lunedì 11 settembre 2017

L’atomica, salvacondotto dei regimi

Non farsi attaccare e avere una potente leva di ricatto nei confronti delle altre potenze nucleari e regionali: questo è il senso dell’atomica. Il dottor Stranamore è sempre di moda. I Paesi oggi teoricamente “inattaccabili”, oltre a quelli del club nucleare ufficiale, sono Pakistan, India e Israele, che non hanno mai firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, tutti collocati su linee di faglia geopolitiche esplosive e dove si susseguono da decenni guerre infinite.
Il caso del Pakistan, in perenne conflitto con l’India per il Kashmir, sta diventando sempre più complicato per le frizioni che lo oppongono agli Usa sulla questione del sostegno di Islamabad alle reti islamiste in Afghanistan e la presenza economica e finanziaria cinese nei grandi progetti di sviluppo sulla Via della Seta in collaborazione con i pakistani. Sia pure indirettamente, i piani atomici nordcoreani incrociano quelli pakistani attraverso l’espansione della Cina nel subcontinente indiano.
Non è un caso che abbiano cercato di procurarsi il nucleare anche gli iraniani, vista la costante ostilità Usa, israeliana e araba, oltre che la vicinanza con la Turchia, membro della Nato - che ospita i missili e l’aviazione degli americani a Incirlik - e il confine con il Pakistan. «Se avessimo avuto l’atomica, l’avremmo usata contro Saddam Hussein che attaccando l’Iran nel 1980 ha fatto in quella guerra un milione di morti» disse una volta il ministro iraniano degli Esteri Javad Zarif. Aggiungiamo che oggi nessuno stato del Medio Oriente ha eserciti così numerosi e motivati da potere sacrificare sul fronte mezzo milione di soldati e di “martiri”: l’atomica in un certo senso è ritenuta una necessità.
Gli ayatollah iraniani sono stati abbastanza abili da contrattare con le superpotenze la rinuncia a un’atomica “virtuale” e non fare la fine di Saddam Hussein, sbalzato dal potere nel 2003 anche se non aveva armi di distruzione di massa. Evento che non è passato inosservato in Corea del Nord.
Ma pure i sauditi vogliono l’atomica, in funzione anti-iraniana. E in attesa di realizzarla, per mettersi alla testa del mondo musulmano sunnita, comprano miliardi di dollari di armi dagli americani. Sotto questo profilo risalta ancora di più il negoziato voluto da Barack Obama con Teheran che ha portato all’accordo del 2015: ha frenato temporaneamente una proliferazione nucleare nel Golfo che è già in atto da tempo.
La posta in gioco per gli iraniani con l’accordo del luglio di due anni fa era l’allentamento delle sanzioni e qualche momentanea garanzia che Washington avrebbe rinunciato a un cambio di regime a Teheran. È quello che in sostanza chiede anche la dittatura nordcoreana: sopravvivere con l’aiuto della Cina e qualche spiraglio di commercio internazionale.
Il regime di Pyongyang non è così folle come viene descritto. Quello che gli Stati Uniti finora non hanno mai voluto garantire è la continuità della dinastia nordcoreana al potere da 60 anni: per Washington, ma anche per Seul, l’obiettivo di medio-lungo termine è la riunificazione della penisola coreana. Un traguardo che la Cina non ha nessuna intenzione di agevolare perché significa avere le truppe americane in casa, cosa che del resto avverrebbe anche in caso di guerra.
Pechino non vuole né una Corea del Nord “normale” né un conflitto con gli Usa: questo è il nodo della questione con Pechino. Un’ambiguità espressa anche recentemente dalle parole del ministro cinese degli Esteri Wang Yi: «Lo scopo delle sanzioni alla Corea del Nord è riportare la questione nucleare al tavolo delle trattative per realizzare la denuclearizzazione della penisola». In poche parole Pechino punta a rendere militarmente neutrale sia la Corea del Nord che quella del Sud per potere poi decidere la transizione del regime di Pyongyang e l’eventuale riunificazione della penisola che non vede per niente di buon occhio. Il motto degli imperi è sempre “divide et impera”.

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