venerdì 29 marzo 2019

La guerra alla Jugoslavia è ancora uno spartiacque

Alla fine, si può ben dire che, nonostante tutto, non tutti hanno dimenticato. La sala del Sally Brown Rude-pub riempita per tre ore abbondanti nella sera di mercoledì 27 marzo da persone di tutte le fasce di età ci ridà l’importanza che l’esercizio della memoria storica (in tempi, da questo punto di vista, perlomeno discutibili)  ancora riveste per alcuni di noi.
L’occasione, se così si può chiamare, sono i venti anni da quella maledetta notte tra il 23 e il 24 marzo del 1999 in cui la Nato dette inizio al primo dei 78 giorni di bombardamenti sull’allora Repubblica federale jugoslava, a Belgrado, Serbia odierna. In uno di numerosi appuntamenti che si stanno tenendo su tutto il territorio nazionale, ne abbiamo discusso con Andrea Martocchia (Cnj), Alberto Fazolo e Sergio Cararo (Contropiano), a cui è seguito un lungo e ricco dibattito con gli organizzatori della serata (Usb, Noi Restiamo, Osa, Magazzini Popolari di Casal Bertone e Coniare Rivolta) e tutti i presenti.
La discussione si è articolata intorno a tre filoni principali: il campo geopolitico su cui è stata giocata quella partita, il ruolo tenuto dall’Italia nei suoi vari segmenti (politici, sindacali, sociali), e il significato, alla luce del presente, assunto da quella guerra.
Lo smembramento della Jugoslavia non può che essere inserito nella generale frammentazione di quei territori che, dalla caduta del muro di Berlino in poi, si sono trovati nella complicata condizione di essere quella ex-terra di mezzo tra i due blocchi protagonisti della Guerra fredda, e dunque preda ghiotta per chi quella guerra l’aveva portata a casa, ossia Usa, Nato e la nascente Unione europea.
Dalla sofferta dichiarazione d’indipendenza del 1991 da parte della Slovenia e della Croazia in poi, su cui è stato più volte rimarcato il ruolo attivo dello Stato Vaticano, la lunga marcia che ha portato alla dichiarazione d’indipendenza del Kosovo del 2008 è stata il segno di un mondo che stava cambiando, e che pure non ha certo trovato pace (letteralmente) nella conformazione raggiunta a seguito di quella sanguinosa guerra.
Gli Stai uniti, con la derubricazione dell’Uck (sigla albanese delle forze indipendentiste kosovare) da organizzazione terroristica a paladini della libertà, diedero mano libera a questi ultimi di alzare la tensione nella regione e giustificare così l’intervento armato “umanitario” per mezzo della Nato. Anche il mancato accordo dei colloqui di Rambouillet, trappolone occidentale in cui, tra le altre cose, si “chiedeva” a quel che rimaneva delle Repubbliche federate la piena agibilità militare della Nato sul territorio, fu un passaggio cruciale nella costruzione ad hoc di un nemico, la cui colpa era in realtà quella di essere posizionato su un territorio strategicamente decisivo per le sorti dei futuri rapporti di forza mondiali.
E l’Italia? Se l’asservimento della classe dirigente nostrana ai voleri statunitensi, dal secondo dopoguerra in poi, non era certo un novità, il marzo del 1999 registra però un salto di qualità importante: il neo governo capeggiato da D’Alema, sostenuto tra gli altri dal PdCI di Cossutta, certifica la sudditanza della “sinistra” italiana alle logiche del capitalismo neoliberale, finanche nell’aggressione guerreggiata in territorio straniero.
Come se non bastasse, sulla stessa linea si schierarono la CgilCislUil, rei di non aver lanciato (andando anche contro a una parte della propria base) lo sciopero generale contro la guerra. Sciopero generale che invece vide protagonisti il 13 aprile le sigle del sindacalismo di base nella maggiori piazze del paese, fiancheggiate dai movimenti che compresero l’importanza di quella mobilitazione.
Di tutt’altro segno invece la portata di rottura di quella che viene ricordata come la presa di posizione della “società civile”. Il mondo dell’associazionismo si allineò con la «dolorosa necessità» menzionata dall’allora segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati, di quell’attacco militare. Ta le altre cose, i dati finanziari della Missione arcobaleno (missione umanitaria del valore di 32 miliardi di lire messa in piedi dal governo) rendono di sicuro più chiaro le ragioni profonde di un tale posizionamento.

Tutta l’importanza di quei lunghi e dolorosi anni, qui e ieri sera ricordati per sommi capi, svolgono un ruolo molto importate per la comprensione dello stato di cose presenti, verrebbe da dire, specialmente per questo paese.
Dovendo sintetizzare questo concetto in un termine, si può legittimamente dire che la guerra in Jugoslavia è stato uno spartiacque per almeno due motivi: da una parte, è stato l’atto costitutivo della di lì a poco Unione europea in termini di “politica estera”. Se ancora subalterna a Usa e Nato, nella frammentazione, come è stato detto, «di quel che sta a est di Gorizia» (10 Stati nel 1989 che diventano 28 nel 1999, 30 al giorno d’oggi) è possibile rileggere i voleri – in prima istanza della Germania – di avere una sequela di piccoli Stati con poca forza negoziale in grado di fornire forza-lavoro a basso costo e produrre così l’accelerazione determinante al processo di globalizzazione dei mercati e d’integrazione europea. Dall’altra, come già ricordato, il tradimento di quelle forze che ancora oggi si arrecano il diritto d’inserire il termine “sinistra” per definire la loro collocazione politica.
Il ruolo delle fake news, dei sindacati concertativi, dell’associazionismo miope quando non complice, degli interessi economico-politici in ballo, sono ancora oggi un elemento fondamentale della narrazione tossica che viene prodotta sulla guerra in Jugoslavia, così come sull’attacco alla democrazia venezuelana.
Di questo, e di molto altro, si parlerà il prossimo 6 aprile a Bologna, stavolta in un convegno di una giornata intera dedicata alla “questione jugoslava”.
Quanto a noi, proprio nelle numerose manifestazioni di solidarietà e di lotta che andarono in scena nei mesi del governo D’Alema, vogliamo ricordare la nascita dello slogan «Dietro quello scudo c’ero anch’io» quando, poche settimane prima dei bombardamenti su Belgrado, furono arrestati i compagni che durante una manifestazione avevano duramente sanzionato le linee aeree turche per protestare contro la consegna del leader del Pkk, Ocalan, dal governo italiano alla Turchia. I compagni e le compagne che seppero riconoscere immediatamente da che parte stare, nonostante la propaganda generata e la dura repressione messa in atto dalle forze dell’ordine, è l’elemento da cui ripartire per dirigere la lotta odierna verso un nemico concreto, anche se sapientemente celato dietro parole di apparente cambiamento ma di sostanziale compatibilità con gli interessi dominanti.
La Jugoslavia fu uno spartiacque, e a distanza di venti anni lo è ancora. Purtroppo, quando si arriva al quel delicato momento in cui la scelta non prevede una via di fuga, un punto di ritorno, ogni tentennamento è un regalo alle ragioni dell’avversario.

giovedì 28 marzo 2019

Theresa May: “Brexit e vado via

Nell’estremo tentativo di convincere i deputati Conservatori euroscettici a sostenere il suo accordo di ritiro dall’Unione Europea, Theresa May ha promesso al gruppo parlamentare Tory di dimettersi dalla carica di Primo Ministro prima dell’avvio della prossima fase dei negoziati sulla Brexit. La Premier si è detta pronta a lasciare il posto ad un altro esponente del suo partito, cedendo dunque alle pressioni della destra interna. Il discorso (pronunciato ad una riunione del gruppo alla Camera dei Comuni), è stato riportato dai principali quotidiani britannici come segue.
“Percepisco chiaramente gli umori del gruppo parlamentare. So che c’è un desiderio per un nuovo approccio nella seconda fase dei negoziati per la Brexit, e per una nuova leadership. Non ostacolerò queste legittime aspirazioni. Dunque, qualora il mio accordo dovesse ottenere il via libera ai Comuni, non interpreterò questo successo come un mandato per avviare la seconda fase delle consultazioni con l’Unione Europea e per proseguire nella mia premiership. Non lo farò. Ma, adesso, dobbiamo ratificare l’accordo e procedere all’implementazione della Brexit. Sono pronta a dimettermi da Primo Ministro prima di quanto intendessi fare, al fine di ottenere ciò che è giusto per il nostro paese e per il nostro partito”.
Theresa May non ha fissato una data specifica per le sue dimissioni. L’annuncio del Primo Ministro è considerato fondamentale per ottenere il sostegno di alcune decine di parlamentari favorevoli ad una Hard Brexit (tra cui Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg), che a questo punto, potrebbero sostenere l’accordo di uscita negoziato dalla May con l’UE (in precedenza giudicato troppo morbido). La destra interna ai Tories, infatti, aveva richiesto un avvicendamento al vertice del governo come precondizione per appoggiare il suo deal.
Secondo il Guardian, alcuni deputati conservatori avrebbero dichiarato, all’uscita della riunione, che questo discorso segnerebbe l’avvio del processo di selezione di un nuovo capo del Partito Conservatore; l’obiettivo sarebbe quello di avere un leader pronto a prendere le redini della compagine in tempo per la prossima conferenza (fissata per l’autunno).
Non è ancora certo, tuttavia, che la proposta di uscita dalla UE possa ottenere la maggioranza alla Camera dei Comuni: Theresa May dovrà portare dalla sua parte, oltre agli euroscettici del suo Partito, anche gli Unionisti dell’Irlanda del Nord, a meno di un soccorso proveniente da alcuni battitori liberi laburisti spaventati dal concretizzarsi dell’ipotesi di una uscita unilaterale.
Il Ministro della Brexit, Steve Barclay, aveva annunciato in precedenza che il governo aveva pianificato di chiedere alla Camera dei Comuni di riunirsi Venerdì, nella speranza di sottoporre nuovamente al voto dei deputati l’accordo (già respinto due volte). Tuttavia, i ministri dovranno vincere le resistenze del Presidente dell’assemblea, John Bercow, che, la settimana scorsa, non aveva acconsentito alla terza consultazione sul testo proposto dalla May.

mercoledì 27 marzo 2019

L’Europa franco-tedesca si è riunita ieri, a Camere congiunte

Segnatevi la data, perché anche questa – 25 marzo 2019, mentre Xi Jinping attraversa l’Europa firmando Memorandum e accordi vari – è quasi storica (dov’è finito quell’imbecille di statunitense che affermava fosse “finita”?).
50 parlamentari tedeschi e 50 parlamentari francesi si sono trovati ieri a Parigi per la prima volta in una seduta parlamentare congiunta.
La decisione di creare questo organismo era stata presa, tra le altre cose, nel Trattato di Aquisgrana, firmato a gennaio dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Emmanuel Macron.
La storica seduta è stata diretta congiuntamente dai due presidenti dei rispettivi parlamenti, Wolfgang Schauble e Richard Ferrand.
50 deputati di ogni paese provengono da quasi tutti i partiti politici, proporzionali al loro numero nei parlamenti nazionali.
Il trattato prevede di convocare in futuro il nuovo parlamento congiunto due volte l’anno (ovviamente in modo alternato nei due paesi).
Il trattato di Aquisgrana è universalmente considerato un superamento de facto delle istituzioni europee, che però mantengono intatto il loro potere sugli altri paesi, considerati “normali”, e mira a rafforzare la cooperazione franco-tedesca in Europa.
Si tratta insomma di un passo sostanziale verso un rafforzamento del “motore franco-tedesco”, assegnando anche formalmente a Parigi e Berlino una leadership continentale cui tutti gli altri dovranno sottostare, volenti o nolenti, altrimenti “i mercati” faranno sentire la loro incazzatura.
Lo scopo del nuovo parlamento è di monitorare “gli affari di interesse comune”, compresi la politica estera, la sicurezza e la difesa, compresa la partecipazione all’assemblea dell’Onu (in cui la Francia, ma non la Germania, è membro permanente del Consiglio di Sicurezza). L’essenziale, insomma, visto che per quanto concerne l’economia e la moneta già funzionano come boa constrictor collettivi i trattati europei e la Bce.
Per ridurre almeno in parte le resistenze politiche nei due paesi, il parlamento congiunto non sarà per ora legalmente vincolante per i parlamenti nazionali di nessuno dei due paesi. Insomma, non potrà prendere “decisioni”, ma elaborerà “consigli” che starà poi alle rispettive maggioranze parlamentari nazionali far rispettare.
Schäuble ha affermato che la nuova organizzazione “sottolinea il nostro impegno a collocare la cooperazione bilaterale in un contesto europeo“. La traduzione pratica non è difficile da capire: “stabiliremo noi la line che tutti gli altri dovranno seguire”. E’ infatti da escludere che i due “motori” intendano rinunciare alla loro presa sugli altri 25 membri Ue. Al contrario, provano a “rafforzarla”, come dicono quasi esplicitamente.
Fa un bel po’ pena, in questa chiave, il povero Matteo Salvini che dopo il raddoppio dei voti nelle elezioni lucane straparla di “e adesso cambiamo l’Europa”. La stanno già cambiando, in effetti, e la sua opinione non interessa nessuno…
Perché, come precisa Schaeuble, “Germania e Francia hanno una responsabilità speciale per l’Europa“. Infatti, “Se il motore franco-tedesco non funzionasse, l’intera Europa rallenterebbe“. Non che tutti stiano tranquilli. Persino il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker aveva lanciato un monito, alla firma del trattato, sul fatto che “una cooperazione rafforzata nei piccoli formati non è un’alternativa alla cooperazione di tutta l’Europa“.
Alternativa no, sovradeterminazione invece sì…

martedì 26 marzo 2019

Elezioni in Basilicata. Una prima analisi del voto

Le elezioni regionali che si sono tenute in Basilicata il 24 marzo 2019 hanno confermato le tendenze già manifestatesi nelle elezioni regionale tenute pochissimi mesi fa in Abruzzo e in Sardegna, ovvero avanzata del Centrodestra, con un forte aumento di voti per la Lega di Salvini a scapito di Forza Italia e del Movimento5Stelle, un recupero del Centro Sinistra rispetto alle elezioni politiche, grazie a molte liste che appoggiavano i candidati Presidente di questo schieramento, ed un forte ridimensionamento del Movimento5Stelle.
Vediamo ora di ragionare intorno ai risultati propri della Basilicata: dopo 25 anni il Centrosinistra perde la giuda di questa regione, le elezioni sono state anticipate perché il precedente Presidente (del PD) è indagato, è crollato un sistema di potere che per decenni ha fatto il bello e il cattivo tempo, incarnato dalla famiglia Pittella.
Rispetto alle scorse politiche il numero dei votanti è lievemente calato (307.188 contro 329.087), come sono calate anche le schede bianche (3.100 contro 5.669), quelle nulle (8.524 contro 9.699) ed il numero dei voti validi (295.564 contro 313.719).
Il candidato del Centrodestra, il generale della Guardia di Finanza Vito Bardi, vicinissimo a Silvio Berlusconi, ha preso 124.716 voti, a fronte dei 79.665 presi alle ultime politiche dal Centrodestra, aumentando di ben 45.051 voti; all’interno di questo schieramento la Lega prende 55.393 voti contro i 19.704 delle politiche 2018 (35.689 voti in più, più che raddoppiata in un anno), Forza Italia prende 26.457 voti contro i 38.906 delle politiche precedenti, perdendo 12.449 voti, a favore della Lega, Fratelli d’Italia è in crescita, come anche nelle altre regionali, e consegue 17.112 voti contro gli 11.587 delle scorse politiche, 5.525 voti in più. Le altre due liste che appoggiavano il neo presidente erano “Idea per un’altra Basilicata” e “Avanti Basilicata”, che hanno preso rispettivamente 12.094 e 11.492 voti.
Il candidato di Centrosinistra, Carlo Trerotola (di cui nel corso della campagna elettorale è spuntata una vecchia tessera del MSI) ha ottenuto 97.866 voti, contro gli 81.766 del Centrosinistra più LeU alle ultime politiche (infatti in queste elezioni LeU si è alleata con il Centrosinistra) aumentando di 16.100 voti; il PD “scompare”, prendendo 22.243 voti (-28.212 voti rispetto alle politiche 2018), e viene superato nello schieramento dalla lista “Avanti Basilicata” che ne prende 24.957. Le altre 5 liste oscillano tra i 13.00 ed i 5.500 voti circa.
Il Movimento5Stelle è stato nettamente sconfitto e ridimensionato, e consegue 60.070 voti contro i 139.158 voti delle politiche 2018, ben 79.088 voti in meno! Il declino di questo partito appare ormai un dato di fatto difficilmente ribaltabile.
Infine il professor Valerio Tramutoli consegue 12.912 voti, un risultato comunque apprezzabile.
Per le prossime elezioni europee i risultati saranno similari a quelli conseguiti nelle regionali di Abruzzo, Sardegna e Basilicata, ovvero Lega in forte aumento, Fratelli d’Italia che aumenta lievemente e potrebbe superare la soglia di sbarramento del 4%, Forza Italia in calo e fagocitata dalla Lega potrebbe cadere sotto il 10%; il Movimento5Stelle in caduta libera potrebbe scendere sotto il 20% e più che dimezzarsi rispetto alle politiche precedenti; il PD senza l’ausilio delle liste collaterali riuscirà a prendere più voti rispetto alle politiche come è stato nelle regionali?, tutto dipende se ci sarà un “effetto Zingaretti”; LeU non dovrebbe superare lo sbarramento del 4%.
Scomponendo poi il risultato delle europee nei singoli collegi uninominali delle politiche si capirà facilmente se Salvini andrà o no alle lezioni anticipate ed alleandosi con chi.

lunedì 25 marzo 2019

Disegno di legge delega sul lavoro…

Il governo M5S-Lega il 28 febbraio ha pubblicato un comunicato stampa in cui in sordina annuncia di aver approvato un “disegno di legge delega” (su cui quindi sarà direttamente il Governo e non il Parlamento ad esercitare la funzione “legislativa”) per riformare il mercato del lavoro.
Il governo gialloverde prepara la più grande deregolamentazione del diritto del lavoro dell’epoca repubblicana. E, soprattutto, lo fa in silenzio.
Nel turbinio di notizie e polemiche che maggioranza e governo generano ogni giorno, è passata del tutto inosservata una decisione del Consiglio dei ministri del 28 febbraio scorso. Il governo, si legge nel comunicato stampa, ha approvato un disegno di legge delega che autorizzerebbe a riformare il mercato del lavoro con il fine di “creare un sistema organico di disposizioni in materia e di rendere più chiari i principi regolatori delle disposizioni già vigenti” e introdurre “un complesso armonico di previsioni di semplice applicazione, a tutela dei diritti dei lavoratori e dei datori di lavoro”.
Chi si chiedesse come pensa, il governo, di mettere in pratica questa impresa titanica troverebbe risposta nello stesso comunicato stampa: “si eliminano i livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti per l’adeguamento alla normativa europea”. Una frase messa alla fine di una lista di provvedimenti sul mercato del lavoro scritti in “burocratese”, per nascondere la portata enorme di una misura che ridurrebbe le protezioni legali dei lavoratori italiani a quelli dei Paesi in via di sviluppo.
Eliminare ogni disposizione che superi il minimo imposto dal diritto Ue significherebbe infatti regredire al diritto del lavoro degli anni Cinquanta, se non prima. Il diritto del lavoro Ue si limita a fissare minimi di trattamento che poi gli Stati più avanzati spesso modificano, aumentandoli. Ad esempio, la direttiva Ue sulla protezione delle lavoratrici madri prevede un congedo di maternità minimo di 3 mesi e un congedo obbligatorio di 2 settimane. La legislazione italiana prevede che il congedo obbligatorio sia di 5 mesi. Se il governo decidesse di “pareggiare” il diritto italiano con quello Ue, le lavoratrici italiane si vedrebbero ridotte le tutele in caso di maternità in maniera drastica.
Il diritto Ue, inoltre, non riguarda tutto il diritto del lavoro ma solo una sua parte. Questo significa che, nelle materie non regolate dall’Unione europea, il governo avrebbe mano libera nell’azzerare i livelli di tutela. Tanto per fare degli esempi, il governo potrebbe ridurre al minimo la tutela contro i licenziamenti individuali, le disposizioni sul demansionamento o la disciplina del Tfr, sulle quali la Ue non interviene se non in minima parte. E non sarebbe solo il diritto individuale del lavoro ad essere colpito, ma anche il diritto sindacale, posto che l’Ue molto raramente si occupa dei diritti collettivi dei lavoratori.
Una legislazione del lavoro che si limiti ai minimi Ue non esiste da nessuna parte in Europa, se non, forse, nei Paesi del Centro-Est europeo. Questa “deriva ungherese” del diritto del lavoro avrebbe effetti disastrosi non solo per i lavoratori ma anche per la società in generale. Metterebbe le nostre imprese in condizione di competere con l’estero non in funzione della maggiore produttività e dell’innovazione, ma semplicemente tramite l’abbattimento artificiale delle condizioni di lavoro e dei salari, che verrebbero colpiti dall’abbattimento delle tutele sindacali sui luoghi di lavoro e dal conseguente “azzoppamento” della contrattazione collettiva.
La “deriva ungherese”, ovviamente, sarebbe anche incostituzionale. I giudici ordinari e la Corte costituzionale hanno da lungo tempo interpretato la Carta come fonte e garanzia di tutele sui rapporti individuali e collettivi di lavoro che vanno ben al di là del diritto Ue, basti pensare alla giurisprudenza sulla “giusta retribuzione” ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione. La Carta, inoltre, tutela il diritto di sciopero in misura molto maggiore di quanto non faccia il diritto Ue.
Esistono poi obblighi internazionali, che l’Italia ha assunto liberamente, e che vincolano costituzionalmente il nostro legislatore ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione. Si tratta di obblighi che vanno ben al di là delle tutele minime Ue.
Basti pensare alle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro ratificate dall’Italia, che impongono, ad esempio, di tutelare la libertà sindacale e il diritto alla contrattazione collettiva, di vietare il lavoro minorile, di prevedere congedi obbligatori di maternità più lunghi di quelli del diritto Ue e di proteggere il lavoro domestico.
Sembra quasi che il governo non sia consapevole che i livelli di protezione che il legislatore italiano deve obbligatoriamente rispettare vadano ben oltre i minimi del diritto europeo. E, a questo proposito, è bene ricordare che il diritto “europeo” del lavoro non si ferma alla Ue. Le tutele giuslavoristiche sono garantite anche da strumenti come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta sociale europea che appartengono al sistema del Consiglio d’Europa, che con la Ue non c’entra. Proprio di recente, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali parte delle disposizioni sul licenziamento introdotte dal Jobs Act anche riferendosi alla Carta sociale europea.
Vista la scarsa consapevolezza che il governo ha dimostrato ignorando i vincoli costituzionali e internazionali minimi a tutela del lavoro, la probabilità che riferendosi alla “normativa europea” abbia considerato gli obblighi derivanti da queste fonti europee estranee al diritto Ue è minima.
Insomma, nel silenzio assoluto dei peraltro loquacissimi esponenti di governo e maggioranza, quella che viene preparata è una vera “stangata” alle persone che lavorano. Non è facile prevedere se e quando verrà data pubblicità a questa iniziativa del governo: se, ad esempio, la Lega vorrà utilizzare la cosa per riaccreditarsi agli occhi del mondo produttivo o se i 5Stelle premano perché il progetto rimanga nascosto almeno fino alle elezioni europee.
In questo caso, è fondamentale che le parti sociali facciano sentire la propria voce. Non solo, ovviamente, i sindacati ma anche le associazioni imprenditoriali: si vuole scommettere sul futuro investendo e migliorando i processi e i prodotti o abbattendo costi e tutele del lavoro fino al livello delle economie più povere? E si accetta il tutto senza avere un minimo ruolo di interlocuzione con il governo, aspettando un intervento dall’alto?
È anche importantissimo capire quale sarà la reazione delle forze di opposizione e che posizione assumeranno su quello che potrebbe essere il più vasto programma di deregolamentazione del mercato del lavoro in tutto il mondo occidentale dai tempi di Margaret Thatcher. Il modo in cui il Partito democratico e gli altri partiti di centrosinistra si porranno sulla questione dirà moltissimo sull’idea di società e di rapporti produttivi che l’opposizione propone per il futuro del Paese.
È un tema che va affrontato urgentemente, anche in vista della campagna elettorale per le elezioni europee. Dobbiamo capire se l’idea che abbiamo di Italia sia quella di un Paese avanzato che competa internazionalmente anche grazie al rispetto dei diritti economici e sociali dei cittadini o se si voglia, invece, assecondare la “deriva ungherese” del diritto del lavoro.

venerdì 22 marzo 2019

Germania-Italia: in conflitto da trenta anni

Ancora un testo molto informativo che mettiamo a disposizione dei nostri lettori. Soprattutto di quei compagni – sempre meno, per fortuna – che ancora pensano all’”Europa” come una sintesi di Erasmus e libertà di viaggiare, senza mai riuscire a vedere l’osceno meccanismo economico-giuridico-semistatuale che toglie ricchezza ad alcune figure sociali (e anche ad interi paesi) per consegnarle nelle mani dei mercati finanziari e delle imprese multinazionali, oltre che di alcuni Stati nazionali “forti”.
Si tratta di una precisa ricostruzione storica ed economica degli ultimi 30 anni, a far data dalla caduta del Muro e dalla riunificazione della Germania.
L’autore dovrebbe essere ormai noto anche dalle nostre parti, visto che ospitiamo spesso i suoi editoriali impietosi. Scrive per Milano Finanza e Teleborsa, chiaramente due testate specialistiche e piuttosto fuori dal ventaglio delle letture abituali “a sinistra”.
Eppure, o forse proprio per questo, l’ideologia non appanna affatto l’analisi. Interessi, profitti, numeri, distribuzione dei vantaggi, non sono materia su cui si possano spargere lacrime e cortine fumogene. Quelli sono, e i fatti – dicono gli inglesi – hanno la testa dura…
Il quadro che emerge è molto meno idilliaco di quanto raccontato nelle narrazioni europeiste, e nel vien fuori un film di guerra – in senso stretto – in cui qualcuno vince (Berlino, naturalmente) e qualcuno perde tantissimo (l’Italia, per chi si sa fare due conti nelle tasche).
La cosa più sorprendente, per chi non ha seguito con ostinazione la costruzione della gabia Ue, è che questa rapina mostruosa è avvenuto con la gioiosa compartecipazione della nostra classe politica e anche dell’imprenditoria italica, ansiosa di togliersi dagli impicci della produzione e potersi infine dedicare alla coltivazione della rendita finanziaria.
Per i dettagli, buona lettura…
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Germania-Italia: in conflitto da trenta anni
Le guerre moderne non si combattono più con i cannoni.
Questi ultimi, noi Occidentali, ormai li vendiamo ai Paesi poveri, affinché i loro popoli si scannino senza pietà.
In Occidente, si combattono sul piano dell’economia, della finanza, e soprattutto con le regole imposte attraverso gli accordi internazionali.
1989 – LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO FU LA PRIMA RIVINCITA TEDESCA.
Esattamente trenta anni fa, nel 1989. La Germania era stata divisa in due: la Repubblica federale tedesca con capitale a Bonn, sotto il controllo di Usa, Gran Bretagna e Francia; la Repubblica democratica tedesca con capitale a Pankow, sotto il tallone dell’URSS. Per oltre quarant’anni, l’occupazione militare dei vincitori era stata la punizione, con la perdita della sovranità nella condotta interna e negli affari internazionali.
Gli Usa, con Ronald Reagan, decisero di mettere alle strette l’URSS: mai come allora la pressione americana per abbatterla fu così forte. Riunificare la Germania, sotto il controllo occidentale, era la strategia per far cadere la Cortina di ferro, sfruttando il diffuso malcontento che spirava nei Paesi dell’Est europeo, aderenti al Patto di Varsavia. Dopo la rivolta di Budapest del ’56, e quella di Praga del ’68, c’era Varsavia che guidava la rivolta di Solidarnosch, guidata da Lech Walesa con l’appoggio politico e finanziario degli Usa e del Vaticano. Anche il Papa Giovanni Paolo II, al secolo Karol Józef Wojtyla nato il 18 maggio 1920 a Wadowice in Polonia, voleva la caduta della dittatura comunista, per riportare la libertà religiosa.
Nel 1984, il Papa polacco aveva deciso di consacrare la Russia al Cuore Immacolato di Maria, per dar seguito al mistero di Fatima, secondo cui Mosca sarebbe finalmente tornata a Cristo con la caduta del Comunismo.
Per l’Occidente, il Comunismo era il nemico da abbattere, in qualsiasi modo.
La caduta del Muro di Berlino, e l’annessione della Germania Orientale da parte occidentale, era solo il primo passo per disgregare il blocco sovietico, e così fu.
L’illusione era di conquistare la Russia, prendendo in mano tutte le sue immense risorse minerarie: doveva esser fatta a pezzi, resa ingovernabile, e comprata per un tozzo di pane. Questo era il disegno americano; annichilirla dal punto di vista geopolitico, militare, economico.
La Germania riunificata era solo la mossa di partenza. E Bonn, per prepararsi alla Riunificazione, intanto accumulava risorse finanziarie, senza fare la locomotiva d’Europa, come pure avrebbero voluto gli americani. Caduto il Muro, servivano risorse immense per reindustrializzare l’est: partì la più grande operazione di privatizzazione delle industrie di Stato della Germania democratica, che furono acquisite per un tozzo di pane. Per acquisire risorse sui mercati finanziari internazionali, la Bundesbank alzò i tassi di interesse ad un livello inusitato, mentre si decise di cambiare alla pari i marchi orientali con quelli occidentali.

1992 – FU UNA CATASTROFE, BEN ORGANIZZATA, TRA BERLINO E WASHINGTON: mentre i capitali italiani volavano in Germania, provocando la caduta del cambio della lira, la speculazione internazionale guidata da Soros si aggiunse, per mascherare tutto e stendere un velo pietoso.
Gli Usa dovevano appoggiare il piano tedesco, per dominare una Europa che puntava all’ampliamento a Nord-Est: così facendo, intanto sgranavano lo
Sme, che già allora voleva fare blocco contro il dollaro. Presero così due piccioni con una fava, indebolendo la strategia che avrebbe portato alla moneta unica e rafforzando il disegno geopolitico che puntava sulla Germania per sbriciolare il Patto di Varsavia e l’URSS.
Berlino aveva bisogno di risorse, e soprattutto di indebolire l’Italia, che era la concorrente industriale più agguerrita. L’Attacco alla lira, che culminò con la svalutazione ed una profonda recessione, era quello che serviva. Le manovre correttive del Governo Amato piegarono l’economia italiana, ma soprattutto gli alti tassi di interesse, necessari per bloccare la fuga di capitali in Germania, ebbero un effetto drammatico sul debito pubblico. Questo crebbe ancora, dopo la follia del Divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, deciso all’inizio degli Anni Ottanta. Era fatta, con l’Italia in ginocchio, ma era solo il primo tassello.
La
seconda rivincita tedesca avvenne con il Trattato di Maastricht, che entrò in vigore il 1° gennaio 1993: oltre alle famosa regola sul limite del 3% al deficit pubblico, c’erano due pillole avvelenate. La prima era il divieto di qualsiasi sostegno delle Banche centrali agli Stati, e la seconda era il divieto di aiuti di Stato alle imprese. La Germania estese a tutta l’Europa la costituzione monetaria che le era stata imposta dalle Forze Alleate dopo la Guerra.
Per l’Italia, che aveva le grandi imprese concentrate nelle Partecipazioni Statali, fu un massacro: i Fondi di dotazione con cui venivano rimpolpati ogni anni i loro capitali, servivano per fronteggiare i maggiori oneri per interessi e per procedere allo sviluppo degli investimenti. Inutile ricordare che mentre in Italia
il Fascismo lasciò fallire le imprese private colpite dall’onda di recessione che seguì la crisi finanziaria americana del ’29, portando poi alla nazionalizzazione di quello che ne rimaneva, il Nazismo supportò in ogni modo il capitalismo industriale e finanziario privato tedesco. Nessuna impresa o banca tedesca fu lasciata fallire dal Fuhrer, che in ogni modo sostenne l’occupazione dopo le follie recessive decise dal Cancelliere Bruning, che portarono la disoccupazione tedesca ad oltre 4 milioni di unità.
La conseguenza del Trattato di Maastricht, per l’Italia, fu lo smantellamento dell’industria e delle banche pubbliche. Il
Patto Andreatta-Van Miert, l’allora Commissario europeo alla concorrenza, fu una lapide.

Tutto venne svenduto in malo modo, nel tripudio degli eredi della classe dirigente italiana che pensava di riprendersi tutto a mezzo secolo di distanza, per un tozzo di pane. Non avevano soldi né per comprare né per investire: fu un massacro.
Guarda caso, nel Trattato di Maastricht la Germania fu esonerata dal divieto di aiuti di Stato per la ricostruzione dei Lander orientali: per noi, il danno e la beffa. I tedeschi utilizzarono la ex-Germania orientale come miniera di occupazione a basso costo.

2000 – L’EURO E’ STATA LA TERZA RIVINCITA TEDESCA.
Il Presidente francese Francois Mitterand era terrorizzato dalla prospettiva di una Germania riunificata, che avrebbe continuato a fare il comodo suo con la politica monetaria, come era successo nel periodo a partire dal 1989. Pensò che togliere il marco alla Germania sarebbe stata la soluzione migliore. Peccato che la BCE avrebbe avuto sede a Francoforte e che il suo Statuto sarebbe stato identico a quello della Bundesbank: con un unico obiettivo, la stabilità della moneta.
Con l’euro, nessuno avrebbe più potuto svalutare la propria moneta rispetto al marco, riconquistando competitività internazionale dopo aver fatto lievitare i prezzi interni con l’inflazione, con una dinamica superiore a quella dei tassi di interesse nominali, e così avvantaggiando gli imprenditori ed i debitori rispetto ai rentier creditori. Si mise così la parola fine su un modello di crescita economica che aveva dato prosperità a tutta l’Europa.
La Germania, dopo la Riunificazione, è cresciuta solo drenando risorse finanziarie dagli altri Paesi, ed indebitando il resto del Continente. E’ una crescita marcia, che ora mina la solidità delle sue banche, che investono in asset esteri ad alto rischio.

2012, LA FOLLIA DEL FISCAL COMPACT.
Dopo la crisi americana del 2008, la Germania ha rischiato di perdere tutti i crediti accumulati verso la Grecia e la Spagna: ha imposto misure draconiane con il Fiscal Compact che stanno portando l’Unione europea al disfacimento. E’ roba di questi mesi, che ormai tutti conoscono perfettamente.
Il
modello di crescita tedesco è squilibrato per definizione: vive sul debito altrui, che deve ampliarsi ogni anno di più, accumulando attivi commerciali. Una follia.
Prospera sul terrore che salti in aria il debito italiano:
lo spread è la clava con cui si arricchisce, pagando il suo debito pubblico un’inezia. Sarebbe un porto sicuro, rispetto al pericolo di fallimento degli altri.

giovedì 21 marzo 2019

Stadio per la Roma . Arrestato De Vito (M5S), ma tremano in molti

Arresti clamorosi quelli di oggi nella Capitale. E’ stato infatti arrestato Marcello De Vito, presidente del Consiglio comunale di Roma ed esponente di punta del M5S a Roma. De Vito risulta indagato per corruzione ed è destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Secondo quanto emerso dalle indagini avrebbe favorito il progetto per lo stadio della Roma del costruttore Luca Parnasi. L’indagine ha acceso i riflettori su una serie di operazioni di corruzione realizzate da noti “prenditori” come Parnasi, Toti e Statuto attraverso l’intermediazione di un avvocato (Mezzacapo) ed un uomo d’affari Pititto), che avrebbero agito da raccordo con il presidente del Consiglio comunale di Roma al fine di ottenere provvedimenti favorevoli alla realizzazione di importanti progetti immobiliari.


L’arresto è avvenuto nel quadro dell’indagine “Congiunzione astrale”, coordinata dalla Procura della Repubblica di Roma e diretta verso “persone dedite al compimento di condotte corruttive e di traffico di influenze illecite”. Risulta che i Carabinieri hanno eseguito altri tre arresti (uno in carcere e per i restanti due ai domiciliari). Coinvolti altri tre noti palazzinari della Capitale: i fratelli Pierluigi e Claudio Toti e uno dei famosi “furbetti del quartierino”, il costruttore Statuto.
Ma l’indagine non riguarda solo il nuovo Stadio della A.S. Roma a Tor di Valle (in realtà una vera e propria colata di cemento di cui lo Stadio è solo minima parte, ndr). Riguarda infatti anche la costruzione di un grande hotel presso la ex stazione ferroviaria di Roma Trastevere ma soprattutto i progetti speculativi sull’enorme area degli ex Mercati Generali nella zona Ostiense.

L’agenzia Ansa dà conto delle reazioni nel mondo politico della Capitale. Sotto shock i M5S: “Sono scioccata. Aspetto di capire meglio. Nelle chat la reazione è univoca. Tutti dicono “impossibile che sia successo“, afferma la consigliera Eleonora Guadagno. “Siamo annichiliti”, le fa eco, interpellata in merito, la collega Teresa Zotta. Che, a chi le chiede se si riuscirà ad andare avanti, risponde: “Vediamo, questa è dura. Ci incontreremo sicuramente, non posso credere ad una cosa del genere”.
Appare significativamente prudente la dichiarazione di Marco Miccoli del Pd sulla vicenda: “Fiducia nella magistratura. Se daremo un giudizio, lo daremo alla fine dell’iter processuale. Lo dico ai 5Stelle: noi siamo garantisti sempre. Non a secondo delle convenienze e delle persone che vengono indagate”. Una dichiarazione impeccabile, anche per il futuro. Perchè se l’indagine della magistratura è partita sulla base delle rivelazioni del costruttore Parnasi, anche dentro il Pd c’è chi non dorme sonni tranquilli. Parnasi è stato un costruttore generoso, molto generoso, anche verso le forze del centro-sinistra.
Sulla speculazione intorno allo Stadio per la Roma, abbiamo dedicato nel recente passato molta attenzione sul nostro giornale. Tra le molte denunce vogliamo qui ricordare il J’accuse di un amico e urbanista scomparso come Antonello Sotgia, e di Rossella Marchini.
P.S. Non si è fatta attendere molto la disperata reazione difensiva di Luigi Di Maio: – “Marcello De Vito è fuori dal MoVimento 5 Stelle.
Quanto emerge in queste ore oltre ad essere grave è vergognoso, moralmente basso e rappresenta un insulto a ognuno di noi, a ogni portavoce del MoVimento nelle istituzioni, ad ogni attivista che si fa il mazzo ogni giorno per questo progetto.
Non è una questione di garantismo o giustizialismo, è una questione di responsabilità politica e morale: è evidente che anche solo essere arrivati a questo, essersi presumibilmente avvicinati a certe dinamiche, per un eletto del MoVimento, è inaccettabile.
De Vito non lo caccio io, lo caccia la nostra anima, lo cacciano i nostri principi morali, i nostri anticorpi.”

Salvini, invece, che deve restituire solo 49 milioni e se la prende, per depistare, con 49 naufraghi e qualche soccorritore italiano, va bene così… E’ “un caro amico”

mercoledì 20 marzo 2019

Stadio per la Roma . Arrestato De Vito (M5S), ma tremano in molti

Arresti clamorosi quelli di oggi nella Capitale. E’ stato infatti arrestato Marcello De Vito, presidente del Consiglio comunale di Roma ed esponente di punta del M5S a Roma. De Vito risulta indagato per corruzione ed è destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Secondo quanto emerso dalle indagini avrebbe favorito il progetto per lo stadio della Roma del costruttore Luca Parnasi. L’indagine ha acceso i riflettori su una serie di operazioni di corruzione realizzate da noti “prenditori” come Parnasi, Toti e Statuto attraverso l’intermediazione di un avvocato (Mezzacapo) ed un uomo d’affari Pititto), che avrebbero agito da raccordo con il presidente del Consiglio comunale di Roma al fine di ottenere provvedimenti favorevoli alla realizzazione di importanti progetti immobiliari.

L’arresto è avvenuto nel quadro dell’indagine “Congiunzione astrale”, coordinata dalla Procura della Repubblica di Roma e diretta verso “persone dedite al compimento di condotte corruttive e di traffico di influenze illecite”. Risulta che i Carabinieri hanno eseguito altri tre arresti (uno in carcere e per i restanti due ai domiciliari). Coinvolti altri tre noti palazzinari della Capitale: i fratelli Pierluigi e Claudio Toti e uno dei famosi “furbetti del quartierino”, il costruttore Statuto.
Ma l’indagine non riguarda solo il nuovo Stadio della A.S. Roma a Tor di Valle (in realtà una vera e propria colata di cemento di cui lo Stadio è solo minima parte, ndr). Riguarda infatti anche la costruzione di un grande hotel presso la ex stazione ferroviaria di Roma Trastevere ma soprattutto i progetti speculativi sull’enorme area degli ex Mercati Generali nella zona Ostiense.

L’agenzia Ansa dà conto delle reazioni nel mondo politico della Capitale. Sotto shock i M5S: “Sono scioccata. Aspetto di capire meglio. Nelle chat la reazione è univoca. Tutti dicono “impossibile che sia successo“, afferma la consigliera Eleonora Guadagno. “Siamo annichiliti”, le fa eco, interpellata in merito, la collega Teresa Zotta. Che, a chi le chiede se si riuscirà ad andare avanti, risponde: “Vediamo, questa è dura. Ci incontreremo sicuramente, non posso credere ad una cosa del genere”.
Appare significativamente prudente la dichiarazione di Marco Miccoli del Pd sulla vicenda: “Fiducia nella magistratura. Se daremo un giudizio, lo daremo alla fine dell’iter processuale. Lo dico ai 5Stelle: noi siamo garantisti sempre. Non a secondo delle convenienze e delle persone che vengono indagate”. Una dichiarazione impeccabile, anche per il futuro. Perchè se l’indagine della magistratura è partita sulla base delle rivelazioni del costruttore Parnasi, anche dentro il Pd c’è chi non dorme sonni tranquilli. Parnasi è stato un costruttore generoso, molto generoso, anche verso le forze del centro-sinistra.
Sulla speculazione intorno allo Stadio per la Roma, abbiamo dedicato nel recente passato molta attenzione sul nostro giornale. Tra le molte denunce vogliamo qui ricordare il J’accuse di un amico e urbanista scomparso come Antonello Sotgia, e di Rossella Marchini.
P.S. Non si è fatta attendere molto la disperata reazione difensiva di Luigi Di Maio: – “Marcello De Vito è fuori dal MoVimento 5 Stelle.
Quanto emerge in queste ore oltre ad essere grave è vergognoso, moralmente basso e rappresenta un insulto a ognuno di noi, a ogni portavoce del MoVimento nelle istituzioni, ad ogni attivista che si fa il mazzo ogni giorno per questo progetto.
Non è una questione di garantismo o giustizialismo, è una questione di responsabilità politica e morale: è evidente che anche solo essere arrivati a questo, essersi presumibilmente avvicinati a certe dinamiche, per un eletto del MoVimento, è inaccettabile.
De Vito non lo caccio io, lo caccia la nostra anima, lo cacciano i nostri principi morali, i nostri anticorpi.”

Salvini, invece, che deve restituire solo 49 milioni e se la prende, per depistare, con 49 naufraghi e qualche soccorritore italiano, va bene così… E’ “un caro amico”.

martedì 19 marzo 2019

Il sigillo del Vaticano sul Memorandum con la Cina

Lo sospettavamo, ora è di dominio pubblico. Il quotidiano La Verità, di Belpietro, ferocemente antibergogliano, scrive oggi, a firma di Claudio Antonelli, che i veri registi dell’adesione alla Via della Seta sono il Vaticano e Mattarella.
Dominus della strategia sarebbe il Segretario di Stato del Vaticano, cardinale Parolin, che da dieci anni tesse le fila diplomatiche con la Cina; prima con Benedetto XVI, con la famosa “Lettera ai cinesi” del 2007, poi con Francesco, protagonista dell’accordo sulla nomina dei vescovi, “punto di partenza, non di arrivo“, uno storico accordo con la Cina.
Secondo Antonelli da oltre un anno la Santa Sede preme per l’adesione “perché diventerebbe il perimetro dentro il quale il potere temporale della Chiesa riuscirebbe a muoversi con più facilità“.
Parolin nel 2017 aveva incontrato a Washington Di Maio, sondandolo circa il suo punto di vista su Russia e Cina. Dal lato temporale il giornalista sottolinea il ruolo propulsore di tale Sergio Maffettoni, braccio destro di Michele Geraci, cattolico, già console a Chonquing e antenna di Oltretevere.
L’altro alfiere è Mattarella, che già nel 2017 in un suo viaggio in Cina portava le istanze del Vaticano.
Ieri sera circolava la notizia di un clamoroso incontro tra Francesco e Xi a Roma, in occasione della sua visita. Notizia smentita, ma è sicuro che le due diplomazie stanno lavorando fervidamente.
Francesco è gesuita, come Matteo Ricci, assurto al Papato con il compito specifico di evangelizzare l’Asia, il continente che manca. E tutto passa per la Cina.
Non è azzardato dire che  il riavvicinamento sia anche opera della diplomazia russa, con il duo Putin Lavrov. Francesco, legato a Obama e contro Trump ha avuto dissidi negli scorsi anni con il Pope russo in merito alla Siria e alla sua indifferenza verso i copti, ma con una mossa si è riavvicinato, bloccando gli anglo-francesi americani che volevano bombardare la Siria.
Altri temi caldi vicini alla diplomazia cinese e russa sono il freno di Francesco nei confronti di Trump su Venezuela e a Cuba.
C’è poi la questione africana, dove i tre protagonisti, a differenza di Trump, giocano un ruolo di attori globali.
L’Italia è così finita nella morsa, si vedrà in futuro se sarà un vantaggio. Di certo avrà d’ora in poi lo scudo del Vaticano.

lunedì 18 marzo 2019

Gli Usa minacciano Mattarella, via La Stampa

Negli anni ‘70 qualsiasi formazione di sinistra, soprattutto rivoluzionaria, definiva l’Italia “anello debole della catena imperialista”. Naturalmente, venivano tutte accusate di essere “ideologiche”, non realistiche, astratte, ecc.
Contrordine, compagni! Avevamo ragione… Anzi, avevamo così ragione da convincere, alla fine, persino il direttore de La Stampa, foglio di casa Agnelli – ora transitato nell’orbita di Repubblica-L’Espresso – che gli operai torinesi hanno sempre chiamato, senza affetto, la busiarda.
Maurizio Molinari non è un direttore qualsiasi. Ex inviato negli Stati Uniti e a Gerusalemme si è sempre distinto per assoluta osservanza delle indicazioni provenienti dai governi che lo ospitavano. Tanto da far sospettare ai soliti “complottisti” che avesse ottimi rapporti sia con la Cia che con il Mossad…
E oggi, quasi alla vigilia della firma del Memorandum of Understanding con la Cina, alla presenza di Xi Jinping, scrive: “bisogna tenere presente che l’Italia è diventata l’anello debole di un Occidente in difficulta davanti a due rivali strategici divenuti temibili: Cina e Russia. Dal crollo del Muro di Berlino nel 1989 Pechino e Mosca non sono mai stati cosi in crescita. Nel caso della Cina si tratta di una crescita soprattutto economica che consente di gareggiare testa a testa con Washington per la leadership sul pil globale disponendo al tempo stesso di un formidabile progetto di infrastrutture per estendere la propria influenza all’Euroasia e di una tecnologia – il 5G – capace di cambiare il modo in cui comunichiamo. Se a tutto ciò aggiungiamo un apparato di intelligence Che supera il milione di effettivi – il più numeroso al mondo – non è difficile arrivare alla conclusione Che Pechino sia oggi porlatrice di una sfida mollo efficace all’Occidente perché punta a spostare il baricentro dello sviluppo del Pianeta dalla dorsale New York-Londra alla macroregione Pechino-Shanghai.”
Tono allarmato, sguardo cupo, accuse esplicite (oltre al dossier cinese si citano quelli sugli F35, l’”ambiguità sul Venezuela”, una certa freddezza con la “narrativa” UE), minacce velate. Va avanti come un treno dell’intelligence ricordando il Donbass, le presunte cyber-offensive dei russi, il ruolo in Medio Oriente e Africa di entrambi. Il tutto in un contesto di debolezza intema di Nato e Ue dovuta a carenza di leadership, rivalità nazionali e protesta sociale”.
Un analista serio si fermerebbe, a questo punto, per chiedersi la ragione di questa triade di problemi interni irrisolti, visto che non ce li ha regalati il “nemico” ma si sono creati in casa. Se le leadership (da Merkel a Macron, per non parlare degli altri fantasmi che appaiono e scompaiono nel giro di qualche mese in Italia,e Spagna) sono di bassa qualità significa che i meccanismi storici per selezionarla dalla culla al ministero– i partiti di massa dotati di ideologia e visione – si sono inceppati o sono rimasti annientati. Se le rivalità nazionali rinascono prepotenti dentro un sistema di trattati e fedeltà pensato per renderle impossibili significa che quel sistema è strutturalmente sbagliato. Se riesplode la protesta sociale – per ora soprattutto in Francia, l’ultima arrivata alle “riforme strutturali” imposte dall’ordoliberismo europeo – vuol dire che non è possibile comprimere ancora le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione.
Soprattutto: se i cinesi crescono a velocità inimmaginabile per le stanche economie Usa e Ue, significa che il “modello occidentale” che aveva privilegiato la finanza rispetto alla produzione materiale (lavoro mentale compreso) non regge la prova dei fatti.
Ma Molinari non è pagato per fare l’autocritica dell’Occidente. Il compito che si è assunto con l’editoriale di stamattina è quello di infilare nelle orecchie dei governanti gialloverdi – e soprattutto in quelle di Sergio Mattarella, che ha dato pochi giorni fa il suo “ok” alla firma del Memorandum – il tarlo della paura. Per essere proprio espliciti:
Ciò spiega perché Washington, Parigi e Berlino guardano sempre più al Quirinale quando entrano in gioco temi cruciali per la sicurezza dell’Occidente. In attesa di comprendere se il governo di Giuseppe Conte riuscirà ad esprimere posizioni capaci di superare le incertezze di questi mesi. Tutto ciò non significa che l’Italia debba rinunciare alla tutela dei propri interessi nazionali, economici e politici, ma la sfida è armonizzarli con la nostra adesione alle alleanze Ue e Nato. Senza le quali il nostro benessere e la nostra sicurezza sarebbero a rischio.”
Crediamo che mai in tempi recenti, almeno dalla caduta del Muro ad oggi, un presidente della Repubblica era stato minacciato così apertamente da parte degli Stati Uniti (sia pure per la via “informale” di un editoriale di quotidiano).
E il fatto che avvenga dà la misura del livello di tensione che si è prodotto in questo scontro a tre geopolitico (tra Ue, Usa e Cina) intorno al futuro dell’Italia, non appena si è prospettata la possibilità di diventare un terminale privilegiato (per la posizione centrale nel Mediterraneo) della nuova Via della Seta.
Come osserva Pasqale Cicalese, “nel gioco abbiamo tre civiltà millenarie: Cina, Italia, Vaticano. E una nazione che ha 300 anni di vita, di cui gli ultimi 80 anni ha dominato, gli Usa. Che sono in uno spaventoso declino industriale. La Cina ha 1,4 miliardi di persone, il Vaticano ha 1,2 miliardi di cattolici nel mondo, moltissimi in Africa. I cattolici in Cina sono 10 milioni, gli evangelici filo americani 100 milioni. Xi preferisce il Vaticano agli evangelici e a settembre scorso ha fatto un accordo per la nomina dei vescovi con il Vaticano. Entrambi attendono pazienti uno storico accordo, hanno tutto il tempo necessario. L’impronta del Mou è del Vaticano, oggetto di attacchi da parte dei cardinali americani dopo l’accordo di settembre con la Cina, in merito alla questione della pedofilia. Francesco ha resistito e ora gioca la carta italiana. Con l’imprimatur di Mattarella”.
E’ tutto molto più complicato di quanto provano a raccontare i “terminali passivi” di questo o quel protagonista globale. E non fanno neanche un buon lavoro di “istruzione” per questa classe politica di absolute beginners, costringendoli dunque a muoversi senza mai capire bene dove stanno mettendo i piedi (un po’ come Draghi, no?).
Non siamo complottisti, e quindi non crediamo che Molinari abbia obbedito a una telefonata giunta da Washington o dall’ambasciatore in Italia. Di certo, stavolta, non gli è arrivata da Tel Aviv. Basta leggersi come gli israeliani, invece, sognano di moltiplicare il business grazie all’arrivo dei cinesi nel fu Mare Nostrum.

venerdì 15 marzo 2019

Il “partito del Pil” contro il salario minimo

È giusta una legge sul salario minimo? Sì. A condizione che essa serva davvero ad alzare le paghe di fame che oggi stanno dilagando e che non divenga uno strumento per evadere i contratti nazionali.
Quindi la legge deve garantire un salario minimo sufficiente ad impedire che questi effetti negativi si realizzino. Se il salario minimo è troppo basso, si legalizza il super-sfruttamento, che oggi è quello di milioni di donne e uomini che lavorano per pochi euro.
Tra le diverse proposte di legge in parlamento le peggiori sono quelle di LeU e Fratelli d’Italia, che prevedono 7 euro lordi all’ora, che diventerebbero meno di 6 al netto. Se si deve fare una legge con queste paghe meglio non farla, farebbe solo danno.
La retribuzione più elevata è quella della proposta del PD, che garantirebbe 9 euro netti, 11 circa lordi. Dopo viene quella del M5S, per il quale i 9 euro dovrebbero essere lordi, divenendo così poco più di 7 netti. Come ci hanno ricordato INPS ed ISTAT, se il salario minimo si stabilisse ai livelli di queste due proposte, milioni di lavoratrici e lavoratori vedrebbero aumentate le loro retribuzioni.
I sindacati dovrebbero intervenire proprio a questo punto, per strappare la soluzione più alta possibile ed ottenere una paga minima che serva a spingere versi l’alto tutte le retribuzioni. La prima rivendicazione della CGT in Francia, condivisa con i gilet gialli, è proprio l’aumento del salario minimo.
Naturalmente avere un salario minimo decente non è sufficiente, ci vuole la garanzia che esso non si svaluti nel tempo. Occorre cioè un meccanismo automatico che ogni anno rivaluti la retribuzione. I progetti PD e M5S confusamente contengono questa clausola, ma starebbe ora ai sindacati agire per ottenere garanzie reali di rivalutazione periodica del salario minimo.
Poi sarebbero necessarie misure a larga scala contro il lavoro nero e l’evasione dal salario minimo, contro la riduzione delle paghe attraverso la riduzione delle ore ufficialmente lavorate. Come avviene nelle campagne, dove i braccianti lavorano dodici ore al giorno e gliene vengono contabilizzate e retribuite meno della metà. O come avviene nei servizi, dove il contratto ufficiale a part time è la punta dell’iceberg di tanto lavoro fatto e non pagato.
Infine, una volta ottenuta un retribuzione minima decente, il sindacato potrebbe usarla come base e leva per alzare contrattualmente tutte le retribuzioni, dopo decenni di riduzione del potere d’acquisto dei salari.
Insomma sindacati che volessero davvero fare il proprio mestiere, con una legge sul salario minimo avrebbero la possibilità di rilanciare la propria iniziativa per migliorare la condizione di tutto il mondo del lavoro.
Invece CGILCISLUIL si sono schierate contro la legge; e non perché essa sia troppo limitata e parziale, ma perché potrebbe ridurre lo spazio della loro contrattazione.
Come quando la CISL e la UIL, negli anni 80, sostenevano che riducendo gli aumenti automatici della scala mobile, si sarebbero aumentati i salari con la contrattazione… Si è visto come é andata.
La difesa della “contrattazione per la contrattazione” è un principio sindacale corporativo, che trasforma il mezzo in fine, quando il fine del sindacato non dovrebbero essere gli accordi, ma il miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Questo una volta sosteneva la CGIL, che ora invece ha fatto propria la concezione sindacale di CISL E UIL. E se si considera una legge sul salario minimo una minaccia, anziché un aiuto al proprio mestiere sindacale, l’incontro con la Confindustria è inevitabile.
I padroni sono prosaici, semplicemente vogliono le paghe più basse possibili e non vogliono una legge che le faccia salire. Essi sanno che se la paga minima fosse di 9/10 euro all’ora, dovrebbero pagare di più non solo chi sta ai livelli più bassi dell’inquadramento, ma anche chi sta più in alto. Come per il reddito, la Confindustria rivendica le paghe di fame e CGILCISLUIL si sono allineate. Assieme formano il nucleo di quel partito del PIL che in italia rappresenta e rivendica il mercato e gli affari come via per uscire dalla crisi.
CGILCISLUIL e Confindustria vogliono il monopolio della contrattazione per le proprie organizzazioni, e solo per sancire questo monopolio vogliono che ci sia una legge. Essi non vogliono invece una legge che garantisca ai lavoratori la libertà di scegliere da chi farsi rappresentare e con quali accordi, come prescrive l’articolo 39 della Costituzione.
CGILCISLUIL e Confindustria chiedono invece che la legge renda i loro accordi obbligatori per tutti.
Il M5S si è mostrato molto sensibile a questa rivendicazione corporativa e così assieme al salario minimo vuole rendere obbligatorio per tutti l’accordo del 10 gennaio 2014, con il quale CGILCISLUIL e Confindustria hanno assunto ed esteso il modello contrattuale FIAT.
Un salario minimo di legge di 9/10 euro ora sarebbe una buona cosa per il mondo del lavoro frantumato precario sottopagato di oggi. Bisogna impedire però che il partito del PIL stravolga il senso di questa iniziativa e la trasformi in una nuova occasione di flessibilità e sfruttamento, naturalmente nel nome della sacralità della contrattazione.

giovedì 14 marzo 2019

Confindustria e Cgil Cisl Uil ritrovano la strada del patto neocorporativo

Ripartire dal Patto per il Lavoro. Così è stato riavviato il confronto tra Confindustria e sindacati. Ad un anno dal Patto per la Fabbrica, siglato il 9 marzo del 2018, i leader di Cgil, Cisl e Uil e il presidente di Confindustria, sono tornati ad incontrarsi in uno scenario politico ed economico profondamente mutato rispetto al marzo dello scorso anno.
L’Italia continua ad essere in una pesante recessione (definita “tecnica” perché fa meno impressione sulla fiducia di famiglie e imprese, ndr),  e le cosiddette “parti sociali”, a partire dall’appuntamento di oggi puntano a confermare di avere una piattaforma comune che mette al centro le infrastrutture (tra cui la Tav), la sempre evocata crescita e il lavoro. Sul tavolo, dovrebbe esserci anche la questione del salario minimo legale, fatta esplodere dalla questione del reddito di cittadinanza che ha svelato la vergogna dei bassi e bassissimi salari in Italia, e le due proposte di legge -una del M5S e l’altra del Pd- che propongono l’introduzione per legge della retribuzione minima oraria, una misura già esistente in molti paesi europei ma malvista da Cgil Cisl Uil e da Confindustria.  I sindacati concertativi continuano a nascondere il crollo dei salari reali dei lavoratori riaffermando che la strada da seguire sia quella di attribuire valore legale ai contratti nazionali stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. Di questo i sindacati discuteranno anche con il vicepremier Luigi Di Maio che li ha convocati oggi, al ministero dello Sviluppo economico.
Per il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, l’appuntamento di oggi con i sindacati servirà a far ripartire il confronto “da molti punti del Patto per la Fabbrica, ma ne implementeremo anche altri, chiaramente nel confronto con i tre segretari, specialmente in questo momento delicato della vita del Paese”. Oggi sarà anche l’occasione, per Boccia, di confrontarsi con il nuovo leader della Cgil, Maurizio Landini, che ha manifestato sintonia con le preoccupazioni degli industriali sulle difficoltà che il Paese sta attraversando. “Siamo in una fase recessiva – ha detto Landini alla vigilia dell’incontro – ed è sotto gli occhi di tutti. Domani c’è l’occasione perchè le parti verifichino la condizione anche di dire delle cose comuni nei confronti del governo, perchè la situazione economica e sociale è molto pesante e molto pericolosa”.
Per il nuovo numero uno della Cgil, “il Patto per la Fabbrica va applicato, il problema che abbiamo è che è stato fatto un ottimo accordo un anno fa, ma deve essere applicato in tutte le sue parti. Questo vuol dire affrontare il problema della rappresentanza, della certificazione della rappresentanza, degli investimenti, del fisco, della formazione”. Curioso questo affiancare e ribadire che insieme a fisco e formazione ci sia il problema della rappresentanza. Anche nella recente intervista a L’Espresso, Landini ha lasciato capire molto chiaramente che nelle trattative non vuole avere tra i piedi sindacati conflittuali (non ha nominato l’Usb o altri sindacati di base, ma il concetto è chiaro)
Sulla stessa linea il leader della Uil, Carmelo Barbagallo: “la povertà aumenta, la produzione diminuisce, i lavoratori sono sempre più precari bisogna, con pacatezza, cominciare a ridiscutere di che tipo di società vogliamo in questo Paese, di come vogliamo far riprendere l’economia, di come ridiamo potere d’acquisto a lavoratori e pensionati attraverso il taglio delle tasse. E’ ora di togliere il cuneo fiscale sul lavoro, noi abbiamo il costo del lavoro più alto della media europea e i salari reali più bassi della media europea, abbiamo le pensioni tassate al doppio della media europea”.
Anche per la leader della Cisl, Annamaria Furlan, “l’incontro di domani (oggi per chi legge, ndr) è molto importante: noi dobbiamo passare alla gestione del Patto per la Fabbrica e dobbiamo anche andare oltre. C’è un bisogno estremo che le parti sociali che rappresentano il lavoro, in modo particolare attraverso la contrattazione, creino il futuro per questo Paese, a partire dalla qualità del lavoro, cosa di cui c’è assoluta necessità”.

mercoledì 13 marzo 2019

Brexit, punto e a capo

Londra. Ingoia ancora amaro, Theresa May. La Premier britannica ha subito una seconda umiliante sconfitta nel voto parlamentare di Martedì 12 Marzo: respinto al mittente il suo accordo negoziato con l’Unione Europea. Con 391 voti contrari e soltanto 242 a favore, la Camera dei Comuni ha nuovamente rifiutato la ratifica del trattato.
A nulla è servito il viaggio notturno a Strasburgo di Lunedì, durante il quale la May e Jean-Claude Juncker avevano firmato tre aggiunte all’accordo raggiunto a Novembre, volte a rassicurare i sostenitori di una Hard Brexit sulla tormentata questione del confine irlandese.
A soli 17 giorni dalla scadenza del 29 Marzo, la May non è riuscita a convincere l’ala dura del Partito Conservatore (capeggiata da Boris Johnson e raccolta attorno alla corrente dell’European Research Group). Anche il Partito Democratico Unionista dell’Ulster (il cui appoggio esterno è determinante per la tenuta del governo) non ha sostenuto l’accordo.
A caldo, il Primo Ministro ha espresso la sua delusione per la mancata approvazione del testo. A questo punto, la May dovrebbe concedere, Mercoledì, un nuovo voto parlamentare sulla possibilità di uscita dall’Unione Europea senza alcun accordo bilaterale. La May ha affermato di non voler vincolare i deputati conservatori ad alcuna disciplina di partito in occasione di tale consultazione. Qualora, come, l’eventualità di una “No Deal Brexit” dovesse essere respinta (su tale ipotesi dovrebbero convergere la maggioranza dei Tories e il Labour di Corbyn), dovrebbe quindi esservi un’altra votazione nella giornata di Giovedì, in merito alla richiesta di estensione dei tempi tecnici per la procedura di uscita (ai sensi dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona). Appare questo, al momento, lo scenario maggiormente probabile per quello che è divenuto un autentico rompicapo.
Theresa May ha tuttavia dichiarato: “Votare contro l’uscita unilaterale e per un’estensione non risolve i nostri problemi. L’Unione Europea vorrà conoscere il motivo di questa estensione; sapere quale uso vogliamo farne. Il Parlamento dovrà anzitutto rispondere a questa domanda”.
La May, presentando il suo piano come una sorta di “ultima spiaggia” per l’attuazione della Brexit, è riuscita a recuperare alla sua causa alcuni dei parlamentari conservatori che, nel precedente voto di Gennaio, si erano espressi contro l’accordo; in quella occasione, infatti, la leader conservatrice aveva riportato una sconfitta ancor più netta (finendo sotto di addirittura 230 voti).
Il segretario del Partito Laburista, Jeremy Corbyn, ha dichiarato che esistono ora le condizioni per una Brexit assai morbida: “Credo che vi sia una maggioranza che possa sostenere la proposta del Labour: uscita dall’UE, ma permanenza nell’Unione Doganale. Tocca al parlamento riprendere il controllo ed riuscire ove questo governo ha fallito così clamorosamente. Mi pare evidente, inoltre, che questo governo non disponga di alcun sostegno alla Camera dei Comuni; sarebbe giusto tornare alle urne”.
L’ex Ministro degli Esteri Boris Johnson si è limitato a dichiarare che il voto dovrebbe segnare la definitiva archiviazione del piano di Theresa May.