Dieci anni dopo la prima e unica Conferenza nazionale sui cambiamenti
climatici in Italia, il promotore dell’iniziativa – l’allora ministro
dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio – è tornato in Senato per fare un
punto su quanto compiuto dal 2007 ad oggi, supportato tra gli altri dal
presidente dell’Ispra Stefano Laporta. Assai poche purtroppo le buone
notizie.
Dai dati Ispra risulta come dieci anni fa il 10% territorio italiano fosse interessato da una forte criticità idrogeologica, mentre nel 2017 le aree a rischio sono quasi raddoppiate arrivando al 19,4%. Conseguentemente, la popolazione residente in aree a pericolosità frana elevata e molto elevata è passata da 992.403 a 1.247.679, mentre quella esposta a rischio alluvione ha quasi raggiunto i 2 milioni di persone; ampliando l’analisi anche gli abitanti che vivono in aree a scenario di pericolosità media e scarsa, si arriva a 9 milioni di persone. «Avere perso dieci anni è stato un crimine – commenta Pecoraro Scanio – ora basta ritardi. Fenomeni estremi come bombe d’acqua e alluvioni stanno stravolgendo lo scenario climatico del Paese e il recente disastro di Livorno ci ricorda che le nostre città sono vulnerabili ai pericoli. Non è accettabile perdere vite umane».
Com’è stato possibile? Di grande importanza è la dinamica relativa al progressivo consumo di suolo, che ancora oggi mangia 4 metri quadrati al secondo e comporta costi alla collettività per almeno 820 milioni di euro all’anno, con l’Ispra che «ha evidenziato un trend positivo degli interventi a mitigazione del rischio idrogeologico solo nel biennio 2007-2008. Dal 2009, invece, gli stessi dati confermano l’assenza di programmazione». Altro fattore determinante è l’avanzata dei cambiamenti climatici, più acuta in Italia rispetto alla media globale: com’è stato ricordato durante l’incontro in Senato dalla Fondazione UniVerde (di cui Pecoraro Scanio è oggi presidente), nel 2007 si evidenziò come «l’anomalia della temperatura media si attestasse allora a +1 °C rispetto al trentennio 1961-1990: in meno di dieci anni è passata a +1,58 °C con il 2017 già entrato nella storia per le roventi temperature raggiunte».
Un fronte sul quale un altro ex ministro dell’Ambiente, Edo Ronchi, si unisce per denunciare la mancanza di impegno da parte delle istituzioni per contenere le emissioni di gas serra prodotte dall’Italia, che dopo decenni. Nei primi 7 mesi del 2017 – secondo i dati pubblicati da Terna, osserva Ronchi – la produzione di elettricità da fonti rinnovabili in Italia, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, è diminuita del 5,4%, scendendo da 62,3 a 58,9 TWh. Poiché la produzione di elettricità è invece aumentata nello stesso periodo da 156,4 a 163,2 TWh, la produzione di elettricità da fonti termiche fossili è cresciuta in questo periodo dell’11,3%».
Un trend che parte da lontano, dato che «il peggioramento delle rinnovabili aveva già provocato l’aumento delle emissioni specifiche di CO2 nel settore elettrico in Italia: secondo i dati Ispra, dopo ben 25 anni di calo progressivo, le emissioni specifiche hanno infatti cominciato a crescere da 303 grammi di Co2/KWh nel 2014 a 315 nel 2015 e a 331 nel 2016».
Per la nuova Strategia energetica nazionale (Sen), documento per il quale si è chiusa ieri la fase di consultazione pubblica, la crescita futura delle rinnovabili elettriche dovrebbe in primis «essere compatibile con il contenimento dei costi in bolletta», con il concreto rischio però di allontanare ulteriormente l’attuazione dell’Accordo di Parigi, come già mostrano «tre anni di fila di aumento delle emissioni specifiche di CO2 per kilowattora elettrico». Per Ronchi «sarebbe possibile accelerare, come necessario, lo sviluppo delle rinnovabili elettriche non caricando ulteriori incentivi sulle bollette solo correggendo il mercato – in modo che riconosca i costi dei danni prodotti dalla crisi climatica alimentata dalle emissioni di CO2 – introducendo una forma adeguata di carbon pricing», ma nonostante tutti i benefici potenziali la definizione di una carbon tax nel nostro Paese al momento continua a rimanere un’ipotesi fantascientifica per la mancanza di impegno politico.
Dai dati Ispra risulta come dieci anni fa il 10% territorio italiano fosse interessato da una forte criticità idrogeologica, mentre nel 2017 le aree a rischio sono quasi raddoppiate arrivando al 19,4%. Conseguentemente, la popolazione residente in aree a pericolosità frana elevata e molto elevata è passata da 992.403 a 1.247.679, mentre quella esposta a rischio alluvione ha quasi raggiunto i 2 milioni di persone; ampliando l’analisi anche gli abitanti che vivono in aree a scenario di pericolosità media e scarsa, si arriva a 9 milioni di persone. «Avere perso dieci anni è stato un crimine – commenta Pecoraro Scanio – ora basta ritardi. Fenomeni estremi come bombe d’acqua e alluvioni stanno stravolgendo lo scenario climatico del Paese e il recente disastro di Livorno ci ricorda che le nostre città sono vulnerabili ai pericoli. Non è accettabile perdere vite umane».
Com’è stato possibile? Di grande importanza è la dinamica relativa al progressivo consumo di suolo, che ancora oggi mangia 4 metri quadrati al secondo e comporta costi alla collettività per almeno 820 milioni di euro all’anno, con l’Ispra che «ha evidenziato un trend positivo degli interventi a mitigazione del rischio idrogeologico solo nel biennio 2007-2008. Dal 2009, invece, gli stessi dati confermano l’assenza di programmazione». Altro fattore determinante è l’avanzata dei cambiamenti climatici, più acuta in Italia rispetto alla media globale: com’è stato ricordato durante l’incontro in Senato dalla Fondazione UniVerde (di cui Pecoraro Scanio è oggi presidente), nel 2007 si evidenziò come «l’anomalia della temperatura media si attestasse allora a +1 °C rispetto al trentennio 1961-1990: in meno di dieci anni è passata a +1,58 °C con il 2017 già entrato nella storia per le roventi temperature raggiunte».
Un fronte sul quale un altro ex ministro dell’Ambiente, Edo Ronchi, si unisce per denunciare la mancanza di impegno da parte delle istituzioni per contenere le emissioni di gas serra prodotte dall’Italia, che dopo decenni. Nei primi 7 mesi del 2017 – secondo i dati pubblicati da Terna, osserva Ronchi – la produzione di elettricità da fonti rinnovabili in Italia, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, è diminuita del 5,4%, scendendo da 62,3 a 58,9 TWh. Poiché la produzione di elettricità è invece aumentata nello stesso periodo da 156,4 a 163,2 TWh, la produzione di elettricità da fonti termiche fossili è cresciuta in questo periodo dell’11,3%».
Un trend che parte da lontano, dato che «il peggioramento delle rinnovabili aveva già provocato l’aumento delle emissioni specifiche di CO2 nel settore elettrico in Italia: secondo i dati Ispra, dopo ben 25 anni di calo progressivo, le emissioni specifiche hanno infatti cominciato a crescere da 303 grammi di Co2/KWh nel 2014 a 315 nel 2015 e a 331 nel 2016».
Per la nuova Strategia energetica nazionale (Sen), documento per il quale si è chiusa ieri la fase di consultazione pubblica, la crescita futura delle rinnovabili elettriche dovrebbe in primis «essere compatibile con il contenimento dei costi in bolletta», con il concreto rischio però di allontanare ulteriormente l’attuazione dell’Accordo di Parigi, come già mostrano «tre anni di fila di aumento delle emissioni specifiche di CO2 per kilowattora elettrico». Per Ronchi «sarebbe possibile accelerare, come necessario, lo sviluppo delle rinnovabili elettriche non caricando ulteriori incentivi sulle bollette solo correggendo il mercato – in modo che riconosca i costi dei danni prodotti dalla crisi climatica alimentata dalle emissioni di CO2 – introducendo una forma adeguata di carbon pricing», ma nonostante tutti i benefici potenziali la definizione di una carbon tax nel nostro Paese al momento continua a rimanere un’ipotesi fantascientifica per la mancanza di impegno politico.
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