martedì 29 novembre 2016

L’economia del referendum

Mancano meno di due settimane al fatidico voto e il terreno politico è arroventato già da mesi da parecchie dichiarazioni e falsità riguardo lo scenario post referendum. Si susseguono scenari apocalittici da entrambi gli schieramenti, e ormai si è davvero passato il limite delle bestialità, in una campagna refendaria davvero di cattivissimo gusto. Tralasciando quelli che sono gli aspetti politici, tecnici e istituzionali della riforma, noi analizzeremo qui il lato prettamente economico. Per cominciare partiamo dallo scenario più esilarante, quello che è stato fatto quest’estate dal centro studi della Confindustria, che senza spiegare minimamente quali dati abbia usato, e benché meno quali modelli matematici, prevede in caso di vittoria del Sì un aumento di PIL del 4%, un aumento degli investimenti del 17% e 600 mila occupati in più. Insomma ricomincia il miracolo italiano. A parte questi scenari inverosimili, si possono delineare due ipotesi razionali in merito a quello che succederà. In caso di vittoria del NO, possiamo attenderci qualche giorno di turbolenza sulle borse a causa dell’instabilità che piomberà sul governo Renzi, ma occorre tenere a mente che già due giorni dopo la Brexit la Borsa di Londra era in netta ripresa. D’altronde, anche la borsa americana non ha subito il tracollo che ci si aspettava dopo l’elezione di Trump (in parte perché i mercati si sono tardivamente resi conto che il programma del presidente-eletto è alquanto pro-business). Se le borse non hanno reagito secondo le attese è anche perché la situazione bancaria europea rimane molto precaria, a causa dei risicatissimi margini dovuti ai tassi di interesse ai minimi storici e della enorme quantità di titoli tossici e di crediti deteriorati che appesantiscono i bilanci. Un attacco speculativo, per esempio sulla Borsa di Milano, potrebbe far crollare una qualsiasi delle nostre banche che si porterebbe dietro a catena tutte le altre, dando inizio al tracollo dell’intero settore bancario europeo. Ecco perché i grandi investitori non hanno mantenuto la parola con attacchi speculativi dopo la Brexit e l’elezione di Trump, perché ne andava anche del loro interesse, con buona pace della loro credibilità.
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Andamento dell’indice S&P 100 sull’ultimo anno. Dopo le turbolenze nei giorni precedenti alle elezioni di Trump, l’indice è tornato a crescere a velocità di crociera (Fonte: Il Sole 24 Ore).
In caso di vittoria del SI, possiamo attenderci una bella impennata in Borsa, giacché i grandi investitori e le grandi banche d’affari si sono già espressi in favore di questa riforma, I sostenitori del Sì promettono grandi investimenti interni, che tuttavia si possono fare anche senza riforma (ma che andrebbero comunque fatti in deficit e l’Europa non li approverebbe, come già fatica ad approvare la spesa fuori dal patto di stabilità per i terremoti) e grandi investimenti provenienti dall’estero. Eppure, non si trova il motivo per cui per attirare investimenti si debba modificare la nostra Costituzione. Gli Stati Uniti hanno la stessa Costituzione da più di 200 anni, ma a nessuno è venuto in mente di modificarla per avere più investimenti. La Costituzione rappresenta la legge fondamentale dello Stato, riguardante i suoi principi democratici, perché dovremmo aderire a questo ricatto?
Si può entrare poi più nel merito della riforma, e visto che nel quesito referendario viene citato il “contenimento dei costi delle istituzioni” vediamo se è veramente così. Il governo sostenitore della riforma parla di un grande risparmio di 500 milioni; anche qui non si capisce perché ridurre il discorso sulla legge fondamentale dello Stato ad una mera questione di costi. In questo senso, allora, la forma di stato più economica è la dittatura, ma non forse la più auspicabile. La stima più affidabile su cui possiamo fare riferimento è quella della Ragioneria Generale dello Stato, che stima un risparmio di 48 milioni di euro, attraverso tagli alle Indennità, tagli alle spese di svolgimento del mandato, spese alla diaria, ecc. Dato che il costo del Senato quest’anno si attesterà sui 540 milioni, l’8.8% sul totale dei costi della Camera Alta, si tratterebbe di un risparmio piuttosto risicato. E ciò perché si manterrebbe intatto tutto l’impianto del Senato, con tutti i suoi funzionari e i suoi dipendenti. Ancora più risicato se lo confrontiamo con la spesa di tutta la pubblica amministrazione che si attesta su 830 miliardi circa. Si tratterebbe di un risparmio dello 0.006%, circa un caffè all’anno per ogni italiano. Sarebbe più proficua in termini di risparmio una seria legge sugli appalti piuttosto che lo stravolgimento della carta costituzionale. Ecco dunque profilarsi la dimensione della pagliuzza negli occhi del nostro fratello. Dalla nostra analisi si evince che il lato economico è totalmente ad uso e consumo della propaganda populista del Sì per accaparrarsi il voto degli indecisi. In luce di ciò, possiamo sbilanciarci concludendo che il lato economico della riforma sia pressoché irrilevante, e che occorre pertanto soffermarsi su quelle che sono le implicazioni tecniche e politiche della riforma oggetto di voto referendario.

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