini Popolari di Casal Bertone e Coniare Rivolta) e tutti i presenti.
La discussione si è articolata intorno a tre filoni principali: il campo geopolitico su cui è stata giocata quella partita, il ruolo tenuto dall’Italia nei suoi vari segmenti (politici, sindacali, sociali), e il significato, alla luce del presente, assunto da quella guerra.
Lo smembramento della Jugoslavia non può che essere inserito nella generale frammentazione di quei territori che, dalla caduta del muro di Berlino in poi, si sono trovati nella complicata condizione di essere quella ex-terra di mezzo tra i due blocchi protagonisti della Guerra fredda, e dunque preda ghiotta per chi quella guerra l’aveva portata a casa, ossia Usa, Nato e la nascente Unione europea.
Dalla sofferta dichiarazione d’indipendenza del 1991 da parte della Slovenia e della Croazia in poi, su cui è stato più volte rimarcato il ruolo attivo dello Stato Vaticano, la lunga marcia che ha portato alla dichiarazione d’indipendenza del Kosovo del 2008 è stata il segno di un mondo che stava cambiando, e che pure non ha certo trovato pace (letteralmente) nella conformazione raggiunta a seguito di quella sanguinosa guerra.
Gli Stai uniti, con la derubricazione dell’Uck (sigla albanese delle forze indipendentiste kosovare) da organizzazione terroristica a paladini della libertà, diedero mano libera a questi ultimi di alzare la tensione nella regione e giustificare così l’intervento armato “umanitario” per mezzo della Nato. Anche il mancato accordo dei colloqui di Rambouillet, trappolone occidentale in cui, tra le altre cose, si “chiedeva” a quel che rimaneva delle Repubbliche federate la piena agibilità militare della Nato sul territorio, fu un passaggio cruciale nella costruzione ad hoc di un nemico, la cui colpa era in realtà quella di essere posizionato su un territorio strategicamente decisivo per le sorti dei futuri rapporti di forza mondiali.
E l’Italia? Se l’asservimento della classe dirigente nostrana ai voleri statunitensi, dal secondo dopoguerra in poi, non era certo un novità, il marzo del 1999 registra però un salto di qualità importante: il neo governo capeggiato da D’Alema, sostenuto tra gli altri dal PdCI di Cossutta, certifica la sudditanza della “sinistra” italiana alle logiche del capitalismo neoliberale, finanche nell’aggressione guerreggiata in territorio straniero.
Come se non bastasse, sulla stessa linea si schierarono la CgilCislUil, rei di non aver lanciato (andando anche contro a una parte della propria base) lo sciopero generale contro la guerra. Sciopero generale che invece vide protagonisti il 13 aprile le sigle del sindacalismo di base nella maggiori piazze del paese, fiancheggiate dai movimenti che compresero l’importanza di quella mobilitazione.
Di tutt’altro segno invece la portata di rottura di quella che viene ricordata come la presa di posizione della “società civile”. Il mondo dell’associazionismo si allineò con la «dolorosa necessità» menzionata dall’allora segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati, di quell’attacco militare. Ta le altre cose, i dati finanziari della Missione arcobaleno (missione umanitaria del valore di 32 miliardi di lire messa in piedi dal governo) rendono di sicuro più chiaro le ragioni profonde di un tale posizionamento.
Tutta l’importanza di quei lunghi e dolorosi anni, qui e ieri sera ricordati per sommi capi, svolgono un ruolo molto importate per la comprensione dello stato di cose presenti, verrebbe da dire, specialmente per questo paese.
Dovendo sintetizzare questo concetto in un termine, si può legittimamente dire che la guerra in Jugoslavia è stato uno spartiacque per almeno due motivi: da una parte, è stato l’atto costitutivo della di lì a poco Unione europea in termini di “politica estera”. Se ancora subalterna a Usa e Nato, nella frammentazione, come è stato detto, «di quel che sta a est di Gorizia» (10 Stati nel 1989 che diventano 28 nel 1999, 30 al giorno d’oggi) è possibile rileggere i voleri – in prima istanza della Germania – di avere una sequela di piccoli Stati con poca forza negoziale in grado di fornire forza-lavoro a basso costo e produrre così l’accelerazione determinante al processo di globalizzazione dei mercati e d’integrazione europea. Dall’altra, come già ricordato, il tradimento di quelle forze che ancora oggi si arrecano il diritto d’inserire il termine “sinistra” per definire la loro collocazione politica.
Il ruolo delle fake news, dei sindacati concertativi, dell’associazionismo miope quando non complice, degli interessi economico-politici in ballo, sono ancora oggi un elemento fondamentale della narrazione tossica che viene prodotta sulla guerra in Jugoslavia, così come sull’attacco alla democrazia venezuelana.
Di questo, e di molto altro, si parlerà il prossimo 6 aprile a Bologna, stavolta in un convegno di una giornata intera dedicata alla “questione jugoslava”.
Quanto a noi, proprio nelle numerose manifestazioni di solidarietà e di lotta che andarono in scena nei mesi del governo D’Alema, vogliamo ricordare la nascita dello slogan «Dietro quello scudo c’ero anch’io» quando, poche settimane prima dei bombardamenti su Belgrado, furono arrestati i compagni che durante una manifestazione avevano duramente sanzionato le linee aeree turche per protestare contro la consegna del leader del Pkk, Ocalan, dal governo italiano alla Turchia. I compagni e le compagne che seppero riconoscere immediatamente da che parte stare, nonostante la propaganda generata e la dura repressione messa in atto dalle forze dell’ordine, è l’elemento da cui ripartire per dirigere la lotta odierna verso un nemico concreto, anche se sapientemente celato dietro parole di apparente cambiamento ma di sostanziale compatibilità con gli interessi dominanti.
La Jugoslavia fu uno spartiacque, e a distanza di venti anni lo è ancora. Purtroppo, quando si arriva al quel delicato momento in cui la scelta non prevede una via di fuga, un punto di ritorno, ogni tentennamento è un regalo alle ragioni dell’avversario.
L’occasione, se così si può chiamare, sono i venti anni da quella maledetta notte tra il 23 e il 24 marzo del 1999 in cui la Nato dette inizio al primo dei 78 giorni di bombardamenti sull’allora Repubblica federale jugoslava, a Belgrado, Serbia odierna. In uno di numerosi appuntamenti che si stanno tenendo su tutto il territorio nazionale, ne abbiamo discusso con Andrea Martocchia (Cnj), Alberto Fazolo e Sergio Cararo (Contropiano), a cui è seguito un lungo e ricco dibattito con gli organizzatori della serata (Usb, Noi Restiamo, Osa, Magazzini Popolari di Casal Bertone e Coniare Rivolta) e tutti i presenti.
La discussione si è articolata intorno a tre filoni principali: il campo geopolitico su cui è stata giocata quella partita, il ruolo tenuto dall’Italia nei suoi vari segmenti (politici, sindacali, sociali), e il significato, alla luce del presente, assunto da quella guerra.
Lo smembramento della Jugoslavia non può che essere inserito nella generale frammentazione di quei territori che, dalla caduta del muro di Berlino in poi, si sono trovati nella complicata condizione di essere quella ex-terra di mezzo tra i due blocchi protagonisti della Guerra fredda, e dunque preda ghiotta per chi quella guerra l’aveva portata a casa, ossia Usa, Nato e la nascente Unione europea.
Dalla sofferta dichiarazione d’indipendenza del 1991 da parte della Slovenia e della Croazia in poi, su cui è stato più volte rimarcato il ruolo attivo dello Stato Vaticano, la lunga marcia che ha portato alla dichiarazione d’indipendenza del Kosovo del 2008 è stata il segno di un mondo che stava cambiando, e che pure non ha certo trovato pace (letteralmente) nella conformazione raggiunta a seguito di quella sanguinosa guerra.
Gli Stai uniti, con la derubricazione dell’Uck (sigla albanese delle forze indipendentiste kosovare) da organizzazione terroristica a paladini della libertà, diedero mano libera a questi ultimi di alzare la tensione nella regione e giustificare così l’intervento armato “umanitario” per mezzo della Nato. Anche il mancato accordo dei colloqui di Rambouillet, trappolone occidentale in cui, tra le altre cose, si “chiedeva” a quel che rimaneva delle Repubbliche federate la piena agibilità militare della Nato sul territorio, fu un passaggio cruciale nella costruzione ad hoc di un nemico, la cui colpa era in realtà quella di essere posizionato su un territorio strategicamente decisivo per le sorti dei futuri rapporti di forza mondiali.
E l’Italia? Se l’asservimento della classe dirigente nostrana ai voleri statunitensi, dal secondo dopoguerra in poi, non era certo un novità, il marzo del 1999 registra però un salto di qualità importante: il neo governo capeggiato da D’Alema, sostenuto tra gli altri dal PdCI di Cossutta, certifica la sudditanza della “sinistra” italiana alle logiche del capitalismo neoliberale, finanche nell’aggressione guerreggiata in territorio straniero.
Come se non bastasse, sulla stessa linea si schierarono la CgilCislUil, rei di non aver lanciato (andando anche contro a una parte della propria base) lo sciopero generale contro la guerra. Sciopero generale che invece vide protagonisti il 13 aprile le sigle del sindacalismo di base nella maggiori piazze del paese, fiancheggiate dai movimenti che compresero l’importanza di quella mobilitazione.
Di tutt’altro segno invece la portata di rottura di quella che viene ricordata come la presa di posizione della “società civile”. Il mondo dell’associazionismo si allineò con la «dolorosa necessità» menzionata dall’allora segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati, di quell’attacco militare. Ta le altre cose, i dati finanziari della Missione arcobaleno (missione umanitaria del valore di 32 miliardi di lire messa in piedi dal governo) rendono di sicuro più chiaro le ragioni profonde di un tale posizionamento.
Tutta l’importanza di quei lunghi e dolorosi anni, qui e ieri sera ricordati per sommi capi, svolgono un ruolo molto importate per la comprensione dello stato di cose presenti, verrebbe da dire, specialmente per questo paese.
Dovendo sintetizzare questo concetto in un termine, si può legittimamente dire che la guerra in Jugoslavia è stato uno spartiacque per almeno due motivi: da una parte, è stato l’atto costitutivo della di lì a poco Unione europea in termini di “politica estera”. Se ancora subalterna a Usa e Nato, nella frammentazione, come è stato detto, «di quel che sta a est di Gorizia» (10 Stati nel 1989 che diventano 28 nel 1999, 30 al giorno d’oggi) è possibile rileggere i voleri – in prima istanza della Germania – di avere una sequela di piccoli Stati con poca forza negoziale in grado di fornire forza-lavoro a basso costo e produrre così l’accelerazione determinante al processo di globalizzazione dei mercati e d’integrazione europea. Dall’altra, come già ricordato, il tradimento di quelle forze che ancora oggi si arrecano il diritto d’inserire il termine “sinistra” per definire la loro collocazione politica.
Il ruolo delle fake news, dei sindacati concertativi, dell’associazionismo miope quando non complice, degli interessi economico-politici in ballo, sono ancora oggi un elemento fondamentale della narrazione tossica che viene prodotta sulla guerra in Jugoslavia, così come sull’attacco alla democrazia venezuelana.
Di questo, e di molto altro, si parlerà il prossimo 6 aprile a Bologna, stavolta in un convegno di una giornata intera dedicata alla “questione jugoslava”.
Quanto a noi, proprio nelle numerose manifestazioni di solidarietà e di lotta che andarono in scena nei mesi del governo D’Alema, vogliamo ricordare la nascita dello slogan «Dietro quello scudo c’ero anch’io» quando, poche settimane prima dei bombardamenti su Belgrado, furono arrestati i compagni che durante una manifestazione avevano duramente sanzionato le linee aeree turche per protestare contro la consegna del leader del Pkk, Ocalan, dal governo italiano alla Turchia. I compagni e le compagne che seppero riconoscere immediatamente da che parte stare, nonostante la propaganda generata e la dura repressione messa in atto dalle forze dell’ordine, è l’elemento da cui ripartire per dirigere la lotta odierna verso un nemico concreto, anche se sapientemente celato dietro parole di apparente cambiamento ma di sostanziale compatibilità con gli interessi dominanti.
La Jugoslavia fu uno spartiacque, e a distanza di venti anni lo è ancora. Purtroppo, quando si arriva al quel delicato momento in cui la scelta non prevede una via di fuga, un punto di ritorno, ogni tentennamento è un regalo alle ragioni dell’avversario.