Nell’ultimo anno abbiamo sentito ripetere spesso il mantra della
ripresa: la crisi che ha allargato la disoccupazione e impoverito ampi
strati della società sarebbe finita, chiusa, finalmente alle spalle.
Qualche buontempone, in occasione delle elezioni di marzo, sbandierava ai quattro venti i
presunti meriti dei governi Renzi e Gentiloni – che avrebbero riportato
il Paese sulla retta via della crescita grazie alle fatidiche riforme e
alla flessibilità sui conti pubblici, conquistata sui tavoli europei.
Dai toni trionfalistici si è poi passati a parlare, più mestamente, di
“ripresina” e di “timidi segnali”, fino allo scorso luglio, quando
alcuni studi dell’Istat facevano notare come
una rondine non potesse far primavera: produzione e occupazione
stentano, altro che ripresa. Del resto, con un tasso di disoccupazione
sopra al 10% dal 2012, con la produzione ferma ai livelli del 2001 e
marcatamente inferiore al 2007 (l’ultimo anno di vacche non così magre),
nonché con una contrazione di circa 3 punti percentuali dei salari
reali dal 2009 al 2015, parlare di ripresa suonava già allora quantomeno
sfacciato, senza bisogno di sofisticate analisi economiche.
A sgombrare definitivamente il campo da equivoci (o, per meglio dire, da una propaganda fatta sulle spalle di chi la crisi la vive ogni giorno) ci hanno pensato in questi giorni i dati dell’Istat. Questi ultimi mostrano, infatti, una “brusca” battuta d’arresto e ci fanno notare come l’indice della produzione industriale, il termometro della crescita vista la forte vocazione manifatturiera del nostro Paese, sia tornato a scendere. Su base mensile l’indice mostra diminuzioni in tutti i comparti: beni strumentali -2.2%, beni di consumo -1.7%, beni intermedi -1.2%, energia -0.8%. In aggregato, si tratta del calo maggiore da gennaio 2015 (-1.8%). Insomma, di ripresa nemmeno a parlarne.
Al di là del dato congiunturale, tuttavia, ancora più preoccupante è il confronto dei dati odierni con quelli del 2007, in quanto la produzione industriale è inferiore di quasi 20 punti percentuali, con una caduta del 35% se si osservano solo i beni di consumo, ovvero quelli acquistati dalle famiglie che, tanto per cambiare, sono le più colpite dalla crisi. In realtà non si può neanche parlare di una mancanza di ripresa, ma del prolungamento di una tendenza ormai consolidata da 10-15 anni. Possiamo infatti osservare come anche nel periodo pre-crisi la produzione industriale non abbia mostrato un chiaro trend di crescita: fatta eccezione per i picchi del 2001 e del 2007, a cui hanno fatto seguito un rimbalzo negativo ed una drammatica crisi, la produzione industriale italiana presenta un andamento piuttosto piatto e stagnante. Anche le performance del PIL, che oltre alla produzione industriale comprendono quella agricola e quella dei servizi, non hanno di certo brillato nei primi anni duemila, mostrando una crescita media annua di poco superiore all’1%. Ma ci sono davvero ragioni per stupirsi di questa anemica – se non nulla – crescita che da ormai un ventennio caratterizza l’economia italiana, e che la costringe ad una disoccupazione a due cifre e alla conseguente crescita delle disuguaglianze sociali? O invece la spiegazione è sempre stata davanti ai nostri occhi?
In un sistema Paese, la produzione di beni e servizi è, come abbiamo ribadito in più occasioni, determinata dall’ammontare di beni e servizi complessivamente domandati da famiglie, imprese, lo Stato e il settore estero. Le famiglie domandano generalmente beni di consumo, che altrettanto generalmente pagano ricorrendo ai loro redditi da lavoro; le imprese domandano principalmente beni di investimento, ovvero attrezzature e macchinari da utilizzare per la produzione di beni destinati alla vendita; il settore pubblico domanda beni e servizi da destinare in varie forme alla collettività (spesa pubblica), che finanzia in parte attraverso la tassazione ed in parte emettendo debito pubblico; per quanto riguarda le relazioni con il resto del mondo, i soggetti esteri domandano beni italiani e stimolano la produzione italiana, mentre i soggetti residenti in Italia possono acquistare, con il loro reddito, beni prodotti all’estero e così facendo contribuiscono negativamente alla produzione nostrana (se acquistassero del pecorino di Norcia al posto del cheddarprodotto nel Somerset stimolerebbero la produzione umbra).
In maniera piuttosto stilizzata, possiamo quindi dire che il PIL è dato da consumi + investimenti + (spesa pubblica – tasse) + (esportazioni – importazioni). È chiaro ora che il PIL può crescere solamente se crescono le varie componenti della domanda aggregata che abbiamo appena elencato. In modo altrettanto semplificato proviamo ora a capire le determinanti di ognuna di queste voci, con particolare riferimento all’attuale contesto economico ed istituzionale in cui si trova ad oggi il nostro Paese.
I consumi delle famiglie dipendono essenzialmente dal loro reddito, ovvero dai salari: se i salari non crescono, i consumi non possono di certo contribuire alla crescita della domanda e quindi della produzione. Gli investimenti delle imprese sono principalmente dettati dalla loro necessità di produrre beni e servizi; tuttavia, le imprese non producono merci per depositarle in magazzino (che tra l’altro costa), e pertanto in periodi di bassa domanda non sono incentivate ad investire nemmeno a costi vantaggiosi – ovvero, prendendo a prestito denaro a tassi di interesse bassi. Il settore pubblico, come sappiamo, è attualmente assoggettato ai vincoli europei, che impongono un sostanziale pareggio di bilancio: in altri termini, la spesa pubblica non può eccedere la tassazione, e pertanto l’effetto complessivo dello Stato sulla domanda aggregata è tendenzialmente nullo o addirittura negativo, se consideriamo gli avanzi primari registrati negli ultimi anni. In sostanza, grazie all’austerità imposta dai vincoli europei, lo Stato ha consistentemente sottratto all’economia italiana più risorse di quelle che immetteva, così contribuendo all’aggravarsi della crisi. Discorso a parte merita il settore estero, il quale è stato negli ultimi anni l’unico motore di crescita del PIL: le esportazioni italiane hanno infatti avuto un andamento generalmente positivo, che tuttavia nasconde ed implica un lato oscuro della storia. Le esportazioni, infatti, a parità di qualità e di domanda estera, dipendono dalla competitività delle merci italiane, ovvero da quanto è più conveniente in termini di prezzo acquistare un bene italiano rispetto ad uno estero. Un vantaggio in termini di prezzo si può tuttavia ottenere in due modi: o indebolendo la propria valuta, o riducendo i costi di produzione del bene prodotto. In parole povere, o svalutando la moneta, o svalutando il lavoro. Ovviamente, la prima strada ci risulta non praticabile nel contesto dell’Eurozona, mentre siamo ormai drammaticamente consapevoli di quanto si sia optato per la svalutazione salariale: detto altrimenti, il prezzo da pagare per avere un settore esportatore fiorente è stata la compressione salariale ed il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori di questo settore. A tutto questo si è abbinato anche un forte calo delle importazioni, principalmente quelle di beni di consumo delle famiglie alla luce della loro perdita di potere d’acquisto, e quelle di beni intermedi vista l’anemia della produzione industriale.
Il fatto che di ripresa non ce ne sia traccia non ci deve ora sorprendere: la produzione, e quindi il reddito dell’Italia, non crescono perché non crescono le varie voci della domanda aggregata. Come se ne esce? Non possiamo rispondere a questa domanda senza richiamare le cause dell’attuale stallo economico, da ricercare nella moderazione salariale e nelle politiche di austerità. Finché non ci sarà una politica economica che miri ad una distribuzione del reddito più equa e che possa favorire la ripresa dei salari e quindi dei consumi, nonché delle misure di politica fiscale di carattere espansivo, che possano restituire al settore pubblico la possibilità di contribuire positivamente alla crescita attraverso la spesa pubblica, non potranno esserci le condizioni per una sana e robusta ripresa. Non ci deve stupire che tali indirizzi risultino impraticabili nell’attuale contesto europeo, che prevede ferree regole di bilancio ed una logica di crescita basata solo sulla contrazione dei salari per guadagnare competitività sui mercati esteri. Non si tratta, infatti, di un incidente di percorso o di errori di calcolo. È un preciso disegno politico di gestione della crisi, implementato attraverso le istituzioni, i dogmi ed i vincoli europei, che si nutre dello sfruttamento e della disoccupazione dei tanti, a vantaggio del profitto dei pochi.
A sgombrare definitivamente il campo da equivoci (o, per meglio dire, da una propaganda fatta sulle spalle di chi la crisi la vive ogni giorno) ci hanno pensato in questi giorni i dati dell’Istat. Questi ultimi mostrano, infatti, una “brusca” battuta d’arresto e ci fanno notare come l’indice della produzione industriale, il termometro della crescita vista la forte vocazione manifatturiera del nostro Paese, sia tornato a scendere. Su base mensile l’indice mostra diminuzioni in tutti i comparti: beni strumentali -2.2%, beni di consumo -1.7%, beni intermedi -1.2%, energia -0.8%. In aggregato, si tratta del calo maggiore da gennaio 2015 (-1.8%). Insomma, di ripresa nemmeno a parlarne.
Al di là del dato congiunturale, tuttavia, ancora più preoccupante è il confronto dei dati odierni con quelli del 2007, in quanto la produzione industriale è inferiore di quasi 20 punti percentuali, con una caduta del 35% se si osservano solo i beni di consumo, ovvero quelli acquistati dalle famiglie che, tanto per cambiare, sono le più colpite dalla crisi. In realtà non si può neanche parlare di una mancanza di ripresa, ma del prolungamento di una tendenza ormai consolidata da 10-15 anni. Possiamo infatti osservare come anche nel periodo pre-crisi la produzione industriale non abbia mostrato un chiaro trend di crescita: fatta eccezione per i picchi del 2001 e del 2007, a cui hanno fatto seguito un rimbalzo negativo ed una drammatica crisi, la produzione industriale italiana presenta un andamento piuttosto piatto e stagnante. Anche le performance del PIL, che oltre alla produzione industriale comprendono quella agricola e quella dei servizi, non hanno di certo brillato nei primi anni duemila, mostrando una crescita media annua di poco superiore all’1%. Ma ci sono davvero ragioni per stupirsi di questa anemica – se non nulla – crescita che da ormai un ventennio caratterizza l’economia italiana, e che la costringe ad una disoccupazione a due cifre e alla conseguente crescita delle disuguaglianze sociali? O invece la spiegazione è sempre stata davanti ai nostri occhi?
In un sistema Paese, la produzione di beni e servizi è, come abbiamo ribadito in più occasioni, determinata dall’ammontare di beni e servizi complessivamente domandati da famiglie, imprese, lo Stato e il settore estero. Le famiglie domandano generalmente beni di consumo, che altrettanto generalmente pagano ricorrendo ai loro redditi da lavoro; le imprese domandano principalmente beni di investimento, ovvero attrezzature e macchinari da utilizzare per la produzione di beni destinati alla vendita; il settore pubblico domanda beni e servizi da destinare in varie forme alla collettività (spesa pubblica), che finanzia in parte attraverso la tassazione ed in parte emettendo debito pubblico; per quanto riguarda le relazioni con il resto del mondo, i soggetti esteri domandano beni italiani e stimolano la produzione italiana, mentre i soggetti residenti in Italia possono acquistare, con il loro reddito, beni prodotti all’estero e così facendo contribuiscono negativamente alla produzione nostrana (se acquistassero del pecorino di Norcia al posto del cheddarprodotto nel Somerset stimolerebbero la produzione umbra).
In maniera piuttosto stilizzata, possiamo quindi dire che il PIL è dato da consumi + investimenti + (spesa pubblica – tasse) + (esportazioni – importazioni). È chiaro ora che il PIL può crescere solamente se crescono le varie componenti della domanda aggregata che abbiamo appena elencato. In modo altrettanto semplificato proviamo ora a capire le determinanti di ognuna di queste voci, con particolare riferimento all’attuale contesto economico ed istituzionale in cui si trova ad oggi il nostro Paese.
I consumi delle famiglie dipendono essenzialmente dal loro reddito, ovvero dai salari: se i salari non crescono, i consumi non possono di certo contribuire alla crescita della domanda e quindi della produzione. Gli investimenti delle imprese sono principalmente dettati dalla loro necessità di produrre beni e servizi; tuttavia, le imprese non producono merci per depositarle in magazzino (che tra l’altro costa), e pertanto in periodi di bassa domanda non sono incentivate ad investire nemmeno a costi vantaggiosi – ovvero, prendendo a prestito denaro a tassi di interesse bassi. Il settore pubblico, come sappiamo, è attualmente assoggettato ai vincoli europei, che impongono un sostanziale pareggio di bilancio: in altri termini, la spesa pubblica non può eccedere la tassazione, e pertanto l’effetto complessivo dello Stato sulla domanda aggregata è tendenzialmente nullo o addirittura negativo, se consideriamo gli avanzi primari registrati negli ultimi anni. In sostanza, grazie all’austerità imposta dai vincoli europei, lo Stato ha consistentemente sottratto all’economia italiana più risorse di quelle che immetteva, così contribuendo all’aggravarsi della crisi. Discorso a parte merita il settore estero, il quale è stato negli ultimi anni l’unico motore di crescita del PIL: le esportazioni italiane hanno infatti avuto un andamento generalmente positivo, che tuttavia nasconde ed implica un lato oscuro della storia. Le esportazioni, infatti, a parità di qualità e di domanda estera, dipendono dalla competitività delle merci italiane, ovvero da quanto è più conveniente in termini di prezzo acquistare un bene italiano rispetto ad uno estero. Un vantaggio in termini di prezzo si può tuttavia ottenere in due modi: o indebolendo la propria valuta, o riducendo i costi di produzione del bene prodotto. In parole povere, o svalutando la moneta, o svalutando il lavoro. Ovviamente, la prima strada ci risulta non praticabile nel contesto dell’Eurozona, mentre siamo ormai drammaticamente consapevoli di quanto si sia optato per la svalutazione salariale: detto altrimenti, il prezzo da pagare per avere un settore esportatore fiorente è stata la compressione salariale ed il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori di questo settore. A tutto questo si è abbinato anche un forte calo delle importazioni, principalmente quelle di beni di consumo delle famiglie alla luce della loro perdita di potere d’acquisto, e quelle di beni intermedi vista l’anemia della produzione industriale.
Il fatto che di ripresa non ce ne sia traccia non ci deve ora sorprendere: la produzione, e quindi il reddito dell’Italia, non crescono perché non crescono le varie voci della domanda aggregata. Come se ne esce? Non possiamo rispondere a questa domanda senza richiamare le cause dell’attuale stallo economico, da ricercare nella moderazione salariale e nelle politiche di austerità. Finché non ci sarà una politica economica che miri ad una distribuzione del reddito più equa e che possa favorire la ripresa dei salari e quindi dei consumi, nonché delle misure di politica fiscale di carattere espansivo, che possano restituire al settore pubblico la possibilità di contribuire positivamente alla crescita attraverso la spesa pubblica, non potranno esserci le condizioni per una sana e robusta ripresa. Non ci deve stupire che tali indirizzi risultino impraticabili nell’attuale contesto europeo, che prevede ferree regole di bilancio ed una logica di crescita basata solo sulla contrazione dei salari per guadagnare competitività sui mercati esteri. Non si tratta, infatti, di un incidente di percorso o di errori di calcolo. È un preciso disegno politico di gestione della crisi, implementato attraverso le istituzioni, i dogmi ed i vincoli europei, che si nutre dello sfruttamento e della disoccupazione dei tanti, a vantaggio del profitto dei pochi.
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