La Corte Costituzionale ha affermato che ci sono dei valori supremi
sui quali si fonda la Costituzione, che non possono essere sovvertiti o
modificati nemmeno da leggi di revisione costituzionale. Questi principi
supremi affermati soprattutto nella prima parte della Costituzione sono
in gioco nella seconda, che ne dovrebbe garantire l’attuazione; ma
proprio questi sono ora disattesi o traditi nella riforma sottoposta al
voto popolare del 4 dicembre.
La sovranità popolare
I - Il
primo principio, che sta scritto all’inizio della stessa Costituzione, è
quello della sovranità popolare. Dice l’art. 1: “la sovranità
appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”. Questo principio è il fondamento di tutta la
Costituzione. In rapporto ad esso la Costituzione sta o cade.
La
statuizione di questo principio è frutto di secoli di lotte, è costata
lacrime e sangue, ed è il punto di svolta della storia dai regimi
assoluti a ordinamenti di libertà. Passare dalla condizione di sudditi a
quella di sovrani, cambia infatti la vita, cambia il destino delle
persone e dei popoli.
Che la sovranità sia di uno solo, di un
monarca o di tutti, è decisivo anche per l’alternativa suprema, che è
quella tra la guerra e la pace. Quando, più di un secolo fa, nel
settembre 1911 l’Italia dichiarò guerra alla Turchia per prendersi la
Libia, dando inizio a quel conflitto con l’Oriente e con l’Islam che
dura ancor oggi, tutto avvenne in segreto e come se niente fosse, col Re
che era in vacanza a San Rossore, Giolitti che se ne stava a Dronero e
il Parlamento che era chiuso per ferie. Nel 1944 quando nel
radiomessaggio del sesto Natale di guerra Pio XII fece la storica scelta
a favore della democrazia disse che forse, se avessero avuto la
democrazia, i popoli avrebbero potuto impedire la guerra. Nel 1969 un
popolo di sovrani in America e nel mondo diede vita a un grandioso
movimento pacifista che poi costrinse gli Stati Uniti a ritirarsi dal
Vietnam e a porre fine a quella guerra. Ciò mostra l’importanza del
principio della sovranità popolare.
Ora questo principio supremo è violato nella proposta di Costituzione sottoposta a referendum in molteplici modi.
Prima di tutto il Senato, che continuerà ad avere vastissime competenze
legislative e politiche, non sarà più eletto dal popolo; esso sarà
designato, checché dica il documento firmato da Cuperlo, da 904
consiglieri regionali, cioè da politici appartenenti alla nomenclatura e
ai partiti che comandano nelle Regioni.
In secondo luogo la
sovranità popolare è violata dalla elevatissima distorsione del rapporto
di proporzionalità tra i voti espressi dal popolo e i seggi attribuiti,
a causa della legge elettorale maggioritaria oggi vigente che trasforma
in modo ineguale i voti in seggi; si dice che sarà cambiata ma intanto
la riforma si vota con quella.
Il principio della sovranità
popolare è violato inoltre dalla dissuasione dalla partecipazione
politica (un manifesto del PD prometteva, in cambio del Sì al
referendum, la diminuzione dei “politici”).
E poi c’è il fatto
che una volta eletto il primo ministro con tutti i suoi deputati, per
il popolo sovrano non ci sarà più niente da fare per cinque anni,
essendo artificialmente assicurato un governo di legislatura, e dunque i
cittadini perdono di cinque anni in cinque anni il diritto sancito
dall’art. 49 della Costituzione di concorrere a determinare la politica
nazionale.
Inoltre è violato il principio che la sovranità
popolare si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, perché
tra queste forme e questi limiti la Costituzione prevede che il popolo
non elegga direttamente il presidente del Consiglio, ma che questo sia
nominato dal presidente della Repubblica; invece secondo la legge
elettorale connessa alla riforma costituzionale “il capo della forza
politica” che vince le elezioni e ottiene il premio di governabilità è
automaticamente, la sera stessa, acclamato come presidente del
Consiglio, anche se il presidente della Repubblica che secondo la
Costituzione lo dovrebbe nominare, sta dormendo.
Ma la lesione
più grave del principio di sovranità consiste nel portare a compimento
quel passaggio della sovranità dal popolo ai mercati che da tempo ci
chiedono la Trilaterale, Gelli, la banca Morgan, l’Europa, gli
ambasciatori americani: una riforma che appunto, come oggi si dice, era
attesa da trent’anni e che neanche Berlusconi era riuscito a realizzare.
Ma questo transito della sovranità dagli uomini ai mercati, è
precisamente ciò che depreca il papa quando denuncia la bancarotta di
una società in cui il denaro governa invece di servire e in cui vengono
salvate le banche ma non le persone.
Il lavoro come fondamento della Repubblica
II – Il secondo principio supremo, che figura nello stesso incipit
della Costituzione, è il principio lavorista, perché’ l’Italia è
concepita come una Repubblica fondata sul lavoro. È un principio
straordinario che attua il rovesciamento cristiano del servo in signore.
Il lavoro che era la schiavitù addossata al servo, è ora riconosciuto
come la dignità stessa dell’uomo. Questo principio, insieme con l’art. 4
che riconosce il diritto al lavoro e prescrive alla Repubblica, cioè
alla politica, di renderlo effettivo, fa sì che siano costituzionalmente
obbligatorie politiche di piena occupazione. La piena occupazione non è
un’opzione facoltativa, una variabile dipendente dalle scelte
ideologiche dei governanti, è un obbligo costituzionale, è ciò che la
Repubblica, secondo la Costituzione, non può non fare.
Ma questo
è impedito dall’art. 117 della nuova Costituzione che ribadisce in modo
ancora più stringente il vincolo già previsto nel testo oggi vigente,
stabilendo che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto “dei
vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea” (prima si
parlava con minore precisione di “comunità europea”). Ma l’ordinamento
dell’Unione Europea è un ordinamento che trasforma in regime la scelta
economica neo-liberista e l’ideologia della sovranità dei mercati. Esso
tutela la competizione e la concorrenza in quello che chiama il “mercato
interno”, che sarebbe poi la stessa Europa, e all’art. 107 proibisce
gli aiuti concessi dagli Stati o il trasferimento di risorse statali
alle imprese, cioè proibisce l’intervento dello Stato nell’economia,
sotto pena di una condanna da parte della Commissione europea o di un
giudizio davanti alla Corte di giustizia europea.
Ciò vuol dire,
tra le altre cose, che politiche di piena occupazione, che sarebbero
costituzionalmente dovute, sono costituzionalmente proibite da questa
seconda parte della Carta che vincola la legislazione ai diktat europei.
E proprio qui c’è il punto di caduta finale della nuova Costituzione.
Essa modifica la forma di Stato, perché svuota il sistema delle
autonomie restaurando il centralismo statale; modifica la forma di
governo perché trasforma il governo parlamentare in potere monocratico
elettivo di legislatura, come quello dei sindaci, e perciò in un
premierato mascherato; modifica i compiti e i fini della Repubblica,
perché come dice la relazione che accompagnava il disegno di legge di
riforma Renzi-Boschi, l’obiettivo è di adeguare la Repubblica “alle
nuove esigenze della governance europea e alle relative stringenti
regole di bilancio”; e queste tre modifiche della forma di Stato, della
forma di governo e dei fini della Repubblica nel loro insieme portano a
compimento il lungo processo, cominciato già qualche decennio fa, di
trasferimento della sovranità dal popolo ai mercati.
Una democrazia parlamentare
III – Il terzo principio fondamentale che è tradito dalla riforma è
quello per il quale la nostra non è una democrazia dell’investitura, ma è
una democrazia parlamentare. Nella democrazia parlamentare l’architrave
di tutto il sistema è l’istituto della fiducia, perché è grazie alla
fiducia del Parlamento che il governo può sorgere, ed è a causa della
perdita della fiducia che un governo può cadere, come è giusto che sia
se un governo, a giudizio della maggioranza parlamentare, invece del
bene comune produce un male comune.
Ma la riforma attacca e
sostanzialmente distrugge l’istituto della fiducia che non sarà più la
fiducia del Parlamento, perché a metà del Parlamento, che resta
bicamerale, cioè al Senato, questo potere viene tolto; e quanto alla
fiducia che resterà nel potere della sola Camera, essa non sarà più una
fiducia parlamentare, ma un atto interno di partito, perché un solo
partito, il cui segretario o il cui capo sarà il presidente del
Consiglio, grazie alla legge elettorale disporrà di 340 voti alla
Camera, sicché la fiducia sarà non il frutto di una valutazione
politica, ma una atto dovuto per disciplina di partito.
Per cui ci sarà, almeno formalmente, una democrazia, ci sarà un Parlamento, ma non ci sarà più una democrazia parlamentare.
Il ripudio della guerra
IV – Il quarto principio supremo tradito dalla riforma è il principio
pacifista, per il quale l’Italia ripudia la guerra, ogni guerra che non
sia quella corrispondente al “sacro dovere” della difesa della Patria,
inteso come popolo e territorio. Tale principio avrebbe dovuto semmai
avere maggior tutela, dopo che il Nuovo Modello di Difesa varato nel
1991, ha spostato i confini fino ai pozzi di petrolio, alle dighe e ai
popoli del Medio Oriente e la patria è stata identificata con gli
interessi economici dell’Occidente da difendere anche militarmente in
tutto il mondo globalizzato.
Invece la riforma rende più facile e
mette in mano ad una sola persona la scelta della deliberazione di
guerra, dalla quale il Senato, cioè mezzo Parlamento, è proprio quello
che secondo i riformatori dovrebbe più direttamente rappresentare le
popolazioni locali, è tagliato fuori; la semplificazione che dà più
estesi e più facili poteri al presidente del Consiglio funzionerà anche
per la decisione sull’impiego delle Forze Armate e sulla guerra, e la
sovranità popolare sarà completamente esclusa dalla decisione sulla pace
e sulla guerra.
Il principio internazionalista
V – Il
quinto principio supremo abbandonato nella riforma è il principio
internazionalista, perché in tutte le nuove norme che riguardano la
formazione e l’attuazione delle prescrizioni dell’Unione Europea non c’è
il minimo accenno ad una intenzione riformatrice degli stessi Trattati
Europei per guardare al di là dell’Europa ai fini della costruzione di
un ordine di pace e di giustizia fra le Nazioni.
Inoltre non c’è
il minimo accenno a una riforma del diritto di asilo e a un’accoglienza
degli stranieri e dei migranti secondo le nuove dimensioni del fenomeno
che secondo alcune stime arriverà a coinvolgere 250 milioni di profughi,
di fuggiaschi, di rifugiati nell’anno 2050.
Né c’è il minimo
accenno all’ultima discriminazione che una Costituzione democratica
dovrebbe abolire: la discriminazione della cittadinanza, la quale limita
i diritti fondamentali e l’esercizio dei diritti politici e sociali ai
soli cittadini, con l’esclusione degli stranieri. Una vera riforma del
Senato sarebbe una riforma che non ne facesse l’ultima trincea dei
vecchi localismi, ma ne facesse un Senato dei popoli, dove sedessero i
rappresentanti non solo dei cittadini, ma delle persone di tutte le
nazioni, le lingue e le culture che abitano in Italia e dormono sotto il
suo cielo.
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