giovedì 10 novembre 2016

Renzi-Juncker, il referendum è alle porte

C’è un pregio che obbiettivamente va riconosciuto al Presidente Juncker: sembra essere immune al virus del politicamente corretto che ha colpito mortalmente il mondo occidentale. Se non ci avesse abituati sobbalzeremmo sulla sedia, di fronte a quelle verità innocenti che ogni tanto spara a giornalisti abituati a dichiarazioni di facciata. L’ultima, che ha già fatto il giro delle prime pagine dei giornali, riguarda la battaglia degli “zerovirgola” in corso da alcuni mesi tra Commissione e Governo Italiano. “Me ne frego” delle critiche italiane, in sostanza, le parole di Juncker, che poi ha rilanciato con stime spannometriche tanto quanto quelle del Governo sui costi extra di terremoto e migranti. Ha ricordato, infine, come l’Italia avesse promesso un deficit all’1,7%, invece che il 2,4% dell’ultimo Def, e si arrogato il merito di averci già concesso 19 miliardi di flessibilità extra grazie alle sue riforme del Patto di Stabilità. O almeno… questo è quanto riportato dai principali quotidiani italiani. Le parole di Juncker in realtà sono state in francese. Un ben più interpretabile “je m’en fous”, che in italiano si può rendere con una gamma di espressioni che vanno dal “non m’importa” al “me ne fotto”. In più non erano dirette specificamente all’Italia, ma a chiunque dica che “le politiche di austerità con questa Commissione stiano continuando come in precedenza”. Probabile riferimento all’Italia dunque, della quale stava parlando poco prima, ma in generale al fronte anti-austerity (fonte). Nonostante ciò, i vertici del Governo italiano hanno colto la proverbiale palla al balzo per esibirsi in una muscolare levata di scudi. Il notorio cuor di leone Gentiloni, ministro degli Esteri, ha manifestato tutto il suo disappunto con un tweet che ha ricordato il miglior Bersani, quello che smacchiava giaguari per hobby.
Renzi ne ha invece approfittato per un poco di populismo, che qualche giornalista dell’Huffington Post ha deciso di rendere ancor più populista: “Sui soldi alle scuole tiro dritto” il titolo, un poco più articolata la retorica del premier. È qui però che emerge il dato politico della vicenda. Al governo fa comodo la querelle con Bruxelles almeno quanto fa comodo a Juncker. Entrambi sono stati condannati alla garrota, sanguinolento metodo d’esecuzione in voga nella Spagna di qualche decennio fa. Legati ad un palo con la corda stretta intorno al collo, il machiavellico meccanismo dell’euro sta facendo lentamente girare la manovella che fa stringere il cappio, fino al soffocamento dei condannati. Per Renzi il discorso è chiaro. Si lamenta sempre della “politica degli zerovirgola”, ma chi la sta in realtà facendo è lui, adesso che si trova a dover fare i conti col Patto di Stabilità e con l’Euro. Il Pil, se cresce, cresce di qualche decimale appena, mentre quello potenziale intanto va distruggendosi. Se il reddito non sale però il consenso scende, mentre Renzi il 4 dicembre ne avrà un gran bisogno. Da qui la lunga manfrina con Bruxelles per qualche zerovirgola di flessibilità in più, inutile se non per far imbufalire gli euroburocrati, dato che la manovra resta di per sé restrittiva. Per essere espansiva una politica di spesa deve essere, per definizione, a deficit, cioè avere un disavanzo primario, al netto degli interessi sul debito. Noi, purtroppo, siamo in avanzo primario euroimposto più o meno dal ’92, guarda caso cioè da quando abbiamo smesso di crescere al passo col resto del continente.
Vediamo di chiarire. Un’economia è composta sostanzialmente da tre parti: privato, pubblico, estero. Se uno dei tra settori è in deficit, gli altri devono compensare. Cioè, se lo Stato drena continuamente risorse al settore privato attraverso l’avanzo primario (incassa più di quanto spende), il privato o si contrae, perché perde liquidità, o si indebita. Dunque un avanzo primario è sostanzialmente depressivo per l’economia, dunque riduce la crescita, dunque il budget per l’anno successivo, dunque aumenta il peso del debito pubblico. Essendo il debito italiano particolarmente alto, e dato che utilizziamo sostanzialmente una valuta straniera che ci viene prestata a tasso di mercato (cioè alto), se non c’è crescita non c’è possibilità di ripagare il debito e il peso degli interessi diventa sempre maggiore, spingendo in deficit il bilancio e riducendo le possibilità di spesa, già compresse dal fiscal compact. Lo ha ammesso, sostanzialmente, anche Padoan in un’intervista per il Messaggero. Ha senso dunque attaccarsi, come è Renzi stesso a fare, agli “zerovirgola”, quando il problema è strutturale ed è legato all’ingresso nell’Unione Europea? Sì, un significato ce l’ha, ed è politico, non economico. L’Unione non è molto popolare in questo periodo, le principali forze d’opposizione sono più o meno dichiaratamente euroscettiche e gli ultimi sondaggi sul referendum non lasciano troppo speranze a Renzi, che ha deciso di giocare la carta del populismo di maniera sperando di rubare qualche “zerovirgola” di consenso a Lega e 5Stelle. Veniamo a Juncker. Anche lui è alla garrota. Lo è per il suo lascito storico, il ricordo che rimarrà di lui nella memoria collettiva, che non sarà certamente positivo, specie a fronte delle roboanti promesse di inizio mandato. Lo è anche perché stretto in una morsa, i Paesi del Sud bisognosi di politiche fiscali lasse da una parte, Germania e affini dall’altra. Lo è, infine, perché, come Renzi, si è accorto di non avere potere che non sia apparenza. Dunque entrambi giovano del battibecco continuo per tentare di disorientare, a colpi di storytelling, un’opinione pubblica sempre meno propensa a sostenere l’ordine degli “zerovirgola”. Soprattutto, entrambi vogliono che passi il Sì, così l’Italia potrà finalmente fare quelle riforme strutturali che Moody’s giudica essenziali per dare un outlook positivo al Paese. Chissà, dopo i voucher forse arriveranno le figurine Panini.

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