Tra i numerosi successi che il Governo Renzi (e,
di conseguenza, quello Gentiloni) rivendicano tronfiamente, c’è anche
quello di essere riusciti a far
ripartire l’economia
a suon di riforme e ottimismo. Adesso, in campagna elettorale, o, più
in generale, in democrazia tutto è lecito; ritornare su questo
argomento, però, è meno inutile di quanto possa inizialmente sembrare.
Certo: in tutta onestà, di quel che rimane del Partito Democratico e dei
suoi simpatizzanti a noi importa assai poco. Ma, se accanirsi sugli
agonizzanti resti di quello che un tempo fu il renzismo è solo un futile
esercizio per la nostra
vis polemica – e su questo siamo più o
meno tutti d’accordo – almeno tentiamo di guardare all’economia, che è
ciò che ci interessa al momento. Paradossalmente,
noi vorremmo che l’ex Presidente del Consiglio avesse ragione:
vorremmo sinceramente che gli ultimi due governi avessero tirato
l’Italia fuori dalla recessione, perché ce n’è veramente un dannato
bisogno. Ma, purtroppo, pare che le cose vadano altrimenti. Vorremmo
risparmiarci di ripetere ancora una volta la tristissima
contabilità
di quanti siano i milioni di indigenti e disoccupati reali in un paese
che letteralmente crolla a pezzi. Ma, evidentemente, finché c’è chi
dichiara che la congiuntura attuale è in espansione, non possiamo
esimerci dalla fatica di Sisifo di
remettre les pendules à l’heure in una situazione che pare collocarsi al di fuori del tempo.
Allora:
chi ha governato per ultimo dichiara di aver fatto riprendere l’economia
e questo, almeno ad un primo sguardo superficiale, può anche sembrare
vero. La crescita del reddito è ritornata ad essere positiva, anche se
di poco. Gli investimenti sono leggermente meno stagnanti di prima.
Tutte cose di cui non potremmo che rallegrarci, forse. Ma guardiamo più
nel dettaglio: quali settori sono cresciuti di più e quali meno?
Consultiamo dunque i
dati trimestrali dell’Istat
sul valore aggiunto per branca di attività, valori concatenati con
riferimento 2010. Omettendo il valore aggiunto da agricoltura,
silvicoltura e pesca, che impatta in modo trascurabile sulla produzione
totale, concentriamoci sui settori secondario e terziario. In
particolare, i dati sono scorporati per mettere in evidenza la dinamica
del manifatturiero e dei servizi ad esso strettamente collegati, per
separarli invece dagli altri servizi e dal settore secondario non
commerciabile. Inoltre, per meglio cogliere la crescita percentuale
dall’insediamento del Governo Renzi (primo trimestre 2014), le serie
sono rappresentate sotto forma di indice.
Quello che ci interessa sapere salta subito all’occhio: il
manifatturiero cresce del 7%, i servizi commerciali del 9%. Gli altri
servizi, invece, restano perlopiù stagnanti, salendo del 2%, mentre il
secondario non commerciabile prima crolla del 5%, poi lentamente risale
un po’, fino al 97% del valore originario. La crescita limitata
esclusivamente ai settori connessi al commercio internazionale ci dà una
certa idea sul fatto che l’aumento della produzione sia
trainata dalla domanda estera e non da quella interna,
che rimane più che stagnante. Del resto, non potrebbe essere
altrimenti: ci stiamo avviando sulla strada del pareggio di bilancio
pubblico, mentre il credito al settore privato stenta ad espandersi. Per
avere un ulteriore, forte indizio in questa direzione, però, abbiamo
bisogno di un ultimo grafico: quello del (logaritmo del) tasso di cambio
Euro/Dollaro americano (scala di sinistra) e del tasso di crescita
annuale del PIL reale (scala di destra).
Altro che Jobs Act e Industria 4.0, forse qui l’unico che potrebbe vantarsi di aver portato la ripresa è
Mario Draghi.
Appena l’Euro comincia a perdere terreno sul Dollaro, ecco che la
crescita del valore aggiunto accelera. In particolare, la correlazione
tra le due serie, ovviamente rilevante, è di 0,6, e, se ritardiamo il
tasso di cambio col Dollaro di un periodo, cioè confrontiamo il PIL di
aprile col cambio di gennaio, la correlazione sale fino a 0,8.
Chiaramente, tra la svalutazione e l’aumento delle esportazioni e del
PIL un minimo intervallo di tempo deve passarci. Le esportazioni
nominali nei 16 trimestri 2014-2017 sono cresciute complessivamente del
17%, ma, poiché il commercio con gli Stati Uniti occupa una quota di
circa il 10%
delle esportazioni italiane, le vendite all’ingrosso in America sono
aumentate del 55%, mentre quelle verso il resto del mondo quasi del 15%.
Il motivo di questo fenomeno è semplice: una quota significativa delle
transazioni commerciali internazionali sono fatturate in
Dollari, cosicché tale divisa gioca un ruolo preponderante per l’Italia nel commercio fuori dall’Unione Europea.
Inoltre, che la crescita dell’Italia sia spiegata così bene dal tasso
di cambio è per certi versi anomalo: ci dice che altri motivi per cui
il reddito possa crescere non ve ne sono. Ripetiamo: nel corso degli
ultimi due anni i salari nominali sono cresciuti in media
dello 0,6%.
Le imprese continuano a morire come mosche. La politica fiscale è
sempre più restrittiva. L’unica speranza, pertanto, è trovare mercati di
sbocco all’estero. Infatti, guardando i dati degli altri principali
paesi europei, come Francia, Spagna e Belgio, la relazione statistica
tra tasso di cambio e crescita del PIL non è così netta:
l’Italia costituisce dunque un unicum a livello europeo sotto questo punto di vista.
Difatti, siamo stati il paese in cui la correzione dei conti pubblici
tra il 2010 e il 2012 è stata più violenta, e, per via della nostra
particolare struttura industriale, l’austerità è stata particolarmente
letale, causandoci anche una crisi bancaria.
Dai fatti appena visti possiamo trarre alcune considerazioni: la prima, e più sconsolata, è che
le esportazioni non ci salveranno.
Evidentemente, il tasso di cambio col Dollaro americano rimane per il
momento l’unico filo cui restiamo appesi con tutte le nostre forze. Il
commercio estero (extra-UE) è l’unica, temporanea salvezza che tiene
uniti (male) i cocci di un sistema tecnicamente fallito. D’altra parte,
però, possono esserci notizie anche meno tetre: la crescita del surplus
di conto corrente (attualmente circa 3% del PIL) può darci un indizio
sul fatto che le esportazioni, nonostante tutto, sono ancora
sufficientemente elastiche rispetto al prezzo. Questo significa che
un futuro riallineamento dei tassi di cambio potrà aiutare a correggere gli squilibri commerciali.
Inoltre, il fatto che la crescita sia trainata
soltanto dalle
esportazioni fuori dal continente ci dice che i moltiplicatori della
spesa sono ben maggiori di uno, e anche parecchio: con buona pace di
Cottarelli,
dal 2014 compreso, a fronte dell’aumento di 19 miliardi delle
esportazioni nette il PIL è cresciuto 112 miliardi. Ma questo, ahi noi,
non dovrebbe stupirci troppo, se teniamo a mente che il tasso di
disoccupazione reale si
aggira intorno al 25%.
Possiamo così tranquillamente ridercene di chi sostiene che
un’eventuale espansione fiscale sarebbe prociclica. Anzi, un deficit
leggermente maggiore è necessario per evitare di puntare tutte le nostre
(scarse)
fiches sulle esportazioni:
la situazione attuale è tutto meno che stabile. Non è detto che il tasso di cambio resti così favorevole a lungo, oppure che gli Stati uniti non impongano
ulteriori dazi sulle nostre esportazioni.