Rappresentano l’8,2 per cento della popolazione che vive e risiede
in Italia e, in barba alle derive (interne e internazionali) di rifiuto e
chiusura, gli immigrati sono accolti secondo un modello di integrazione
che funziona. Forse meno intenzionale rispetto a quello di altri Stati e
meno rumoroso ma, alla prova dei fatti, certamente più capace di
evitare fenomeni di involuzione patologica, verificatisi, di contro,
altrove.
E, invece, cinque milioni di stranieri, appartenenti a centonovantasette comunità diverse, si sono silenziosamente integrati nei microcontesti della quotidianità. Partendo da situazioni di irregolarità e precarietà, arrivano a costituire una risorsa per le imprese che richiedono manodopera flessibile e a bassa qualificazione, divenendo le maglie principali delle reti di welfare famigliare.
Addirittura, giungono a omologarsi a comportamenti socioeconomici tipicamente italiani, tipo la propensione alla microimpresa, nelle costruzioni come nel commercio e nella ristorazione. Nel primo trimestre del 2016, per esempio, i titolari di impresa risultano essere quattrocentoquarantamila, cresciuti del 49 per cento dal 2008 a oggi; diversamente, i colleghi italiani, contestualmente, diminuivano dell’11,2 per cento.
Per questo, in barba a chi grida terroristicamente al collasso causa i massicci afflussi, l’Italia, senza di loro, sarebbe un Paese più piccolo, con più anziani e meno giovani - esattamente due milioni e seicentomila minori e under-trentacinque - meno vitale, con meno welfare e ridotte prospettive di futuro. E, suonerà strano, anche con meno posti di lavoro per gli italiani. Come se non bastasse, gli immigrati lavorano e contribuiscono, quando non sono costretti a trattamenti in nero, a sostenere il nostro sistema previdenziale senza, almeno fino a questo momento, beneficiarne affatto.
Basta vedere i trattamenti previdenziali: i migranti che percepiscono una pensione in Italia sono centoquarantunomila e raggiungono a malapena l’1 per cento sul totale degli oltre sedici milioni di pensionati italiani e sono circa il 4 per cento di coloro che godono di altre prestazioni di sostegno del reddito, quali mobilità e indennità di disoccupazione.
Davanti all’eclissi dei minori e all’emorragia dei giovani, gli stranieri rappresentano un importante serbatoio di energie. Mostrano un’alta propensione a fare figli: dal 2008 a oggi, infatti, le nascite sono cresciute del quasi 4 per cento contro una riduzione del circa 20 per cento di quelle per i genitori italiani. Un’integrazione dal basso che prende il via dalla scuola: gli alunni stranieri, in tutti i gradi degli istituti italiani, sono in continua crescita, nel 2015 rappresentavano il 9 per cento del totale, aiutando ad alimentare il sistema scolastico perché garantiscono il mantenimento di classi e il conseguente impiego di insegnanti che, al netto degli studenti stranieri, sarebbero il 9,5 per cento in meno.
Buona vita ai figli dell’immigrazione, più transnazionali dei giovani italiani per aver vissuto in un orizzonte globale e multiculturale. Non gliene vogliano, gli ottusi connazionali.
E, invece, cinque milioni di stranieri, appartenenti a centonovantasette comunità diverse, si sono silenziosamente integrati nei microcontesti della quotidianità. Partendo da situazioni di irregolarità e precarietà, arrivano a costituire una risorsa per le imprese che richiedono manodopera flessibile e a bassa qualificazione, divenendo le maglie principali delle reti di welfare famigliare.
Addirittura, giungono a omologarsi a comportamenti socioeconomici tipicamente italiani, tipo la propensione alla microimpresa, nelle costruzioni come nel commercio e nella ristorazione. Nel primo trimestre del 2016, per esempio, i titolari di impresa risultano essere quattrocentoquarantamila, cresciuti del 49 per cento dal 2008 a oggi; diversamente, i colleghi italiani, contestualmente, diminuivano dell’11,2 per cento.
Per questo, in barba a chi grida terroristicamente al collasso causa i massicci afflussi, l’Italia, senza di loro, sarebbe un Paese più piccolo, con più anziani e meno giovani - esattamente due milioni e seicentomila minori e under-trentacinque - meno vitale, con meno welfare e ridotte prospettive di futuro. E, suonerà strano, anche con meno posti di lavoro per gli italiani. Come se non bastasse, gli immigrati lavorano e contribuiscono, quando non sono costretti a trattamenti in nero, a sostenere il nostro sistema previdenziale senza, almeno fino a questo momento, beneficiarne affatto.
Basta vedere i trattamenti previdenziali: i migranti che percepiscono una pensione in Italia sono centoquarantunomila e raggiungono a malapena l’1 per cento sul totale degli oltre sedici milioni di pensionati italiani e sono circa il 4 per cento di coloro che godono di altre prestazioni di sostegno del reddito, quali mobilità e indennità di disoccupazione.
Davanti all’eclissi dei minori e all’emorragia dei giovani, gli stranieri rappresentano un importante serbatoio di energie. Mostrano un’alta propensione a fare figli: dal 2008 a oggi, infatti, le nascite sono cresciute del quasi 4 per cento contro una riduzione del circa 20 per cento di quelle per i genitori italiani. Un’integrazione dal basso che prende il via dalla scuola: gli alunni stranieri, in tutti i gradi degli istituti italiani, sono in continua crescita, nel 2015 rappresentavano il 9 per cento del totale, aiutando ad alimentare il sistema scolastico perché garantiscono il mantenimento di classi e il conseguente impiego di insegnanti che, al netto degli studenti stranieri, sarebbero il 9,5 per cento in meno.
Buona vita ai figli dell’immigrazione, più transnazionali dei giovani italiani per aver vissuto in un orizzonte globale e multiculturale. Non gliene vogliano, gli ottusi connazionali.
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