giovedì 16 giugno 2016

Integrazione europea e globalizzazione: una camicia troppo stretta

L’Europa nelle bocche degli europeisti è sempre un sogno, d’altronde anche i romani chiamavano pace il loro dominio. Eppure, di questi tempi, sempre più persone si svegliano di soprassalto, come dopo un brutto incubo, e votano partiti euroscettici. Forse perché la pax inizia ad assomigliare, agli occhi dei più, per ciò che è sempre stata e doveva necessariamente essere dati i suoi presupposti teorici: una forma d’imperio auto-burocratico, dunque anti-democratico. Eppure qualche oscuro meccanismo a cancello blocca le sinapsi cerebrali di molti ancora, quelli che ancora invocano “più Europa”. E allora forse è il caso di indagarlo a fondo, questo “più Europa”.
Le motivazioni addotte generalmente dagli europeisti per giustificare quella che presentano come una necessità ma in realtà è una scelta politica sono riducibili sostanzialmente a due. La prima: l’Europa ci ha salvati da un’altra (l’ennesima) guerra. La seconda: c’è la globalizzazione, più grossi siamo meglio è, altrimenti conteremmo come il famigerato due di coppe.
Entriamo nel dettaglio. La prima è facilmente smontabile. L’Unione Europea come garanzia di pace è un falso storico, visto che l’Unione c’è dal ’93, la pace dal ’45. Guarda caso, da quando in Europa si trovano stanziate cospicue quantità di soldati americani e (fino a non troppo tempo fa) sovietici. E’ stata l’occupazione militare a garantire la pace in Europa, il processo d’integrazione ne è stata una conseguenza. Roma docet, nuovamente. Anche i romani garantivano il quieto vivere (e il prosperar dei mercanti) alle popolazioni soggiogate, in cambio per l’appunto li soggiogavano. Questo non tutelò comunque i cittadini dello sterminato impero dalle guerre civili, né impedì rivolte indipendentiste né invasioni esterne. E’ stato il mutamento dei rapporti di forza a far uscire la guerra dall’Europa, più che l’Europa dalla guerra, e ci hanno messo del loro anche americani e russi che hanno preferito evitare il reciproco annichilimento, impegnandosi al più a schermaglie differite in remoti angoli dell’Asia. Venuto meno il contrappeso, caduto il muro, che rischi c’erano di guerra? Pochi, il mondo e l’Europa erano cambiati molto rispetto a cinquant’anni prima. Lo strapotere americano non era svanito come quello sovietico. Dunque i margini di manovra sarebbero stati minimi, anche se qualche opinione pubblica del Vecchio Continente avesse malauguratamente deciso di spingere verso un riarmo improbabile di un esercito scalcagnato. A maggior tutela della pace, erano cambiate le stesse opinioni pubbliche, ormai decisamente pacifiste come le élites che le controllano, più impegnate a fare affari che a riesumare gli apparati militari-industriali. E’ indubbio comunque che aver raggiunto un certo grado di integrazione economica, in ottica futura, sia una buona garanzia. Era dunque necessario spingere ulteriormente un’integrazione che aveva già dato buoni frutti?
Sì, lo era, per la seconda ragione. C’è la globalizzazione, ragazzi, direbbe un Bersani qualunque. Quindi ci serve un grosso mercato interno per tutelarci dai possibili shock esterni e dalla competizione internazionale. Peccato che per l’appunto ci sia la globalizzazione, che guarda caso prevedere proprio un’integrazione globale dei sistemi economici (e non solo europea dunque) e rende mercato il mondo intero. Paradossalmente, i Paesi che fanno meglio nella competizione globale sono proprio quelli piccoli e flessibili, non quelli grossi e rigidi. Dunque la seconda motivazione cade di fronte agli accordi di Marrakech, anzi, ha provocato con l’irrigidimento del cambio i disastri che stiamo vivendo oggi. Eppure gli europeisti non mollano, perché si sa, size matters. D’Alema l’ha detto spesso: se vogliamo contare qualcosa quando e dove si prendono le decisioni globali, dobbiamo stare assieme. Tradotto, se vogliamo competere geopoliticamente con Stati Uniti, Cina, India e Russia ci serve l’Europa unita. E questo va direttamente in contraddizione col punto uno. Forse ci eviterebbe l’ennesima guerra intra-europea, ma la competizione tra grandi blocchi rischia di portare al primo conflitto veramente globale.
C’è un terzo aspetto veramente interessante che dimostra la miopia politica degli europeisti. Il tempismo è stato pessimo. Quarant’anni hanno avuto a disposizione per realizzare una qualche forma d’integrazione politica minimamente efficiente e magari democratica. Non l’hanno fatto, probabilmente perché temevano di doversi scontrare con un’opinione pubblica cresciuta e formatasi ancora all’ombra del nazionalismo, dunque restia ad un passo del genere. Hanno quindi preferito procedere a piccoli passi, erodendo la sovranità un pezzettino alla volta, finché il processo non fosse arrivato al punto di essere irreversibile e il ricambio generazionale avesse consentito l’avvento di un’opinione pubblica con un diverso orizzonte valoriale. Peccato che nel mentre sia arrivato l’altro grande sogno contemporaneo, la globalizzazione, che ha fregato la classe politica europea e ancor di più i popoli d’Europa.
Thomas Friedman, columnist del NY Times e noto pro-global, lo spiega molto bene. Lui lo chiama Golden Straitjacket, una serie di politiche da attuare entrando nel mercato globale. Più indossi la camicia di forza, più la tua economia cresce e la tua politica si rimpicciolisce, perché devi fare ciò che piace all’Electronic Herd per attirare investimenti. Chiaramente la mandria sono i grandi fondi d’investimento, le grandi corporation, i grandi patrimoni, e altrettanto chiaramente le politiche che garantirebbero la crescita eterna sono quelle attuate in quasi tutto il mondo negli ultimi trent’anni. Dunque privatizzazioni, liberalizzazioni, austerità di bilancio, dumping fiscale, dumping salariale, dumping sociale, libera circolazione dei capitali, in sostanza quella che è stata la politica italiana dal ’90 ad oggi. A quel punto, con la politica (e lo Stato) che non esiste più, perché ha volontariamente rinunciato agli strumenti di controllo dell’economia (politica commerciale, politica fiscale, politica monetaria, impresa pubblica) puoi fare solo una cosa, perseverare in quella direzione per attirare ancora più investimenti. Nel mentre la tua identità culturale e la tua equità sociale hanno deciso di emigrare anch’esse. In Italia (e in Europa) il meccanismo è stato favorito e spinto alle estreme conseguenze dall’integrazione europea stessa, che apparentemente sarebbe dovuta servire come cuscinetto contro gli effetti nefasti della globalizzazione. E’ stata la stessa Unione a costituire quel vincolo esterno che imponeva ai governo nazionali scelte impopolari. Bruxelles è diventata volontariamente il parafulmine, all’interno di un disegno più grande.
Quel che è più importante è che volenti o nolenti l’Europa politica non potrà mai nascere, non finché ci sarà la globalizzazione, perché questa non ammette l’esistenza della politica. Si tratta di un’antitesi insanabile, e lo spiega molto bene Dani Rodrik, economista di Harvard. Lo chiama Globalization Trilemma. Hai un triangolo, ai tre vertici si trovano sovranità nazionale, democrazia ed economia globalizzata. I tre lati sono Golden Straitjacket, Bretton Woods e Global Governance. Non puoi avere tutte e tre le cose contemporaneamente, al massimo solo due attraverso lo strumento necessario, cioè il lato. Se vuoi sovranità e democrazia, devi tornare a Bretton Woods, alle limitazioni della circolazione dei capitali e del commercio; se vuoi avere democrazia e globalizzazione devi avere una governance globale, altrimenti hai competizione al ribasso tra Stati e scelte obbligate; se vuoi avere globalizzazione e sovranità, hai appunto una sovranità apparente, finalizzata all’integrazione dei mercati attraverso il Golden Straitjacket, che ti obbliga però ad ignorare qualunque esigenza interna, dunque cancella de facto la democrazia. Noi abbiamo scelto quest’ultima via, anzi, ce l’ha imposta Bruxelles, a colpi di direttive dettate da funzionari mai eletti.

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