giovedì 30 giugno 2016

Crisi, dopo i dati sul calo di imprese e famiglie Confesercenti prevede una ulteriore frenata dei consumi a fine anno

Si conferma la tendenza al peggioramento del clima di fiducia delle famiglie italiane. A giugno l'indice scende per il terzo mese consecutivo, un calo prolungato che potrebbe prefigurare una frenata dei consumi nel corso della seconda meta' dell'anno. E' l diagnosi dell'economia italiana che fa Confesercenti commentando i dati sulla fiducia diffusi dall'Istat in mattinata.
"Il segnale lanciato dai cittadini - sostiene Confesercenti - e' rafforzato dai dati sulla fiducia delle imprese, che mostrano un andamento al ribasso analogo a quello delle famiglie, anche se meno lineare. Colpito con particolare intensita' il commercio al dettaglio, che a giugno segna la quarta riduzione consecutiva dell'indice. A pesare sono le valutazioni delle imprese sull'andamento delle vendite, che negli ultimi mesi sono apparse improntate ad una maggiore prudenza, in contrasto con il costante miglioramento registrato sino ad inizio anno. Una prudenza ispirata dalla situazione di sostanziale stallo in cui pare entrato il mercato interno: da diversi mesi ormai le vendite al dettaglio continuano a registrare una stabilizzazione al ribasso, senza lasciare intravedere una chiara inversione di tendenza. E anche la domanda di autovetture, pure in prossimita' di volumi di vendita relativamente elevati, si sta assestando.

Confesercenti ribadisce la necessita' di "un ulteriore alleggerimento del fisco che grava su famiglie e imprese: il percorso di riduzione della pressione fiscale iniziato dal Governo, sottolineato dal Ministro Padoan anche oggi, deve accelerare. Solo cosi' potremo evitare un
consolidamento del clima di incertezza che potrebbe avere conseguenze negative gia' a partire dalla prossima stagione
autunnale".

mercoledì 29 giugno 2016

Che accadrà all’Europa dopo il trionfo della ‘Brexit’?

Dopo il trionfo della ‘Brexit’ nel referendum tenutosi il 23 giugno, l’economia mondiale è entrata in una grave turbolenza: miliardi di dollari sono scomparsi nelle principali borse in poche ore, tanto che i rischi dell’esplosione di una nuova crisi bancaria in Europa sono aumentati. Secondo Ariel Noyola, il rapido collasso del progetto d’integrazione europea sembra piuttosto improbabile perché, anche se in molti Paesi è già stato richiesto il referendum per lasciare l’Unione Europea, la maggior parte dei Paesi dell’Europa continentale fa anche parte dell’eurozona e finora, fatta eccezione per i partiti politici di estrema destra, non ci sono forze politiche disposte ad abbandonare la moneta comune.
Anche se i principali sondaggisti hanno pubblicizzato per diverse settimane che gli inglesi erano convinti della permanenza nell’Unione europea, la posizione a favore dell’uscita del Regno Unito (chiamata ‘Brexit’) infine è prevalsa nel referendum tenutosi il 23 giugno con un margine di quasi quattro punti: 51,9 per cento a favore e 48,1 per cento contro. Sorprendentemente, il primo ministro David Cameron ha in seguito annunciato le dimissioni; il commercio di sterline ha registrato i dati peggiori dal 1985 e i principali mercati azionari sono crollati. Sia nella regione Asia-Pacifico che in Europa i mercati azionari sono scesi tra il 6 e il 10 per cento. In breve, l’imminente uscita del Regno Unito dell’Unione europea ha aperto una nuova fase di grande incertezza in un momento di estrema vulnerabilità per l’economia mondiale.
La crisi finanziaria mondiale
Ai primi di giugno, la Banca Mondiale ha abbassato di nuovo la previsione di crescita dell’economia globale nel 2015 a 2,9-2,4 per cento; il Fondo monetario internazionale (FMI) da parte sua, ha recentemente avvertito che il nazionalismo economico può minare la libera circolazione dei flussi commerciali e d’investimento tra i Paesi, mentre la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) controlla molto da vicino i rischi alla base di una nuova ‘guerra valutaria’. La cooperazione monetaria internazionale vive una delle peggiori sfide e così, con il rischio che i mercati del credito si restringano di volta in volta, Mario Draghi della Banca centrale europea (BCE) e Mark Carney della Banca d’Inghilterra, sono venuti alla ribalta per chiarire che avrebbero risparmiato risorse per garantire la stabilità finanziaria. In giornata, soprattutto dopo i primi segni che la ‘Brexit’ aveva trionfato alle urne, la BCE è intervenuta con violenza nel mercato del debito sovrano per evitare un’escalation dei premi di rischio sulle obbligazioni delle economie periferiche: Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, ecc. Nel frattempo, la Banca d’Inghilterra aveva già preparato una potente batteria di 250 miliardi di sterline per difendere il tasso di cambio contro gli attacchi degli speculatori. La Federal Reserve System (FED) da parte sua, sotto il comando di Janet Yellen, ha lanciato una serie di linee di credito (‘scambio’) per fornire liquidità aggiuntiva alle altre banche centrali del Gruppo dei 7 (formato da Germania, Canada, il Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone e Regno Unito), se la volatilità dei mercati finanziari andasse fuori controllo. Ma i piani d’emergenza delle autorità monetarie erano insufficienti. I mercati azionari globali hanno registrato perdite per oltre 2 miliardi di dollari in 24 ore. Va inoltre notato che il crollo della sterlina ha precipitato la massiccia fuga di capitali dal portafoglio della London Stock Exchange, che subito si rifugiavano a Wall Street. Di fronte alle turbolenze finanziarie, gli investitori azionari cercano maggiore sicurezza nei fondi in dollari e metalli preziosi che servono da riserva di valore, come oro e argento, per esempio. Tuttavia, i massicci acquisti di dollari non hanno fatto altro che approfondire la debacle dei prezzi di altre materie prime (‘commodities’), già molto bassi rispetto agli anni precedenti il 2009. Per esempio, i prezzi del petrolio di riferimento internazionale, West Texas Intermediate (WTI) e Brent, che salivano ad aprile e maggio, sono scesi di nuovo. I prezzi del petrolio sono ora sotto i 50 dollari al barile, una situazione che aggrava la deflazione (prezzi in calo) e che, in combinazione con il trend della bassa crescita del prodotto interno lordo (PIL) e col crollo dei vantaggi finanziari, aumenta esponenzialmente il rischio di una nuova crisi bancaria in Europa.
La ‘Brexit’ non significa necessariamente la fine dell’integrazione europea
Il voto per la ‘Brexit’ ha rivelato l’enorme rifiuto dell’integrazione europea. La politica economica nel Regno Unito ha sostanzialmente seguito lo stesso modello degli altri Paesi dell’Europa continentale: liberalizzazione indiscriminata degli scambi di beni e servizi, deregolamentazione finanziaria e politica del lavoro che ha paralizzato l’aumento salariale, con l’obiettivo di eliminare i benefici sociali dei lavoratori. E’ chiaro che il sogno di un’Europa democratica, sociale e solidale sia proprio tale, una fantasia. Lo ‘Stato sociale’ costruito dopo la seconda guerra mondiale è oggi in gran parte smantellato. La qualità di una democrazia non può essere valutata esclusivamente da un referendum e dal rispetto dei risultati del governo. Democrazia significa, prima di tutto, partecipazione diretta alle decisioni importanti che riguardano la società, sia nell’economia che nella vita politica. Ed è qui che la costruzione dell’Unione europea ha grossi difetti: il disegno del piano d’integrazione è diventata questione riservata alle élite economiche. Le grandi aziende sono i principali beneficiari della realizzazione di un ‘mercato comune’, insistendo nell’approvare al più presto possibile l’Accordo transatlantico commerciale e degli investimenti (TTIP, nell’acronimo in inglese) promosso dal governo Stati Uniti, e promuovendo l’offensiva dell’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (NATO). E’ vero che l’Europa ha urgente bisogno di una riprogettazione istituzionale, senza dubbio. Infatti, dopo il trionfo della ‘Brexit’ in molti Paesi si è proposto il referendum per lasciare l’Unione europea; tuttavia si tenga conto che la maggior parte dei Paesi europei continentali fa anche parte dell’eurozona, e così non era per il Regno Unito che ha sempre rifiutato di adottare la moneta comune. E finora le forze progressiste in Europa non hanno proposto di abbandonare l’euro. Ricordiamo ad esempio il caso della Grecia nel 2015: con un governo di sinistra, la troika (composta da Banca centrale europea, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale) ha respinto tutte le proposte del programma economico di Syriza. Anche se il governo greco indisse un referendum per rifiutare le condizioni inique del terzo programma di salvataggio, l’austerità fiscale alla fine s’è imposta di nuovo. Il Primo ministro Alexis Tsipras è sempre riluttante a far lasciare l’eurozona alla Grecia (la cosiddetta ‘Grexit’), essendo finora impossibile avviare una politica economica alternativa e allo stesso tempo andare incontro le richieste della troika. A mio avviso, il grande dramma che vive l’Europa in questo momento è che i sostenitori dell’abbandono dell’euro e quindi dell’Unione Europea, sono i leader dei partiti politici dell’estrema destra che usano la retorica xenofoba per distogliere l’attenzione dalle vere cause della crisi e, diciamo chiaramente, non hanno alcuna intenzione di far rinascere

martedì 28 giugno 2016

Mai più senza banca. Il dominio completo

La Banca Mondiale guida la cordata dell’onnipotente lobby che predica l’inclusione finanziaria per tutti gli abitanti del pianeta. Servirebbe, dicono i portavoce della finanza, a combattere il riciclaggio e il narcotraffico. La vera ambizione, però, è quella di ridurre a cifre trascurabili il numero dei refrattari ai servizi offerti dalle banche e dei poveri che rifiutano di aprire un conto. Si potrebbe finalmente sancire così la dipendenza dal sistema bancario dell’intera popolazione mondiale. Il passo successivo del controllo dettagliato e di un dominio veramente completo sarebbe l’eliminazione dell’uso dei contanti. Raúl Zibechi analizza le possibili ragioni della mancanza di una discussione seria tra chi si oppone al dominio del denaro sulle persone su un tema tanto decisivo per l’affermazione del capitale finanziario a spese delle fasce sociali più deboli e della vita stessa
di Raúl Zibechi - L’inclusione finanziaria è una delle principali iniziative neoliberali: perciò è difficile accettare lo scarso dibattito esistente tra coloro che si proclamano nemici di questo modello incentrato sul dominio del capitale finanziario. La Banca Mondiale (BM) è la principale promotrice dell’inclusione finanziaria, con l’obiettivo che tutta la popolazione del mondo dipenda dal sistema bancario che, da parte sua, intende eliminare il denaro fisico.
La tesi iniziale era che l’inclusione finanziaria è necessaria per la lotta al riciclaggio del denaro e al narcotraffico. In seguito, la stessa banca è andata aggiungendo nuove argomentazioni, molto simili a quelle che utilizza per la “lotta alla povertà”. Nel 2015, sulla sua pagina web diceva: “Due miliardi di persone, ovvero il 38 per cento degli adulti nel mondo, non utilizzano i servizi finanziari formali e una percentuale ancora maggiore di poveri non ha un conto in banca”.
La Banca Mondiale difende le tesi secondo cui l’inclusione finanziaria contribuisce a ridurre la povertà, a “conferire maggior autonomia alle donne” e a “promuovere la prosperità condivisa”. Tra i suoi obiettivi c’è quello che tutte le entrate e le spese dei settori popolari siano effettuati per via elettronica e incoraggia il pagamento delle prestazioni sociali non in contanti, bensì attraverso il sistema bancario, così come già avviene in diversi paesi.
A breve termine, la Banca Mondiale punta a “raggiungere un altro miliardo di persone, che oggi si ritrovano escluse dal sistema finanziario” e utilizza perfino la parola chiave “esclusione”, per dare l’impressione che si tratti di persone con carenze e che l’accesso ai servizi finanziari sia la chiave per la loro inclusione come cittadini. Il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim, ha imposto degli obiettivi per offrire l’accesso universale ai servizi finanziari a tutti gli adulti in età lavorativa, al massimo nel 2020.
L’obiettivo è portare avanti la bancarizzazione nei paesi emergenti e del sud del mondo. Negli Stati Uniti e in Europa, le persone che non hanno un conto in banca sono meno del 20 per cento, cifra che in America Latina arriva al 50 per cento e in diversi paesi dell’Africa supera l’80 per cento della popolazione.
Quello che a dir poco colpisce è che i governi progressisti abbiano adottato questa politica senza aver preventivamente aperto una discussione. In Brasile, tra il 2001 e il 2015, il salario è cresciuto dell’80 per cento ma il credito individuale è aumentato del 140. Il risultato è una crescita esponenziale del consumismo e dell’indebitamento delle famiglie: nel 2015, il 48 per cento del loro reddito era destinato al pagamento dei debiti, rispetto al 22 per cento del 2006.
L’inclusione finanziaria è il primo passo verso l’eliminazione del denaro fisico: con ciò dipenderemo tutti dalla banca e dal sistema finanziario, annullando o rendendo estremamente difficile la nostra autonomia individuale e collettiva. Si tratta di una forma “micro” del dominio a tutto tondo. In diversi paesi, come l’Uruguay, sono già state imposte delle limitazioni alla quantità di denaro che si può prelevare dai bancomat e quest’anno i viaggi in taxi devono essere pagati con carte di debito o credito.
In Germania c’è una campagna contro l’eliminazione del denaro fisico, con lo slogan “Il contante ti protegge dal controllo dello Stato”. Diversi gruppi politici condannano le limitazioni sul denaro contante. Konstantin von Notz, deputato del Partito dei Verdi, ne ha spiegato le ragioni sul suo profilo Twitter: “Nelle operazioni di ogni giorno, il contante ci permette di rimanere nell’anonimato. In una democrazia costituzionale, è una libertà che deve essere difesa” (The Guardian).
I dati mostrano una chiara divergenza tra il comportamento dei tedeschi e quello di altri cittadini di paesi sviluppati. Nel 2013, in Germania, solamente il 18 per cento dei pagamenti sono stati effettuati tramite carte bancarie, a fronte del 59 per cento in Gran Bretagna, del 54 per negli Stati Uniti e del 50 in Francia; ogni cinque fatture, quattro sono pagate con banconote e monete.
Ritengo che ci siano due ragioni per cui l’inclusione finanziaria e la scomparsa del denaro fisico non fanno parte delle discussioni necessarie al pensiero critico latinoamericano, tra le sinistre e i movimenti popolari.
La prima è la scelta di non mettere in discussione le attuali basi del capitalismo, cioè di non mettere sotto i riflettori quel famoso uno per cento della popolazione, sebbene i discorsi dicano il contrario. Il capitale finanziario gioca un ruolo centrale nel mondo attuale e contendergli il potere comporta il fatto di giocare forte, tanto da mettere a rischio il mantenimento delle poltrone presidenziali e i benefici che solitamente hanno i dirigenti politici, dal momento che questo settore detiene una grande capacità di provocare crisi e di accelerare la caduta di qualsiasi governo.
Attraversiamo un periodo di adattamento al sistema da parte delle sinistre e del progressismo. È più facile criticare l’imperialismo in astratto che lavorare con le proprie basi sociali intrappolate nel consumismo – e quindi, attraverso la banca, con il capitale finanziario – affinché superino la cultura del consumo. La sconfitta culturale nel campo popolare ha portato a rifiutare il conflitto come fonte dei cambiamenti e a sovrastimare la questione elettorale.
La seconda ragione riguarda appieno il pensiero e i pensatori critici. Si può definire come l’incapacità di andare contro il senso comune, l’adattarsi alla realtà e il non mettere in discussione le idee egemoniche tra i settori popolari a causa della mancanza di coinvolgimento con loro. È impossibile avanzare se non si è capaci di nuotare controcorrente, il che evidentemente implica un certo isolamento, sia dalle istituzioni statali che dalla parte di popolazione che ancora crede in esse.
Se il capitale riesce a consolidare un tipo di società basata sul consumo di massa, avrà trovato la soluzione al principale ostacolo per il suo dominio: l’esistenza di eterogeneità strutturali e sociali. Anche se una parte della sinistra pensa che si tratti di residui del passato, senza mercati ambulanti, tequio [lavoro collettivo svolto dagli abitanti di un villaggio a favore della comunità] e reciprocità non possiamo nemmeno sognare di superare il capitalismo.

Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo Inclusión financiera y dominación de espectro completo.
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento, è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo, a cominciare dal Messico, dove Zibechi scrive regolarmente per la Jornada. In Italia ha collaborato per oltre dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. L’edizione italiana del suo ultimo libro, “Alba di mondi altri” è stata stampata in Italia nel luglio 2015 dalle edizioni Museodei.

lunedì 27 giugno 2016

Una lezione di democrazia

La lezione di democrazia è la cosa più importante e si articola su più livelli. Dobbiamo apprezzare la decisione del Primo Ministro britannico, David Cameron, di lasciare che le diverse posizioni divergenti si esprimessero, anche all’interno dello stesso partito conservatore e del governo. Allo stesso modo dobbiamo apprezzare la maturità degli elettori britannici che, pur legittimamente sconvolti dalla tragedia dell’omicidio della deputata laburista Jo Cox non si sono lasciati sopraffare dalle emozioni e hanno mantenuto ferme le loro posizioni in favore di un’uscita dall’UE.
Va detto che non tutto è stato perfetto in questa campagna elettorale. Ci sono stati degli eccessi da entrambe le parti, ci sono state bugie, come quelle di George Osborne [1], il Ministro delle Finanze, e di tutti quelli con licenza di catastrofismo dalla parte di Bruxelles. La copertura mediatica è stata sbilanciata in favore del “Remain”, ma meno di quanto sarebbe avvenuto se il voto si fosse tenuto in Francia [2]. Era evidente come l’élite finanziaria stesse facendo una campagna isterica affinché il Regno Unito votasse per restare nell’UE. E questa cerchia di persone ha in mano la vera arma da guerra: i soldi. Ma abbiamo visto anche come gli elettori non si siano lasciati particolarmente influenzare dal potere del denaro e dagli argomenti che le autorità hanno riversato sui media. Il successo della Brexit può in questo senso essere paragonato al successo che ebbe il “No” al progetto del Trattato Costituzionale Europeo nel Referendum del 2005 in Francia. In entrambi i casi un elettorato popolare e operaio ha resistito contro le autoproclamate “élite” e i giornalisti a loro libro paga. Il nuovo leader del partito laburista, Jeremy Corbyn, che ha fatto campagna a favore del “Remain”, dell’UE, è stato sconfessato da una parte importante del suo elettorato. Entrambi i referendum riflettono la vitalità dei sentimenti democratici da entrambi i lati della Manica. Il referendum britannico, inoltre, si è dimostrato un vero e proprio colpo per il Presidente degli Stati Uniti, che alcune settimane fa aveva viaggiato in Gran Bretagna per invitare gli elettori a rimanere nell’Unione Europea, a testimonianza di quale sia la vera natura dell’UE.
Come ultimo elemento di questa lezione di democrazia, David Cameron ha detto di avere compreso la decisione del popolo britannico e che questa sarà rispettata, che avrebbe avviato il processo legale per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE. Anche qui c’è una importante differenza con il comportamento delle élite politiche francesi, che hanno continuamente messo in atto decisioni che erano ampiamente respinte dal loro elettorato.
Ritorno delle Nazioni e negazione della realtà
Questa lezione di democrazia avrà delle conseguenze importanti per il futuro. Non tanto in termini di conseguenze finanziarie. Le turbolenze dei mercati finanziari dureranno qualche giorno, poi si calmeranno quando gli operatori di borsa si accorgeranno che il voto non interrompe di certo i flussi di merci o la produzione. La Norvegia e la Svizzera non sono membri dell’UE, e non se la passano male, se guardiamo le statistiche economiche. Le conseguenze più importanti saranno, evidentemente, politiche.
Dobbiamo ricordare che questo è il primo voto con il quale un paese membro dell’UE, e prima ancora della Comunità Economica Europea, cioè quello che viene chiamato il mercato comune, prende la decisione democratica di separarsi da questa istituzione. L’impatto sarà importante sia perché costituisce un precedente, sia perché può dare luogo a imitazioni. Si può già vedere come in altri paesi, quali l’Olanda, la Danimarca o la stessa Francia, questo voto stia dando ispirazione ai diversi partiti euroscettici. Oltre alla vittoria nelle elezioni amministrative italiane del Movimento 5 Stelle, cosiddetto “populista” di Beppe Grillo, o la sconfitta sul filo del rasoio del candidato del Partito delle Libertà alle elezioni presidenziali in Austria (ma questo risultato è ora oggetto di un ricorso), la Brexit mostra che è in atto una forma di ribellione verso l’Unione Europea. Le cose si muovono, come abbiamo potuto vedere nello studio realizzato dal Pew Research Center, che ha mostrato una prevalenza dei pareri negativi verso l’UE rispetto a quelli positivi in quattro paesi: Spagna, Grecia, Francia e Regno Unito [3].
Il voto britannico non avviene per caso. È solo a dimostrazione dell’enormità della negazione di realtà da parte delle élite europeiste che esso può giungere come una sorpresa. La politica della negazione è quella che è. Non ci possiamo aspettare una vera messa in discussione delle opzioni della politica europea da parte delle stesse persone che le hanno implementate. È quindi probabile che assisteremo, nelle prossime settimane, a un’escalation di queste politiche. Ma i fatti sono testardi: tutto l’impegno verso maggiore “federalismo”, tutte le opzioni “sovranazionali” non portano ad altro che a una maggiore resistenza da parte dei cittadini. E speriamo che questi vengano consultati rapidamente, perché in caso contrario la resistenza potrebbe anche assumere forme violente.
Questo voto britannico porta con sé la condanna della forma del progetto europeo. La logica e il buon senso vorrebbero che si prendesse atto di questo e che si tornasse a forme più rispettose della sovranità e quindi della democrazia, nel quadro delle nazioni che costituiscono l’Europa.
L’importanza e l’impasse della “sinistra” nella lotta per la sovranità
C’è ancora un’ultima lezione. La vittoria della Brexit in Gran Bretagna è stata possibile solo grazie a una parte dell’elettorato laburista che, come abbiamo detto, ha votato in modo contrario alle indicazioni date dalla direzione del suo partito. Questo porta a due osservazioni. La prima è sulla cecità dei partiti socialdemocratici, che si rifiutano di ammettere che le conseguenze concrete dell’Unione Europea sono negative per le classi popolari. I regolamenti europei sono stati il cavallo di Troia della deregolamentazione e della finanziarizzazione delle economie nazionali. Continuare oggi a fingere di poter cambiare l’UE dall’interno, fare discorsi sulla “Europa sociale” è una menzogna che si trasforma in un’impasse strategica. Questa menzogna deve essere denunciata continuamente se vogliamo che la sinistra possa uscire dall’impasse nel quale si è cacciata.
La seconda osservazione riguarda l’importanza, per il successo di un voto che si potrebbe definire “sovranista” di un elettorato tradizionalmente situato a sinistra. Questo elettorato si può impegnare solo attraverso mediazioni politiche specifiche. In Gran Bretagna i comitati “Laburisti per la Brexit” sono stati determinanti per il voto di uscita dall’UE. Possiamo comprendere l’importanza delle forme autonome di organizzazione dell’elettorato di sinistra affinché possa esprimersi per delle opzioni sovraniste.

venerdì 24 giugno 2016

Sempre meno persone credono alle favolette sulla crescita

Nonostante le grancasse di praticamente tutti i media, i governi, i politici, gli industriali, i sindacalisti, gli imprenditori che invocano e martellano sulla crescita, ormai alle favolette ci credono sempre meno persone e le vendite eccezionali del libro sono un'altra dimostrazione di ciò.
Chi, sano di mente, può infatti credere alla crescita infinita in un mondo dalle risorse finite? Chi può chiudere gli occhi di fronte ad un inquinamento alle stelle, a mari ormai brodi di plastica, a cambiamenti climatici fuori controllo, alla produzione senza sosta di montagne di rifiuti e oggetti inutili che sono elemento cardine della crescita?
Chi sano di mente può pensare che la vita si riduca ad essere dei consumatori? Ad essere considerati dai pubblicitari esclusivamente oggetti che comprano oggetti? Chi sano di mente può pensare di fare lavori alienanti, senza senso, in cui si producono cose inutili e superflue quando se ne potrebbero fare innumerevoli altri di lavori che hanno un senso, che creano occupazione, che salvaguardano l’ambiente e gli altri essere umani?
Le persone vedono cosa sta accadendo, vedono l’insensatezza di vite immolate all’acquisto, percepiscono le prospettive misere che dà il sistema del consumo e della crescita e cercano risposte laddove sicuramente le trovano. Le risposte e proposte che noi diamo nelle nostre pubblicazioni sono razionali, concrete e realizzabili domani mattina per creare una società dove tutti siano inclusi e i valori siano completamente diversi e lontani dai messaggi falsi e plastificati che vediamo nelle pubblicità di tutti i giorni.
A quanto pare il libro esaurito in breve tempo ci dimostra che abbiamo contro dei giganti che sembrano essere veramente dai piedi di argilla se nonostante la prevista censura mediatica riusciamo ad avere risultati così importanti. Il sistema della crescita ha migliaia di persone alle sue dipendenze: giornalisti, “esperti”, opinionisti da salotto televisivo, una potenza di fuoco impressionante ma che è alla fine è fuffa, teorie povere e vuote che vengono ripetute come dischi rotti e che non stanno in piedi in nessun modo. L’unico obiettivo di queste persone è salvaguardare stipendi e privilegi senza farsi nessuna domanda o scrupolo sulle conseguenze del loro agire.
Solo la crisi ci può salvare non è una bestemmia ma un percorso di speranza e rinascita dalle macerie di un sistema basato sulla religione del PIL intollerabile e inaccettabile da ogni punto di vista, umano e ambient

giovedì 23 giugno 2016

Parigi brucia

Sulla legge di riforma del lavoro la conflittualità in Francia è giunta al massimo e comporta, oltre allo scontro sociale, un acuto scontro politico fra governo e opposizione, che intende far pagare tutti i costi politici e amministrativi alla CGT. Ma la forza politica che più ne sta traendo vantaggio è il Fronte Nazionale di […]
Alta tensione a Parigi. Moltissimi scioperi sono in corso da diversi giorni in tutto il paese, comprese le centrali nucleari. La CGT ha convocato una giornata nazionale di protesta a Parigi e ha avuto uno straordinario successo; la stampa non dà notizie precise ma si è parlato di diverse centinaia di migliaia, manifestanti raccolti fra l’una del pomeriggio e le sette di sera in un lunghissimo e fitto corteo.
L’atmosfera era aggravata dall’uccisione da parte di un adeto dello stato islamico alla periferia di Parigi: Larossi Abdala era noto alla polizia come referente musulmano per le prigioni; di buonora alla mattina, aveva ucciso un poliziotto e poco dopo ne aveva raggiunto l’abitazione per sgozzare la moglie, funzionaria di polizia anch’essa. È stato risparmiato solo il bambino di 3 anni, del quale si occupano i parenti. La destra ha attaccato il governo perché aveva lasciato libero questo Abdala, il quale però aveva scrupolosamente rispettato le misure che il giudice gli aveva imposto, per cui non c’era un elemento che si potesse usare contro di lui. La manifestazione si è dunque svolta con la partecipazione di fatto di tutti i sindacati e associazioni per il lavoro sotto tensione.
Allo stato di eccezione programmato dal governo da tempo, si è aggiunta la mobilizzazione per la sicurezza dovuta agli Eiropei, sfida di calcio che raccoglie tre manifestazioni al giorno. I tifosi, specie se inglesi o russi, si lasciano facilmente andare ad atti di violenza e fra di essi si insinuano i “casseurs”, i quali, ieri, se la sono presa in particolare con un obiettivo finora mai aggredito, cioè l’ospedale per i bambini Necker; hanno sfondato le vetrate a pianterreno, terrorizzando i bambini ammalati e il personale. Sarkozy ne ha approfittato per chiamare in causa la responsabilità penale e finanziaria della CGT. Poco dopo nella stessa giornata, un ragazzino di undici anni colpiva con una pugnalata al cuore un compagno di scuola a Vénissieux, nella regione del Rodano. Sono stati arrestati una quarantina di supporter russi con energiche proteste del ministro Lavrov. Il governo ha minacciato di vietare tutte le manifestazioni che possono recar danno a persone o a proprietà; il comunicato ha prodotto una protesta molto forte da parte della CGT: “Vuol dire che il governo è allo stremo.
È anche giornata di prova generale del Bac (il nostro esame di maturità); comincia con le prove scritte di filosofia. Insomma, si tratta di un periodo estremamente teso. I manifestanti mantengono la richiesta di ritirare la legge El-Komri, più o meno simile al nostro Jobs Act, ma il governo rifiuta di portarvi il minimo cambiamento e di riaprire la discussione, compiuta in sede parlamentare. Venerdì prossimo dovrebbe esserci un incontro tra le parti, ma se si mantengono le posizioni odierne non avrà alcun esito, esacerbando il conflitto. Gli obiettivi più discussi dalla manifestazione sono la ministra del lavoro El-Komri e il primo ministro Manuel Valls che si dichiarano indisponibili, come il presidente Hollande, a qualsiasi ritocco della legge.
Può darsi che la rigidezza del governo derivi da una direttiva europea; certo, la conflittualità sembra giunta al massimo. E comporta, oltre allo scontro sociale, un acuto scontro politico fra governo e opposizione, che intende far pagare tutti i costi politici e amministrativi alla CGT, ritenuta la maggior responsabile dell’attuale tensione. Considerando che fra un anno avranno luogo le elezioni politiche del nuovo presidente del consiglio, non si capisce bene quale sia la strategia del governo Hollande; né esso né la CGT sembrano disposti a venirsi incontro e, per ora, la forza politica più avvantaggiata dalla situazione è il Fronte Nazionale di Marine Le Pen.

mercoledì 22 giugno 2016

Le dichiarazioni shock di Mario Monti sul Brexit: “Cameron? Ha abusato della democrazia”

Il giorno del referendum che decreterà se il Regno Unito rimarrà dentro o abbandonerà l’Unione Europea è ormai prossimo. In questi mesi di campagna mediatica ne abbiamo sentite di tutti i colori, specialmente dai sostenitori del “Remain”. Lo stesso Premier britannico David Cameron ci è andato subito giù pesante, invocando prima il rischio di una guerra mondiale e poi quello di non poter pagare più le pensioni in caso di Brexit. Per gli esperti del ” The Guardian”, invece, il rischio si basava soprattutto sul fatto che la Premier League non si potrebbe più permettere l’ingaggio delle grandi stelle del calcio europeo. Ma il premio per la sparata più grossa, a nostro parere, se l’è aggiudicato il Financial Times, che prima ha allarmato l’opinione pubblica dicendo che il Brexit aumenterebbe il rischio di contrarre il cancro e poi ha dichiarato che “la cioccolata diventerà più cara per colpa della Brexit”.
Tuttavia, anche con un terrorismo mediatico simile, gli ultimi sondaggi davano il “Leave” con 10 punti di vantaggio sul “Remain”. Proprio questo clima favorevole all’uscita della Gran Bretagna dall’UE aveva creato dubbi sulla strategia adottata fino a quel momento dagli europesti, tanto che nei giorni scorsi, il Presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha dichiarato: “Sul Brexit, minacciare gli elettori elencandogli conseguenze terribili non ha funzionato. Dobbiamo concentrarci sulle cose cose positive di cui goderebbero i britannici se rimanessero con noi”. Il problema, purtroppo per Dijsselbloem, sta tutto nel capire dove trovarli questi benefici.
Si sa, la prima minaccia parte sempre da chi si sente minacciato e il terrorismo mediatico contro il Brexit a cui abbiamo assistito in questi mesi ci da testimonianza soltanto di una cosa: L’UE ha paura che il Brexit possa innescare una reazione a catena, che porterebbe in poco tempo alla disgregazione dell’Unione Europea. D’altronde, molti dei timori avanzati dai sostenitori del “Remain” possono essere smentiti facilmente, mentre tutto il resto può essere oggetto di un serio studio economico (potete approfondire qui e qui).
Poi, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato l’assassinio di Jo Cox, deputata laburista e madre di due bambini: l’assassino, uno squilibrato mentale di nome Thomas Mair, simpatizzante per i neonazisti americani della National Alliance dai quali nel 1999 acquistò un manuale sulla fabbricazione artigianale di una pistola, prima di accoltellare la vittima avrebbe gridato “Britain Fist”. Oggi, portato davanti ai giudici della Magistrates Court di Westminster per formalizzare le imputazioni a suo carico, alla richiesta di dichiarare il suo nome, l’instabile Mair ha gridato: “Il mio nome è morte ai traditori, Gran Bretagna libera”. E’ bastato che tutti i mass media europei strumentalizzassero questo omicidio, senza curarsi di confermare se l’uomo abbia davvero detto quel “Britain First”, per far rientrare nei ranghi l’allarme del Brexit.
Eppure, c’è chi non è ancora del tutto soddisfatto. Il nostro ex Premier Mario Monti, colui che nel 2011 subentrò a Berlusconi e “salvò” il nostro Paese dalla crisi della Spread (secondo altre cronache, invece, a salvarci dallo Spread fu una famosa frase di un altro Mario, Draghi), intervenuto riunione del Consiglio Italia-Usa sul tema “Quo vadis Europe?”, ha accusato il Premier britannico David Cameron, dicendo:
“Cameron? Ha abusato della democrazia. Il gioco di Cameron è tutto volto al mantenimento del potere. Non sono d’accordo con chi dice che questo referendum è una splendida forma di espressione democratica. Le dico di più: sono contento che la nostra Costituzione, quella vigente e quella che forse verrà, non prevede la consultazione popolare per la ratifica dei Trattati internazionali. […] Cameron non ha deciso di far scegliere gli inglesi il bene della UE, e nemmeno per gli interessi del Regno Unito, e aggiungerei nemmeno per quelli del Partito conservatore. È stata tutta una partita per levarsi d’impiccio il blocco euroscettico fra i Tory e rafforzare la leadership. Per questo ho parlato di abuso della democrazia. […] Le conseguenze del voto, indipendentemente dall’esito, sono pesanti per l’Unione stessa. Non dobbiamo illuderci; se anche il Regno Unito votasse per restare, ormai c’è un precedente. Cosa succederebbe se altri Stati decidessero di intraprendere un cammino simile a quello britannico? Un qualche Paese dell’Est o altri. Che si dice loro? Siete piccoli, non potete chiedere queste cose?”.
L’ex Presidente della Commissione Trilaterale non è nuovo a certe uscite. Nei giorni scorsi, invitato a SkyTG24 per commentare la decisione della Consulta di bocciare la spending review fatta dal suo governo nel 2013, ha detto: “In Italia negli anni ’70-’80-’90 sono stati conquistati molti diritti individuali, ma adesso chi deve governare deve rimettere in discussione una parte dei diritti. Questa è una cosa che le Corti Costituzionali faticano a capire”.
Insomma, è ormai chiaro che gli interessi dei popoli d’Europa e gli interessi delle elitès politico-finanziarie viaggiano su due binari diversi. Il voto popolare, sia che si tratti di elezioni politiche e sia che si tratti di referenda, fa paura: il popolo ormai tende a fare scelte diverse da quelle desiderate dalla UE e dai suoi difensori. Ben presto, forse, il nostro “Professore” Mario Monti arriverà perfino a chiedere di limitare l’utilizzo dei più normali strumenti democratici e chissà se dall’Europa non gli daranno pure retta, quando non funzioneranno più né il terrorismo mediatico e né le minacce economiche della BCE e dei “mercati”. Anche di questo dovranno tener conto i britannici quando giovedì andranno ai seggi per votare. Difficilmente avranno (o meglio, avremo) una seconda occasione.

martedì 21 giugno 2016

Il PD: da partito del popolo a club delle élite

E' interessante analizzare i dati dei ballottaggi per le elezioni comunali, che si sono tenuti nella giornata di ieri in alcune importanti città italiane, tra cui Torino. La mappa interattiva pubblicata da Sky riporta, per il capoluogo piemontese, un dato eloquente: la maggior parte dei voti appannaggio di Fassino, sindaco uscente targato PD, arriva dai quartieri più centrali della città, oltre che da quelli "di collina", dove il reddito medio è più alto, mentre i voti che hanno trascinato Appendino (M5S) all'inatteso successo arrivano principalmente dai quartieri delle periferie (Lingotto, Barriera di Milano, Borgata Vittoria ecc.). Anche a Roma, almeno al primo turno, si è verificato questo schema: il voto al PD è arrivato sopratutto dai quartieri centrali, mentre nelle vaste periferie capitoline si è votato cinque stelle.
Non è un dato insolito: da alcuni anni ormai, appare evidente come il PD abbia nettamente perso terreno nei quartieri popolari, mentre resiste, e talvolta si consolida, nelle zone centrali delle città, perlomeno in quelle più grandi, dove lo stacco tra centro e periferia è tangibile. Appendino ha aumentato esponenzialmente i suoi voti rispetto al primo turno, segno che, specie nelle periferie, anche gli elettori di altri partiti hanno preferito la giovane candidata cinque stelle al navigato sindaco in carica.
Caso diverso quello di Milano, dove il voto si è distributo piuttosto equamente tra centro e periferie tra centrodestra e centrosinistra; ma Milano è, assieme a Napoli, la città dove il M5S ha incontrato le maggiori difficoltà, non riuscendo a sfondare rispetto ai partiti tradizionali, anche a cause di proprie contraddizioni e problematiche interne.
Lo schema "politico-urbanistico" che si sta creando, almeno nei grandi centri, è significativo abbastanza da non poter essere trascurato. Il voto popolare non è più intercettato dalla sinistra: esso viene intercettato da movimenti "di protesta", percepiti come "anti-sistema" dalla popolazione, in particolare il M5S e la Lega Nord (nel settentrione), che vengono scelti dall'elettorato in base alla propria sensibilità politica di fondo. Il centrodestra berlusconiano tiene localmente (da notare, restando in ambito Nord-Ovest, la vittoria della destra a Savona dopo diciott'anni di governo piddino), ma nel complesso a livello nazionale perde terreno. E comunque vince, come a Savona, solo quando ottiene l'appoggio delle destre "popolari", come appunto la Lega, secondo lo schema di alleanze promosso dal governatore della Liguria Giovanni Toti.
La mutazione antropologica dell'elettorato di centrosinistra sembra essere giunta a maturazione, dopo un periodo di lungo travaglio interiore. L'elettore dem è parte integrante del sistema neoliberale, ha plasmato la sua coscienza politica, economica e sociale all'università, vive in centro, in genere lavora come dipendente, ma è anche ben presente nelle professioni e nel mondo imprenditoriale. Si comporta spesso con disprezzo nei confronti del sentimento popolare, chiamato con sufficienza "gentista", che nella sua ampia disorganizzazione ideologica trasuda però di rigurgiti antisistema anche molto decisi.
L'elettore dem è invece sostanzialmente conservatore: essendo un ingranaggio della macchina neoliberale dominante, non ha alcun interesse a una trasformazione sostanziale dello status quo, ma al massimo a una sua timida riforma. In questo è perfettamente rappresentato da Matteo Renzi, del quale appoggia in toto le riforme, vuoi per interesse diretto (si pensi ai tanti imprenditori renziani che hanno caldeggiato il Job Act), o per effettiva immedesimazione ideologica. E' impressionante la spaccatura di pensiero e di ideali che divide l'elettorato dem "moderno" da quello, più anziano, che ancora sostiene il PD dopo aver a suo tempo sostenuto il PCI e i DS: ossia, chi animava le feste dell'Unità, le case del popolo, i piccoli circoli ARCI e faceva attivismo in piazza "per il partito". Oggi quell'Italia è, in larga misura, scomparsa per sempre: le periferie metropolitane odierne hanno pochi centri di ritrovo, sono "non luoghi" urbanistici pieni di "terre di nessuno" dove imperversa la microcriminalità. Il sottoproletariato urbano, come lo chiamerebbe Marx, popola zone anonime, tutte uguali, palazzoni anni '60 privi di un'anima, dividendosi tra lavoretti saltuari, precariato (quando va bene), e le slot machines nelle tabaccherie.
Si tratta di un contesto pressoché ignorato dai vertici del PD, che puntano, come si è visto, a un'altra categoria sociale, più allettante sul piano del ritorno politico:quella che in America verrebbe chiamata dei "liberal", la borghesia medio-alta di formazione culturale liberale e progressista, molto attiva sui social e capace di influenzare l'opinione pubblica corrente. Ma è nei contesti urbani di periferia che nasce, e cresce, anche in maniera confusa e incerta, la resistenza al sistema dominante: è nei viali e negli stradoni anonimi e semi-abbandonati che i cittadini più sensibili si attivano per cambiare rotta, talvolta con forme di militanza concreta (si pensi all'ormai lunga esperienza dei MeetUp grillini), e ancora più spesso esprimendosi nel modo più semplice e diretto, attraverso il voto.
Gli effetti di questa divisione interna nelle città si vedono oggi, con la profonda spaccatura che si è palesata nell'elettorato "centrale" e "periferico" di due città estremamente importanti per il sistema-Italia, come Roma e Torino.
La mutazione antropologica dell'elettorato di centrosinistra sembra essere giunta a maturazione. L'elettore dem è parte integrante del sistema liberale.

lunedì 20 giugno 2016

L’economia degli Stati Uniti non supera l’impasse

Il mercato del lavoro degli Stati Uniti torna ad inciampare. Lo scorso maggio, le assunzioni non agricole aggiunsero 38000 nuovi posti di lavoro, mentre gli investitori di Wall Street ne prevedevano 160000. Janet Yellen, presidentessa della Federal Reserve non ha avuto alternativa che lasciare intatto il tasso d’interesse di riferimento dopo la riunione di giugno del Federal Open Market Committee. Il rischio di una nuova recessione negli Stati Uniti è più minaccioso che mai, anche se i media occidentali insistono nel promuovere l’idea che i principali pericoli siano il rallentamento economico della Cina e l’eventuale abbandono del Regno Unito dell’Unione europea.
Dopo l’ultima riunione del Federal Open Market Committee (FOMC) a metà giugno, la presidentessa della Federal Reserve (FED), Janet Yellen, annunciava che il tasso d’interesse di riferimento rimaneva intatto, cioè tra 0,25 e 0,50 per cento. Quindi tutto dimostra che la FED non alzerà il costo del credito interbancario prima di settembre. In breve, la propaganda del governo di Barack Obama per convincere del “pieno recupero” dell’economia degli Stati Uniti viene di nuovo screditata. Più di sei mesi fa la FED alzò il tasso d’interesse dei fondi federali e finora non ci sono segni che indicano un ulteriore progresso. Ripetutamente la FED ha ribassato le previsioni sulla crescita economica: mentre a marzo stimò un tasso di crescita del 2,1-2,3 per cento, ultimamente l’ha ridotto all’1,9-2 per cento. L’economia è in caduta libera, proprio nel dicembre 2015 la previsione di crescita della FED per il 2016 era tra 2,3 e 2,5 per cento. Senza dubbio, la crescente debolezza della più potente economia del Gruppo dei 7 (G-7) ha costretto le autorità monetarie ad agire con cautela perché ogni passo falso farebbe aumentare il rischio di accentuare le tendenze recessive, questa volta con l’alta possibilità di combinarsi con la deflazione (prezzi in calo). Nel primo trimestre il tasso di crescita del Prodotto interno lordo (PIL) degli Stati Uniti a malapena raggiunse lo 0,80 per cento. La ripresa del mercato del lavoro, nel frattempo, rimane troppo fragile anche presumendolo quale principale risultato delle politiche attuate dalla FED. Ricordiamo che lo scorso dicembre, quando la FED alzò di 25 punti base il tasso d’interesse di riferimento, il tasso ufficiale di disoccupazione era pari al 5 per cento, una cifra che secondo alcuni membri del FOMC prevedeva una situazione di “piena occupazione”. Tuttavia, ora sappiamo che la banca guidata da Janet Yellen si sbagliava. Gli ultimi dati non lasciano sospetti: i venti della nuova recessione sono molto minacciosi. Lo scorso maggio le assunzioni non agricole aggiunsero 38000 nuovi posti di lavoro, mentre gli investitori di Wall Street ne prevedevano 160000. Inoltre, i dati di marzo e aprile sono stati rivisti al ribasso, i datori di lavoro hanno assunto 59000 persone in meno di quanto originariamente riportato. Quindi, nessun membro del FOMC può celebrare un tasso di disoccupazione inferiore al 4,7 per cento, quando parallelamente il tasso di partecipazione al lavoro è sceso al 62,6 per cento: migliaia di persone non cercano più lavoro per mancanza di opportunità. Il tasso di disoccupazione ufficiale nasconde una massiccia sottoccupazione; contando le persone assunte in posti di lavoro part-time e quelle che hanno appena lasciato il mercato del lavoro, le cifre dovrebbero cambiare completamente. Con la metodologia di misurazione alternativa U-6, che considera questi due elementi, il tasso di disoccupazione si attesta al 9,7 per cento, ovvero oltre il doppio del tasso di disoccupazione ufficiale.
Si noti che la lentezza dell’economia degli Stati Uniti è dovuta principalmente all’estrema debolezza degli investimenti delle imprese, dovuto a un tasso di rendimento di capitale troppo basso, o insufficiente per avviare nuovi impianti di produzione, capaci di generare massiccia occupazione e d’innescare un ampia ripresa. Succede che gli imprenditori statunitensi sono riluttanti non solo ad investire, ma anche ad aumentare i salari, una situazione che ha impedito una sostanziale inflazione: l’indice dei prezzi al consumo (CPI) è aumentato solo dell’1,1 per cento in termini annuali il mese scorso. L’immagine di un’economia capace di reggere sembra sempre più remota dopo l’US Conference Board, l’istituzione responsabile della supervisione della competitività mondiale, che annunciava che l’economia statunitense soffrirà, quest’anno, la prima contrazione di produttività in tre decenni. In assenza d’innovazione, la produttività degli Stati Uniti precipiterà allo 0,2 per cento. “L’anno scorso pensavamo di entrare in crisi di produttività, ora vi siamo in pieno“, ha detto Bart van Ark, capo economista del prestigioso centro di ricerca. Tuttavia, i media tradizionali insistono nel promuovere l’idea che i segnali d’allarme della FED siano esterni al territorio statunitense. In un primo momento fu detto che il rallentamento economico della Cina sia uno dei principali pericoli mondiale; ultimamente avvertono su forti turbolenze finanziarie dal Regno Unito se decidesse di abbandonare l’Unione europea (cosiddetta ‘Brexit’). Pochissimi hanno il coraggio d’ indagare il grave pericolo rappresentato dagli Stati Uniti per l’economia globale: secondo le stime di Deutsche Bank, la principale banca d’investimento continentale europea, la probabilità che l’Unione nordamericana entri in recessione nei prossimi dodici mesi è già del 55 per cento. Tutto indica che accadrà presto e una realtà economica drammatica alla fine prevarrà sulla disinformazione.
Obama e la Grande Ripresa Economica: "Ecco, deve essere qui, da qualche parte".
Obama e la Grande Ripresa Economica: “E’ qui, da qualche parte!

venerdì 17 giugno 2016

"E' la tragedia del renzismo: il massimo che riescono a sognare è l'Expo o le Olimpiadi"

Maria Elena Boschi ha dichiarato di volere le Olimpiadi a Roma. Posizione così scontata che se la stampa italiana non fosse l'ufficio propaganda del Pd non sarebbe meritevole neppure di un trafiletto. Ma la cosa interessante è la sua motivazione: "Dobbiamo pensare in grande". Figuriamoci quando pensasse in piccolo.
È la tragedia del renzismo: il massimo che riescono a sognare sono l'Expo, le Olimpiadi, i campionati di calcio.
Ed è anche il massimo che vogliono che la gente sogni, abbandonando assurde ambizioni di un paese più onesto, efficiente, pulito, felice. Sarà difficile cambiare l'Italia, salvarla dalla deriva liberista: ma non ci si riuscirà di sicuro se ha ministri che neppure quando pensano in grande riescono a guardare al di là degli interessi molto materiali della ristretta cerchia dei loro amici e amici degli amici.

giovedì 16 giugno 2016

Integrazione europea e globalizzazione: una camicia troppo stretta

L’Europa nelle bocche degli europeisti è sempre un sogno, d’altronde anche i romani chiamavano pace il loro dominio. Eppure, di questi tempi, sempre più persone si svegliano di soprassalto, come dopo un brutto incubo, e votano partiti euroscettici. Forse perché la pax inizia ad assomigliare, agli occhi dei più, per ciò che è sempre stata e doveva necessariamente essere dati i suoi presupposti teorici: una forma d’imperio auto-burocratico, dunque anti-democratico. Eppure qualche oscuro meccanismo a cancello blocca le sinapsi cerebrali di molti ancora, quelli che ancora invocano “più Europa”. E allora forse è il caso di indagarlo a fondo, questo “più Europa”.
Le motivazioni addotte generalmente dagli europeisti per giustificare quella che presentano come una necessità ma in realtà è una scelta politica sono riducibili sostanzialmente a due. La prima: l’Europa ci ha salvati da un’altra (l’ennesima) guerra. La seconda: c’è la globalizzazione, più grossi siamo meglio è, altrimenti conteremmo come il famigerato due di coppe.
Entriamo nel dettaglio. La prima è facilmente smontabile. L’Unione Europea come garanzia di pace è un falso storico, visto che l’Unione c’è dal ’93, la pace dal ’45. Guarda caso, da quando in Europa si trovano stanziate cospicue quantità di soldati americani e (fino a non troppo tempo fa) sovietici. E’ stata l’occupazione militare a garantire la pace in Europa, il processo d’integrazione ne è stata una conseguenza. Roma docet, nuovamente. Anche i romani garantivano il quieto vivere (e il prosperar dei mercanti) alle popolazioni soggiogate, in cambio per l’appunto li soggiogavano. Questo non tutelò comunque i cittadini dello sterminato impero dalle guerre civili, né impedì rivolte indipendentiste né invasioni esterne. E’ stato il mutamento dei rapporti di forza a far uscire la guerra dall’Europa, più che l’Europa dalla guerra, e ci hanno messo del loro anche americani e russi che hanno preferito evitare il reciproco annichilimento, impegnandosi al più a schermaglie differite in remoti angoli dell’Asia. Venuto meno il contrappeso, caduto il muro, che rischi c’erano di guerra? Pochi, il mondo e l’Europa erano cambiati molto rispetto a cinquant’anni prima. Lo strapotere americano non era svanito come quello sovietico. Dunque i margini di manovra sarebbero stati minimi, anche se qualche opinione pubblica del Vecchio Continente avesse malauguratamente deciso di spingere verso un riarmo improbabile di un esercito scalcagnato. A maggior tutela della pace, erano cambiate le stesse opinioni pubbliche, ormai decisamente pacifiste come le élites che le controllano, più impegnate a fare affari che a riesumare gli apparati militari-industriali. E’ indubbio comunque che aver raggiunto un certo grado di integrazione economica, in ottica futura, sia una buona garanzia. Era dunque necessario spingere ulteriormente un’integrazione che aveva già dato buoni frutti?
Sì, lo era, per la seconda ragione. C’è la globalizzazione, ragazzi, direbbe un Bersani qualunque. Quindi ci serve un grosso mercato interno per tutelarci dai possibili shock esterni e dalla competizione internazionale. Peccato che per l’appunto ci sia la globalizzazione, che guarda caso prevedere proprio un’integrazione globale dei sistemi economici (e non solo europea dunque) e rende mercato il mondo intero. Paradossalmente, i Paesi che fanno meglio nella competizione globale sono proprio quelli piccoli e flessibili, non quelli grossi e rigidi. Dunque la seconda motivazione cade di fronte agli accordi di Marrakech, anzi, ha provocato con l’irrigidimento del cambio i disastri che stiamo vivendo oggi. Eppure gli europeisti non mollano, perché si sa, size matters. D’Alema l’ha detto spesso: se vogliamo contare qualcosa quando e dove si prendono le decisioni globali, dobbiamo stare assieme. Tradotto, se vogliamo competere geopoliticamente con Stati Uniti, Cina, India e Russia ci serve l’Europa unita. E questo va direttamente in contraddizione col punto uno. Forse ci eviterebbe l’ennesima guerra intra-europea, ma la competizione tra grandi blocchi rischia di portare al primo conflitto veramente globale.
C’è un terzo aspetto veramente interessante che dimostra la miopia politica degli europeisti. Il tempismo è stato pessimo. Quarant’anni hanno avuto a disposizione per realizzare una qualche forma d’integrazione politica minimamente efficiente e magari democratica. Non l’hanno fatto, probabilmente perché temevano di doversi scontrare con un’opinione pubblica cresciuta e formatasi ancora all’ombra del nazionalismo, dunque restia ad un passo del genere. Hanno quindi preferito procedere a piccoli passi, erodendo la sovranità un pezzettino alla volta, finché il processo non fosse arrivato al punto di essere irreversibile e il ricambio generazionale avesse consentito l’avvento di un’opinione pubblica con un diverso orizzonte valoriale. Peccato che nel mentre sia arrivato l’altro grande sogno contemporaneo, la globalizzazione, che ha fregato la classe politica europea e ancor di più i popoli d’Europa.
Thomas Friedman, columnist del NY Times e noto pro-global, lo spiega molto bene. Lui lo chiama Golden Straitjacket, una serie di politiche da attuare entrando nel mercato globale. Più indossi la camicia di forza, più la tua economia cresce e la tua politica si rimpicciolisce, perché devi fare ciò che piace all’Electronic Herd per attirare investimenti. Chiaramente la mandria sono i grandi fondi d’investimento, le grandi corporation, i grandi patrimoni, e altrettanto chiaramente le politiche che garantirebbero la crescita eterna sono quelle attuate in quasi tutto il mondo negli ultimi trent’anni. Dunque privatizzazioni, liberalizzazioni, austerità di bilancio, dumping fiscale, dumping salariale, dumping sociale, libera circolazione dei capitali, in sostanza quella che è stata la politica italiana dal ’90 ad oggi. A quel punto, con la politica (e lo Stato) che non esiste più, perché ha volontariamente rinunciato agli strumenti di controllo dell’economia (politica commerciale, politica fiscale, politica monetaria, impresa pubblica) puoi fare solo una cosa, perseverare in quella direzione per attirare ancora più investimenti. Nel mentre la tua identità culturale e la tua equità sociale hanno deciso di emigrare anch’esse. In Italia (e in Europa) il meccanismo è stato favorito e spinto alle estreme conseguenze dall’integrazione europea stessa, che apparentemente sarebbe dovuta servire come cuscinetto contro gli effetti nefasti della globalizzazione. E’ stata la stessa Unione a costituire quel vincolo esterno che imponeva ai governo nazionali scelte impopolari. Bruxelles è diventata volontariamente il parafulmine, all’interno di un disegno più grande.
Quel che è più importante è che volenti o nolenti l’Europa politica non potrà mai nascere, non finché ci sarà la globalizzazione, perché questa non ammette l’esistenza della politica. Si tratta di un’antitesi insanabile, e lo spiega molto bene Dani Rodrik, economista di Harvard. Lo chiama Globalization Trilemma. Hai un triangolo, ai tre vertici si trovano sovranità nazionale, democrazia ed economia globalizzata. I tre lati sono Golden Straitjacket, Bretton Woods e Global Governance. Non puoi avere tutte e tre le cose contemporaneamente, al massimo solo due attraverso lo strumento necessario, cioè il lato. Se vuoi sovranità e democrazia, devi tornare a Bretton Woods, alle limitazioni della circolazione dei capitali e del commercio; se vuoi avere democrazia e globalizzazione devi avere una governance globale, altrimenti hai competizione al ribasso tra Stati e scelte obbligate; se vuoi avere globalizzazione e sovranità, hai appunto una sovranità apparente, finalizzata all’integrazione dei mercati attraverso il Golden Straitjacket, che ti obbliga però ad ignorare qualunque esigenza interna, dunque cancella de facto la democrazia. Noi abbiamo scelto quest’ultima via, anzi, ce l’ha imposta Bruxelles, a colpi di direttive dettate da funzionari mai eletti.

mercoledì 15 giugno 2016

Petrodollari, imperialismo e destabilizzazione

Negli anni ’80 Stati Uniti, Arabia Saudita, Pakistan, Regno Unito e certi altri Paesi iniziarono a finanziare il terrorismo islamico sunnita in Afghanistan. Tale ingerenza seguì l’assedio della Mecca in Arabia Saudita nel 1979. Di conseguenza, il finanziamento dei radicali sunniti in Afghanistan avvenne in un momento molto opportuno per i governanti feudali dell’Arabia Saudita. Il Pakistan divenne la base per l’addestramento dei jihadisti sunniti internazionali e la diffusione dell’islamismo in Afghanistan. Indipendentemente dalle motivazioni in Afghanistan è chiaro che le convulsioni dell’intervento in questa nazione si fanno ancora sentire oggi in molte nazioni. Stati Uniti e Pakistan scatenarono CIA e ISI per creare un forza combattente sunnita da lanciare contro l’Unione Sovietica. L’intelligence inglese fece la sua parte in questa guerra segreta, e arrivando al 2016 appare chiaro che la serie di Stati falliti è dovuta all’ingerenza estera. Nel caso del Pakistan, ISI e governo centrale crearono il proprio incubo islamista taqfirita perché questa nazione non può più contenere le forze che ha scatenato. Ciò significa che l’agenda islamista vede il governo del Pakistan come anti-islamico con l’effetto a catena d’aumentare l’odio verso tutte le minoranze della nazione. Pertanto, tutte le minoranze, musulmane o non musulmane, affrontano l’ira dell’islamismo taqfirita e questo si vede negli attentati contro ahmadiya musulmani, sciiti, indù, cristiani e sufi. Quando coraggiose voci sunnite in Pakistan parlano come Salman Tasir, ex-governatore del Punjab, allora arriva la morte. Allo stesso tempo, cristiani bruciati vivi e attacchi agli sciiti sono parte integrante del Pakistan. L’aspetto più preoccupante è che tali crimini contro l’umanità non accadono solo in aree preda del caos a causa del potere di diverse organizzazioni islamiste, ma accadono anche nelle società tradizionali. Ciò significa che i finanziamenti agli islamisti da parte delle nazioni che sostennero la guerra in Afghanistan hanno creato un incubo basato sui sogni di Arabia Saudita e altre potenze del Golfo. E’ chiaro che, mentre Stati Uniti e Regno Unito si concentrarono sulla sola questione dell’Afghanistan, gli alleati del Golfo e il Pakistan ebbero idee diverse. In alcun momento tali nazioni capirono le dinamiche della militanza sunnita che alterava il quadro religioso e politico. Eppure pericolosi capi politici del passato in Pakistan, come il generale Zia ul-Haq, insieme ad Arabia Saudita e altri Stati del Golfo, alterarono le dinamiche del mondo musulmano di questa parte dell’Asia. Le ripercussioni continuano oggi coi vari movimenti islamisti che suscitano caos in Afghanistan e Pakistan. Allo stesso tempo, il ruolo delle donne ha sofferto molto nelle zone in cui gli islamisti sono forti. Allo stesso modo, settarismo, terrorismo e Stati indeboliti di Afghanistan e Pakistan precipitarono nel vuoto creatosi, come oggi la Libia in crisi per causa degli stessi vili poteri.
Pertanto, gli attentati settari dei taqfiri in Afghanistan e Pakistan sono realtà naturali in questa parte del mondo. Inoltre, l’invasione USA dell’Iraq che creò l’esodo di numerosi cristiani e altre minoranze, fu seguito dall’islamismo e dal settarismo taqfirita dilagante. L’Iraq, nonostante la brutale dittatura di Sadam Husayn, era fermamente laico e il terrorismo non era una minaccia per il governo di Baghdad. Tuttavia, una volta che gli Stati Uniti intervennero crearono il vuoto che, ancora una volta, veniva riempito da varie organizzazioni islamiste, tra cui al-Qaida. Inoltre, proprio come l’11 settembre fu opera di cittadini prevalentemente sauditi, questa nazione ha dato il maggior numero di islamisti recatisi in Iraq per uccidere i soldati degli Stati Uniti e delle altre forze alleate, oltre ad uccidere i musulmani sciiti. Per l’Arabia Saudita si trattava di controllare il nuovo Iraq con un governo sciita contrario alla volontà di Riyadh. Dopo tutto, per gli islamisti wahhabiti dell’Arabia Saudita, ciò equivale al tradimento. Ancora una volta, proprio come i cittadini statunitensi furono uccisi l’11 settembre per mando di cittadini sauditi, ora erano i soldati statunitensi che morivano a migliaia per mano degli islamisti sauditi finanziati dai Paesi del Golfo, a prescindere se fossero organizzazioni o singoli individui. L’ironia, una triste ironia per i soldati statunitensi, è che la maggior parte dei morti statunitensi in Afghanistan e Iraq era causata dalle politiche dei cosiddetti amici in Pakistan e Arabia Saudita. Ancora una volta, tuttavia, Stati Uniti ed élite di Washington sembravano permettere tale politica confusa ignorando le reti che uccidevano i propri soldati. Oggi l’Iraq entra nel “sistema di domino stato fallito” che spesso fa seguito all’ingerenza di altre nazioni. Pertanto, il terrorismo è una realtà quotidiana in Iraq, con numerose minoranze fuggite, le donne che soffrono in alcune parti del Paese, il nord de facto sotto il governo curdo e il settarismo che affligge lo Stato-nazione. Tuttavia, i capi politici di Washington ancora una volta hanno scatenato un altro vuoto brutale in Siria, nonostante i problemi in Afghanistan, Iraq e Pakistan. In alcun momento durante la guida di Bashar al-Assad le minoranze religiose dovettero preoccuparsi per il loro futuro, prima dell’ingerenza estera. Allo stesso modo, le donne in Siria hanno la libertà che si sognerebbero in Afghanistan, Qatar, Arabia Saudita e altri Paesi nell’orbita degli Stati Uniti in Medio Oriente. Infatti, a differenza della Francia, che viola il modo di vestirsi delle donne musulmane, o della Svizzera, che impone restrizioni sui luoghi di culto musulmani, in Siria le donne decidono come vestirsi e tutte le fedi religiose hanno luoghi di culto. Tuttavia, la cosiddetta “primavera araba” è stata usurpata da forze potenti e da Arabia Saudita e Qatar, nel momento di riempire il vuoto con gli islamisti.
La crisi in Libia ancora una volta scatena forze ancora presenti e questo vale per il caos e l’assenza di un potere centrale. Inoltre c’è la destabilizzazione del nord del Mali dovuta alle forze scatenate dal crollo della Libia. E’ ancora troppo presto per dire quale sarà il futuro della Libia, ma i gruppi terroristici islamici e le organizzazioni religiose islamiste chiaramente sono intenti a riempire il vuoto. Nel nord del Mali hanno già alterato il quadro e chiaramente questa zona sarà la base per l’ulteriore caos regionale. La Siria, di conseguenza, è rimasta la più potente ed indipendente nazione araba fermamente laica e libera dal controllo estero. Né USA né Arabia Saudita potranno controllare questa nazione, ma una volta che le manifestazioni cominciarono in Siria le forze estere subito intervennero. L’emergere del “fantomatico esercito libero siriano (ELS)” apparve rapidamente, proprio come nel caso dell’Esercito di Liberazione del Kosovo e dei ribelli in Libia. Chiaramente, tali forze apparvero troppo in fretta per essere spontanee, quindi obiettivi politici a lungo termine seguivano da dietro le quinte, riempiendo qualsiasi vuoto emergesse o creando il vuoto per scatenare forze potenti. Subito nella crisi siriana molti soldati furono uccisi e chiaramente non lo furono per mano di manifestanti pacifici. Bashar al-Assad ammise gli errori compiuti nel primo periodo, ma se non fosse stato per le forze estere, la situazione sarebbe stata contenuta. La crisi in Bahrayn rimane perché gli sciiti sono trascurati e le forze popolari sunnite hanno anche molti dubbi. Nonostante la brutale repressione in Bahrayn, è chiaro che il tasso di mortalità è molto inferiore di quello in Siria, perché alcuna nazione invia armi a nuovi agenti. Al contrario, l’Arabia Saudita ha avuto il permesso di entrarvi per schiacciarvi la rivolta spontanea. Nel caso della Siria, Arabia Saudita e Qatar finanziano i terroristi e mercenari internazionali. Inoltre, la Turchia è un altro aggressore della Siria, perché permette ad ELS e varie organizzazioni islamiste di avere basi presso il confine con la Siria. Gli scopi della CIA e degli islamisti, a differenza di Iraq e Afghanistan dopo l’11 settembre (prima erano alleati), ancora una volta confluivano per destabilizzare la Siria. Proprio come in Afghanistan, è chiaro che l’interesse degli Stati Uniti è idurre il potere della Federazione Russa e dell’Iran sul piano geopolitico. Tuttavia, proprio come in Afghanistan, Iraq e Pakistan, l’obiettivo dell’Arabia Saudita è la diffusione dell’islamismo wahhabita/salafita.
Saudi-King-Abdullah-bin-A-001 Il risultato di tutto questo è che la Siria è stata destabilizzata da molte forze che sostengono sedizione, settarismo e terrorismo. Ancora una volta, tale politica si ripercuote sulla regione, il Libano rimane in bilico e gli attentati aumentano anche in Iraq. Ora, nella Siria di oggi, ELS e islamisti decapitano persone, uccidono minoranze, rifugiati iracheni in Siria, sostenitori Bashar al-Assad e giornalisti. I video recenti ripresi dall’ELS mostrano persone gettate dai tetti ed individui catturati prima di essere assassinati. Collettivamente, le morti di cui si legge nei notiziari o si vede in televisione in Afghanistan, Iraq, Pakistan e ora Siria sono dovute alle politiche di Washington e degli altri alleati, come l’Arabia Saudita, che finanziano la carneficina. Il Pakistan è ancora rovinato dall’islamismo a causa delle politiche pericolose adottate dai capi in passato. Altre nazioni come Mali e Libano subiscono tali onde d’urto, mentre più vicino gli islamisti dilagano anche radicalizzando le principali città d’Europa. Pertanto, le potenti scosse dell’assedio della Mecca nel 1979, quando Juhayman al-Utaybi e i suoi seguaci assaltarono la Meccam,continua a riverberarsi nell’arena religiosa del mondo islamico. Tale singolo evento galvanizzò USA e Arabia Saudita nel finanziare ulteriormente i terroristi islamisti in Afghanistan e nelle confinanti regioni del Pakistan dal 1979 in poi, fino alla scomparsa dell’Unione Sovietica. Dopo tutto, le élite saudite avevano bisogno di una distrazione e USA e Regno Unito erano preoccupati per le ripercussioni di tale importantissimo evento. Forse le convulsioni in Arabia Saudita sono anche dietro gli eventi in Siria, proprio come successe dopo l’assedio della Mecca con l’Afghanistan. Dopo tutto, è chiaro che la comunità sciita e gli elementi sunniti sono scontenti degli attuali capi feudali dell’Arabia Saudita. Allo stesso modo, l’Arabia Saudita sostiene il settarismo in Bahrayn e Yemen, e ciò aiuta a colmare l'”irrequieto vuoto islamista dell’Arabia Saudita”. Indipendentemente dai fattori che hanno portato USA, Qatar, Arabia Saudita, Francia, Turchia e Regno Unito a destabilizzare la Siria, è chiaro che le forze scatenate non saranno contenute se le forze centrali in Siria collassano. Gli USA ora ne sono preoccupati per via di ciò che è successo in Iraq, grazie alla tenacia del governo siriano. Nonostante ciò, le élite di Washington hanno permesso ad Arabia Saudita, Qatar, Quwayt e Turchia di destabilizzare la Siria tramite le azioni di CIA, MI6, MIT, DGSE e altre intelligence della NATO in Turchia. Il risultato è che SIIL ed altre forze terroristiche minacciano seriamente Iraq e Siria. Allo stesso modo, la stessa realtà appare nello Yemen del 2016 a causa dell’intromissione diretta della coalizione anti-sciita guidata dall’Arabia Saudita.
Una cosa è certa, la carneficina in corso e gli attacchi terroristici quotidiani in Afghanistan, Iraq, Libia, Pakistan e Siria sono collegati alle politiche di Washington e al denaro proveniente da Arabia Saudita, Quwayt e Qatar. Tali nazioni erano libere dal terrorismo internazionale (in alcune accadeva di rado), ma una volta che i petrodollari degli Stati Uniti e del Golfo sono spuntati, allora tutto è cambiato. La destabilizzazione della Siria segue uno schema fin troppo familiare e lo stesso vale per la diffusione del terrorismo e del settarismo una volta che le élite politiche di Washington e Riyadh ne sono coinvolte. Tuttavia, proprio com’è successo in Afghanistan negli anni ’80 e ’90, è chiaro che le forze scatenate contro la Siria non possono essere contenute e tale realtà minaccia l’Iraq ancora una

martedì 14 giugno 2016

Immigrati, risorsa per l’Italia

Rappresentano l’8,2 per cento della popolazione che vive e risiede in Italia e, in barba alle derive (interne e internazionali) di rifiuto e chiusura, gli immigrati sono accolti secondo un modello di integrazione che funziona. Forse meno intenzionale rispetto a quello di altri Stati e meno rumoroso ma, alla prova dei fatti, certamente più capace di evitare fenomeni di involuzione patologica, verificatisi, di contro, altrove.
E, invece, cinque milioni di stranieri, appartenenti a centonovantasette comunità diverse, si sono silenziosamente integrati nei microcontesti della quotidianità. Partendo da situazioni di irregolarità e precarietà, arrivano a costituire una risorsa per le imprese che richiedono manodopera flessibile e a bassa qualificazione, divenendo le maglie principali delle reti di welfare famigliare.
Addirittura, giungono a omologarsi a comportamenti socioeconomici tipicamente italiani, tipo la propensione alla microimpresa, nelle costruzioni come nel commercio e nella ristorazione. Nel primo trimestre del 2016, per esempio, i titolari di impresa risultano essere quattrocentoquarantamila, cresciuti del 49 per cento dal 2008 a oggi; diversamente, i colleghi italiani, contestualmente, diminuivano dell’11,2 per cento.
Per questo, in barba a chi grida terroristicamente al collasso causa i massicci afflussi, l’Italia, senza di loro, sarebbe un Paese più piccolo, con più anziani e meno giovani - esattamente due milioni e seicentomila minori e under-trentacinque - meno vitale, con meno welfare e ridotte prospettive di futuro. E, suonerà strano, anche con meno posti di lavoro per gli italiani. Come se non bastasse, gli immigrati lavorano e contribuiscono, quando non sono costretti a trattamenti in nero, a sostenere il nostro sistema previdenziale senza, almeno fino a questo momento, beneficiarne affatto.
Basta vedere i trattamenti previdenziali: i migranti che percepiscono una pensione in Italia sono centoquarantunomila e raggiungono a malapena l’1 per cento sul totale degli oltre sedici milioni di pensionati italiani e sono circa il 4 per cento di coloro che godono di altre prestazioni di sostegno del reddito, quali mobilità e indennità di disoccupazione.
Davanti all’eclissi dei minori e all’emorragia dei giovani, gli stranieri rappresentano un importante serbatoio di energie. Mostrano un’alta propensione a fare figli: dal 2008 a oggi, infatti, le nascite sono cresciute del quasi 4 per cento contro una riduzione del circa 20 per cento di quelle per i genitori italiani. Un’integrazione dal basso che prende il via dalla scuola: gli alunni stranieri, in tutti i gradi degli istituti italiani, sono in continua crescita, nel 2015 rappresentavano il 9 per cento del totale, aiutando ad alimentare il sistema scolastico perché garantiscono il mantenimento di classi e il conseguente impiego di insegnanti che, al netto degli studenti stranieri, sarebbero il 9,5 per cento in meno.
Buona vita ai figli dell’immigrazione, più transnazionali dei giovani italiani per aver vissuto in un orizzonte globale e multiculturale. Non gliene vogliano, gli ottusi connazionali.

lunedì 13 giugno 2016

Acqua, nucleare: cosa resta dei referendum, 5 anni dopo

Oltre ventisette milioni di cittadini italiani il 12 e 13 giugno del 2011 parteciparono a un referendum popolare, votando 4 quesiti. 25.935.372 dissero sì all’abrogazione di una norma volta ad obbligare le società che si occupano dei servizi pubblici locali ad affidare la gestione tramite gara a una società per azioni; 26.130.637 dissero sì a una modifica della tariffa del servizio idrico integrato, eliminando la componente “remunerazione del capitale investito”; 25.643.652 dissero sì all’abrogazione delle nuove norme che avrebbero consentito la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare; 25.736.273, infine, dissero sì all’abrogazione della norma relativa al “legittimo impedimento” del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri a comparire in udienza penale.
Tre dei quattro quesiti riguardavano, quindi, ambiente e diritti. E cinque anni dopo rispondiamo alla domanda “che cosa è successo?”.
Acqua, il referendum tradito
Secondo Giulio Citroni, che insegna Scienza politica all’Università della Calabria, e da un dozzina di anni studia i processi di governance nei servizi pubblici locali, “il referendum del 2011 è stato forse in questi anni il punto di massima chiarezza e la fonte di massima stabilità normativa raggiungibile”, tanto che nel 2012 la Corte Costituzionale “emette una sentenza fondamentale, che stabilisce che i tentativi di reintrodurre l’obbligo di gara sono anticostituzionali perché contradicono lo spirito e la lettera del referendum” (“Dismissioni! E poi?”, Guerini e associati, 2016). Chi ha votato il 12 e 13 giugno 2011, sostiene Citroni, lo ha fatto in modo non equivoco “contro l’obbligo di privatizzazione, contro la messa a profitto della gestione dei servizi idrici”.
Cinque anni dopo, non è cambiato (quasi) niente. Anzi, a livello governativo si assiste allo stravolgimento della legge per la ri-pubblicizzazione dell'acqua: il testo nato dalla proposta di iniziativa popolare del 2007 è stato approvato alla Camera, il 20 aprile scorso, in una versione che ne stravolge profondamente i contenuti (qui la nostra analisi).
Ma non c’è solo questo: il Governo guidato da Matteo Renzi ha deciso di muoversi lungo una direzione contraria al referendum, soprattutto con i decreti attuativi della legge Madia sulla riforma della pubblica amministrazione, i cui obiettivi espliciti, riportati nella relazione di accompagnamento, sono “la riduzione della gestione pubblica ai soli casi di stretta necessità” e il “rafforzamento del ruolo dei soggetti privati”.
Negli stessi decreti attuativi, inoltre, ritorna la previsione -per i servizi a rete- di “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” nella composizione della tariffa: è l’esatta dicitura che oltre 26 milioni di cittadini avevano abrogato nel 2011.
Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, tra i promotori del referendum, è così oggi impegnato nella campagna "Stop Madia". Il nuovo Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, decreto legislativo attuativo dell'art. 19 della L. 124/2015 (Legge Madia), è all'esame del Consiglio di Stato e della Conferenza unificata Stato-Regioni, e verrà approvato in via definitiva -con tutta probabilità- entro la fine del mese di giugno.
Sullo sfondo, continuano i processi di aggregazione, che vedono protagoniste le società quotate in Borsa (la lombarda A2a, la emiliano-romagnola HERA, la ligure-piemontese IREN, la laziale ACEA): a inizio luglio, però, l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato dirà la sua sulla sostanzialmente fusione tra le multi-utilities A2a e LGH Group (società attiva nel lodigiano, nel cremonese e nel bresciano). La prima -di cui sono azionisti i Comuni di Milano e Brescia- potrebbe assumere una “posizione dominante”. La valutazione dell’Antitrust potrà offrire spunti importanti.
Solo a Napoli, con l’esperienza di ABC, e la trasformazione di ARIN spa in soggetto di diritti pubblico, si è pienamente realizzato ciò che la volontà popolare aveva espresso nel 2011, ovvero -prendendo in prestito l’interpretazione della Corte Costituzionale- “rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua” (qui la storia di ABC Napoli, da Ae 172).
E qualcosa ha da insegnarci anche la vicenda romana, con le elezioni amministrative in corso: il Movimento 5 stelle ha paventato la possibilità di sostituire il management di ACEA, di cui il Campidoglio controlla il 51%; alcune società di analisti, però, sottolineano che un nuovo indirizzo alla politica industriale dell’azienda, prerogativa dell’azionista, potrebbe rappresentare un potenziale “pericolo” per gli altri azionisti, specie se questi interventi inseriscono in agenda temi come un aumento degli investimenti e una riduzione degli utili.
Nucleare, un risparmio di almeno 20 miliardi di euro
Cinque anni fa, ENEL aveva già individuato i siti in cui costruire quattro nuovi impianti nucleari, dal costo iniziale stimato di almeno 4,5 miliardi di euro: avrebbero dovuto consentire la generazione del 25% dell’energia elettrica prodotta ogni anno nel nostro Paese. Cantieri aperti nel 2013, si scriveva.
La vittoria dei “Sì” nel referendum, ha bloccato ogni investimento. E per fortuna, perché nel frattempo il mercato elettrico ha cambiato pelle. Basti pensare che le 4 nuove centrali nucleari avrebbero avuto una capacità complessiva di 6.400 Mw, mentre tra il 2013 e il 2014 le aziende proprietarie di centrali termoelettriche alimentate da carbone e gas naturale hanno chiesto la messa fuori esercizio, ovvero il distacco dalla rete, di una dozzina di impianti per una potenza complessiva di 7.788 Mw.
Anche ENEL -azienda quotata in Borsa, ma partecipata dallo Stato- si adattando al nuovo mercato elettrico: tra il 2015 e i primi mesi del 2016 ha diretto al ministero dello Sviluppo economico una richiesta di “messa fuori servizio esercizio” di 5 impianti, per una potenzia installata pari a 1.550 Mw, quasi quanto una centrale nucleare.
Che cosa è successo, nel frattempo? Nel 2009, l’anno in cui il governo iniziò a parlare di un ritorno al nucleare, il 74,8% dell’energia elettrica prodotta in Italia arriva da fonti non rinnovabili (gas naturale e carbone, su tutte); nel 2011, l’anno del referendum, la percentuale era scesa al 71,9%. Nel 2014 (ultimo dato aggregato disponibile), questa percentuale è scesa al 56,2%. A crescere sono state le fonti rinnovabili: +231,9% per l’eolico, +3294,6% per il fotovoltaico.
Nel 2008, inoltre, si stimava che tra il 2005 e il 2020 i consumi elettrici nel nostro Paese potessero crescere del 36,5%, fino a 423 Twh/anno. In realtà, i consumi sono cresciuti solo fino al 2007, e da allora sono scesi in termini assoluti del 10 per cento circa.

venerdì 10 giugno 2016

Jobs Act e Ttip, francesi in rivolta. E gli italiani? Buonanotte

Non temere il nemico, che può solo prenderti la vita. Molto meglio che temi i media, poiché quelli ti rubano la verità e l’onore. Quel potere orribile, l’opinione pubblica di una nazione, viene creato da un’orda di ignoranti, compiaciuti sempliciotti che incapaci di zappare o fabbricare scarpe, si sono dati al giornalismo per evitare il Monte di Pietà” (Mark Twain). “Una stampa cinica, mercenaria, demagogica finirà col produrre un popolo altrettanto spregevole” (Joseph Pulitzer). Le fenomenali lotte insurrezionali in Francia, dove si sta applicando la lezione latinoamericana dell’attacco allo Stato capitalista di polizia attravero il blocco dello Stato da parte di tutte le categorie che lo fanno funzionare, meriterebbe un trattamento approfondito e su vasta scala, anche per neutralizzare l’omertà della nostra tremebonda classe politica e dei nostri media asserviti. Omertà con il regime francese che si esprime attraverso l’arma di un silenzio quasi assoluto su quanto da settimane va succedendo in quel paese.
Essendo noi quelli dove un prefetto può ridurre d’imperio da 24 a 4 ore uno sciopero dei trasporti, senza che il sindacato sollevi un sopracciglio, sapendo adeguatamente della Francia e dei suoi scioperi ad oltranza, potremmo scoprire che non è detto che i Rivolta in Franciagiochi col padrone – che sia Renzi, Boccia, Camusso, Juncker, Draghi, Obama – si debbano sempre fare secondo le regole loro. Ho trovato in rete il documento in calce che fa un interessante confronto tra la nostra situazione e quella francese. Credo che l’autore dello scritto,fidandosi del potenziale di lotta dei lavoratori italiani, pur sottolineando la diserzione dei loro rappresentanti storici, sindacali e politici, trascuri un dato importante: la passivizzazione dei settori sociali che una successione di governi al servizio del grande capitale finanziario transnazionale è riuscita a produrre. Uno degli strumenti più efficaci, dopo la creazione dello Stato della Sorveglianza Totale e della paura, è stato il depistaggio dalla contraddizione principale, quella di classe, quella del rapporto di forza tra padrone e lavoratore, tra sovrano e suddito, tra dipendenza e sovranità, all’obiettivo totalizzante dei – pur validi – diritti civili, unioni di fatto, Glbtq, adozioni.
Molto importante è poi un dato storico, metapolitico: in Francia resiste un forte senso patriottico in difesa della sovranità dello Stato, che in passato, a partire da De Gaulle, aveva determinato il rifiuto dell’ingresso nell’apparato militare della Nato e poi aveva prodotto lo straordinario No al referendum sui trattati Ue. In Francia, perciò, mi sembra esserci un terreno più propizio per l’opposizione a provvedimenti di repressione e desertificazione sociale (le 45-50 ore di lavoro settimanali, i contratti aziendali a discapito di quelli nazionali di categoria, la totale flessibilità e il potere assoluto di licenziamento) che la gente percepisce essere la componente francese di un piano transnazionale di trasferimento della ricchezza dal basso in alto, di liquidazione della sovranità popolare e statale, di distruzione progressiva dei diritti e delle libertà democratiche, che hanno per mandanti i tecnocrati non eletti di Bruxelles, Wall Street e la Nato. Cioè forze esterne e prevaricatrici. Fenomeno già riscontrato in tempi recenti quando, facendosi forza della minaccia terroristica, opportunamente coltivata da Charlie Hebdo in poi, Hollande ha De Gaulletentato di bloccare, con arresti preventivi alla Mussolini, le manifestazioni contro la farsa del Cop21 sul clima. E non gli è riuscito.
Schiacciare la società per far passare il Ttip (e la Nato). C’è un’altra considerazione che probabilmente è stata fatta dai dirigenti delle lotte francesi e da gran parte della società. Le misure sociocide ordinate a Hollande e Valls dalle centrali sopra nominate sono il preludio al Ttip, il trattato di libero scambio Ue-Usa, Nato economica, che, come sappiamo e come validi parlamentari del M5S denunciano con forza, è inteso a radere al suolo le costituzioni europee, le salvaguardie di lavoro, ambiente, salute, sovranità, conquistate in decenni di lotte e a sottometterci agli interessi delle multinazionali Usa. Una consapevolezza che in altri paesi europei sembra già più matura, viste le manifestazioni in Germania, 250mila a Berlino, 90mila a Hannover, seguite non malamente da Roma con 30mila. In Francia si è capito che i gravissimi provvedimenti di ordine pubblico – militarizzazione della società, stati d’emergenza, caccia alle streghe per oppositori – adottati con il pretesto degli attentati terroristici (su cui aleggiano ombre nerissime), nelle intenzioni dei loro esecutori e mandanti (esterni) servono proprio a impedire che, contro il Fulvio Grimaldidumping sociale e la riduzione della democrazia a mero involucro formale, si possa manifestare una grande e duratura opposizione di massa.
Il fatto che questo progetto sia stato messo in crisi in Francia, e addirittura in Belgio, da una vera e propria insurrezione popolare, di tutte le categorie del lavoro e con l’appoggio (Nuit Debout) di altri settori sociali, pur più volatili, ma ugualmente colpiti (prima di tutti quelli dell’lstruzione), potrebbe significare che nè un terrorismo utilizzato come alibi per lo Stato di polizia, nè un concerto mediatico omologato alle strumentalizzazioni e falsificazioni di regime, hanno avuto ancora partita vinta. C’è da augurarsi che questa storia non vada a finire come lo scontro tra i minatori britannici e la Thatcher, Lady di uranio impoverito, antesignana con Reagan di una guerra di sterminio interna e mondiale. Questi formidabili francesi hanno nel Dna il seme del 1989, di Robespierre, della Comune. I britannici del Brexit, dei minatori e, forse, di Oliver Cromwell. E il nostro di seme, quello del ’48, della lotta partigiana, del ‘68, dove s’è nascosto?

giovedì 9 giugno 2016

Il golpe di Hillary

Tecnicamente non è un colpo di Stato, certo, ma gli somiglia tanto.
Quel che si è compiuto in queste ore intorno alla candidatura di Hillary Clinton è abbastanza simile a quanto accade ovunque, nell’Occidente in crisi: le oligarchie hanno bisogno della cerimonia rassicurante e ratificante del voto, ma non vogliono che il suffragio popolare possa mai disturbare le loro decisioni.
Così non hanno aspettato che la California, il boccone più grosso del piatto elettorale delle primarie USA, potesse sconfiggere la sempre più traballante Hillary fiaccata dagli scandali, ed esprimere così una possibile alternativa nella persona del “socialista” Bernie Sanders.
Non volevano trovarsi in imbarazzo, con i cosiddetti “superdelegati” (i notabili di partito non espressi dal voto delle primarie) costretti a imporsi sulla volontà degli elettori solo a cose fatte, con un Sanders in grado di contestarli energicamente.
Perciò, le “cose fatte” le han volute fare loro: hanno proclamato lanomination in anticipo, hanno dettato la grande notizia al sistema mediatico mettendo a tacere il resto, e al diavolo gli elettori democratici.
Non c’è che dire, un bell’assaggio di quel che sarebbe una presidenza in mano alla candidata preferita da Wall Street e dai superfalchi neoconservatori.

In questo quadro il coro dei media occidentali non trova di meglio che esaltarsi per la “prima volta di una nomination di una donna”. C’è da capire la valenza del simbolo, ma Hillary non è un simbolo: è un individuo specifico, una personalità politica concretamente distinguibile per i suoi comportamenti, già sperimentata nel suo ruolo di Segretaria di Stato, quando ha preso decisioni politiche che hanno acceso nuove guerre. Il caos che ha voluto creare ha ucciso donne: innocenti e a migliaia. Potrebbero diventare milioni, se potesse applicare le sue idee sul Medio Oriente e sul rapporto fra Europa e Russia.

mercoledì 8 giugno 2016

Chi tocca la penna muore!!! Oggi il Senato comincia a discutere di illibertà di stampa

Oggi comincia, nonostante tutti gli appelli che si sono levati da diversi settori della società civile, la discussione in Senato della norma che aumenta la reclusione da sei a nove anni per tutti quei giornalisti che riportano una condanna per diffamazione. E’ una norma “di casta” perché il campo di applicazione è pensato espressamente per quei casi in cui il “danneggiato” è un uomo politico o un magistrato. Fnsi,il sindacato dei giornalisti, ha chiesto di ritirare la proposta, di abolire del tutto la pena detentiva e di introdurre, al contrario, il reato di ostacolo all’informazione.
Il primo allarme è stato lanciato il 26 maggio da Ordine dei Giornalisti, FNSI e Ossigeno. II giorno dopo la Rappresentante dell’OSCE, Dunja Mijatovic, ha rivolto un appello alle autorità italiane. Subito, facendo riferimento alla documentazione prodotta dall’associazione “Ossigeno per l’informazione”, le più rappresentative associazioni europee dei giornalisti EFJ (European Federation of Journalists), AEJ, IPI, e Index on Censorship hanno segnalato l’iniziativa del Senato italiano al Consiglio d’Europa come un fatto di assoluta gravità. Tutti hanno ricordato al Parlamento italiano che la pena detentiva deprime la libertà di informazione e hanno chiesto di rinunciare a un inasprimento che va contro gli standard europei in materia di diffamazione e che inoltre contraddice l’impegno solenne dell’Italia di cancellare del tutto la pena detentiva per questo reato, con un disegno di legge presentato nel 2013 e ancora in attesa di approvazione.
Proprio all’inizio di questo mese, il presidente della FNSI Giuseppe Giulietti ha definito “anti-nazionale” l’aumento del carcere e ha chiesto al governo, del tutto taciturno, di dichiararsi contrario e al Parlamento di ritirare la norma, di introdurre nel codice il reato di ostacolo all’informazione, di sbloccare e approvare il parallelo disegno di legge, anch’esso all’esame del Senato, che prevede invece di cancellare il carcere. Quest’ultima proposta di Giulietti è stata condivisa dal deputato del PD Walter Verini, componente della Commissione Giustizia della Camera. A favore di un chiarimento del testo che inasprisce il carcere si è pronunciata anche l’associazione “Avviso Pubblico”, schierata a difesa dei sindaci che subiscono minacce. Quest’ultima presa di posizione è importante perché smonta parte della retorica “manettara” che ha parlato della necessità di allentare la pressione su quanti, tra gli amministratori pubblici, si sentono oggetto di “condizionamenti” da parte dei giornalisti.
Intanto, a conferma del clima fortemente repressivo che si sta facendo largo nel paese nei confronti della libera informazione, arriva la notizia che il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni ha diffidato la Rai e La7 dall’ospitare il giornalista Marco Lillo, vicedirettore de Il Fatto, per promuovere il suo libro Il Potere dei Segreti. Maroni ha lasciato intendere una citazione in giudizio per danni. L’ufficio legale della Rai ha consigliato ai direttori di canale di non invitare Marco Lillo. L’atteggiamento della Rai è stato criticato dal presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti, che chiede l’intervento di Agcom e Commissione parlamentare di vigilanza. Il libro riferisce contenuti di un’inchiesta giudiziaria su politici, manager e prefetti.
Infine, il direttore del quotidiano Roma, Pasquale Clemente, è stato condannato a due anni di reclusione, riconosciuto colpevole di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del già parlamentare e magistrato Pasquale Giuliano”. Il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario del sindacato dei giornalisti della Campania, Claudio Silvestri scrivono in una nota: “Senza entrare nel merito della vicenda, che risale ai tempi in cui Clemente dirigeva la Gazzetta di Caserta – dicono – l’aspetto sconcertante riguarda la condanna al carcere del giornalista, in applicazione di una norma, quella dell’articolo 595 del codice penale, ormai fuori dalla storia, ma sulla cui cancellazione, più volte auspicata dagli organismi internazionali, il Parlamento non solo continua a tergiversare, ma immagina addirittura forme di inasprimento, come dimostra la norma recentemente approvata in commissione Giustizia al Senato. I giornalisti non chiedono tutele speciali e neanche impunità. Il carcere rappresenta una misura sproporzionata, oltre che una forma surrettizia di bavaglio all’informazione. È per questo necessario che riprenda al più presto l’esame della proposta di legge volta a cancellare le pene detentive per i giornalisti e che si abbia il coraggio di istituire il giurì per la lealtà dell’informazione, a tutela del diritto dei cittadini ad essere correttamente informati.

martedì 7 giugno 2016

Accordo Grecia-Eurogruppo: l'ennesima beffa

Nella notte tra il 25 e il 26 maggio, i ministri delle finanze della zona euro hanno raggiunto un accordo col governo greco che prevede il via libera ad un ulteriore esborso di 10,3 miliardi ma soprattutto - come era prevedibile - un impegno di massima (non vincolante) da parte della troika ad "alleggerire" progressivamente il debito greco. Jeroen Dijsselbloem, presidente dell'Eurogruppo, l'ha definito un accordo «ambizioso» e «un importante passo in avanti». Secondo il ministro delle finanze greco Euclid Tsakalotos, la Grecia «inizia ad uscire dal circolo vizioso della recessione». Un'analisi a freddo dell'accordo in questione, però, non sembra giustificare tanto ottimismo. È vero, per la prima volta si è discusso in modo concreto dell'annoso problema del debito greco, e questa è senz'altro una vittoria - innanzitutto simbolica - per Tsipras, che ha investito gran parte del proprio capitale politico nella rinegoziazione del debito. Ma le misure prese a riguardo lasciano molto a desiderare.
L'FMI, come è noto, chiedeva una ristrutturazione immediata del debito - tramite un taglio nominale del debito (la scelta favorita dal Fondo ma esclusa categoricamente dagli europei) o una rimodulazione delle scadenze - e degli obiettivi di bilancio sostenibili: ossia un avanzo primario non superiore all'1,5 per cento del PIL (considerato comunque un'impresa).
L'accordo, invece, prevede una rimodulazione delle passività elleniche «dal 2018 in poi» - sarebbe a dire, dopo le elezioni tedesche del 2017 - e un avanzo primario del 3,5 per cento per il 2018, senza precisare se debba essere mantenuto successivamente. È un duro colpo per il Fondo. Nella sua ultima analisi sulla sostenibilità del debito greco, rilasciata non a caso pochi giorni prima del meeting dell'Eurogruppo, il Fondo monetario definisce l'avanzo primario che il governo greco si è appena impegnato a rispettare come «del tutto irrealistico». «Anche se la Grecia, attraverso uno sforzo eroico, riuscisse temporaneamente a raggiungere un surplus vicino al 3.5 per cento del PIL - si legge nel rapporto - pochi paesi in passato sono risusciti a mantenere avanzi primari di questi livelli». Questo è confermato anche da uno studio di Barry Eichengreen e Ugo Panizza, in cui i due economisti hanno analizzato centinaia di casi di paesi, sia emergenti che avanzati, che tra il 1974 e il 2013 hanno cercato di perseguire ampi e consistenti avanzi primari. Per concludere che avanzi primari di questa entità sostenuti per più di pochi anni sono estremamente rari, per motivi sia economici che politici.
Senza una significativa ristrutturazione del debito, l'FMI prevede che il rapporto debito/PIL greco - attualmente pari al 180 per cento - è destinato a crescere inesorabilmente, arrivando a poco meno del 300 per cento entro il 2060 (riquadro sinistro nella figura seguente). Mentre i costi di servizio del debito lieviterebbero ad un impossibile 60 per cento del bilancio governativo (riquadro destro), rispetto al 18,5 per cento di oggi. Va da sé che la Grecia andrebbe in bancarotta molto prima.
Il Fondo, insomma, ha ceduto su tutta la linea: non solo la ristrutturazione del debito greco, che l'FMI riteneva indispensabile da subito, è stata rinviata al 2018 (ad eccezione di alcuni accorgimenti tecnici per evitare rischi di volatilità dei tassi d'interesse pagati al MES) - permettendo così alla Merkel di scavalcare le prossime elezioni - ma «l'impegno non è assoluto, ed è invece legato a eventuale necessità e con il riconoscimento di quanto Schäuble ripeteva da settimane, e cioè che è inutile e impossibile fare previsioni adesso su quel che accadrà nel 2018, alla fine del terzo programma di salvataggio». Tutto rimandato a domani. E questo nonostante la ristrutturazione del debito fosse stata promessa per la prima volta già nel lontano 2012.
Ancora una volta la brutale realtà dei rapporti di forza - per cui ciò che è buono per la Germania è buono per l'Europa intera - ha avuto la meglio sulla logica economica e sullo spirito di solidarietà. Come ha commentato un caustico Marco Zatterin sulla Stampa:
Le riunioni dell'Eurogruppo sono quello sport cui si gioca a ventidue - diciannove Stati e tre istituzioni - e alla fine vince la Germania. Nella notte è andata così col dossier greco, di nuovo. Il Fondo monetario ha chiesto sino all'ultimo che fosse falciata via subito una parte rilevante del debito ellenico, ritenendo che Atene avesse già fatto molti sforzi e che l'onere del suo immenso debito coi creditori europei rischiasse di rendere la cura più pericolosa della malattia. Il tedesco Wolfgang Schäuble si è impuntato, per obblighi politici e fedele al principio secondo cui non un centesimo preso dalle tasche dei suoi elettori deve essere condonato a un debitore.
E questo - non ci stancheremo mai di ribadirlo - nonostante la Germania abbia beneficiato, alla conferenza di Londra del 1953, di uno dei più grandi tagli del debito mai visti nella storia, senza di cui «il miracolo economico tedesco non sarebbe stato praticamente possibile», assicura Ursula Rombeck-Jaschinski dell'università di Düsseldorf, autrice del libro sul trattato del debito di Londra Das Londoner Schuldenabkommen.
E che dire dei 10,3 miliardi che la troika verserà a breve nelle casse dello Stato greco? Una cosa è certa: non ci rimarranno a lungo. Nonostante i media si ostinino a parlare di "aiuti", come se quei miliardi dovessero veramente finire nelle tasche dei cittadini greci, essi serviranno perlopiù per permettere allo Stato greco di far fonte alle prossime scadenze obbligazionarie: perlopiù titoli in mano all'FMI e alla BCE, la stessa BCE che sta "stampando" 80 miliardi di euro al mese attraverso il suo programma di quantitative easing. Un'enorme partita di giro, insomma, in cui la troika verserà dei soldi "alla Grecia" per permettere alla Grecia di ripagare la troika.
È una copione già visto. Secondo un recente studio della European School of Management and Technology di Berlino - che di fatto non ha fatto altro che confermare quanto già scritto da noi e da altri più di un anno fa - i programmi di "aiuto" a sostegno della Grecia, nel 2010 e nel 2012, in realtà, hanno salvato principalmente le banche e gli investitori privati. Dallo studio risulta che nel bilancio dello Stato greco sono finiti solo 9,7 miliardi, cioè meno del 5 per cento del totale della somma stanziata dai creditori di Atene. I restanti 86,9 miliardi, sono stati assorbiti da vecchi debiti: 52,3 miliardi per gli interessi, e 37,3 miliardi per la ricapitalizzazione delle banche elleniche. Questi dati mostrano quanto sia fallace l'idea secondo cui "i soldi dei contribuenti europei", come siamo soliti leggere, siano serviti a salvare la Grecia e gli altri paesi della periferia; la verità è che, con la scusa di salvare le cicale greche, i soldi dei contribuenti europei - di tutti noi - sono stati utilizzati per salvare ancora una volta le grandi banche del continente. Molte delle quali tedesche.
L'aspetto più interessante dell'accordo, però, è quello di cui si è parlato di meno. Ossia il fatto che, stando a quanto scrive il Sole 24 Ore, esso potrebbe portare alla decisione da parte della BCE di accettare nuovamente i titoli di debito greco come collaterale per le normali operazioni di finanziamento delle banche. La BCE, che normalmente accetta solo titoli investment grade, aveva, fino al febbraio 2015, concesso un'esenzione alla Grecia, poi revocata dopo la rottura delle trattative con i creditori sul programma. Al tempo la misura fu interpretata da molti come un chiaro messaggio rivolto al governo appena insediatosi ad Atene: «Capitolate o sarete costretti a pagarne le conseguenze». La decisione della BCE, infatti, ebbe l'effetto di accelerare la fuga di capitali dal paese, costringendo la banca centrale ad incrementare enormemente il volume dei prestiti di emergenza offerti al sistema bancario greco e mettendo sotto forte pressione il governo. Allo stesso modo, la decisione di riammettere i titoli di Stato greci come collaterale - se confermata - può interpretarsi come il segnale che la BCE ritiene definitivamente sedata la "ribellione" greca. Questo ci fa capire quanto le decisioni che vengono assunte dalla BCE e dagli altri organi dell'UE, a dispetto della narrazione ufficiale, non abbiano proprio nulla di tecnico - il rating dei titoli di Stato greci, infatti, è rimasto invariato (anzi, i tassi sui titoli a dieci anni sono addirittura aumentati dopo la sigla dell'accordo!) - ma abbiano invece una connotazione prettamente politica. Nel caso della BCE: usare l'enorme potere che deriva dalla sua capacità di emettere moneta per costringere i governi a implementare riforme in ambito economico, fiscale e strutturale.
Il recente accordo con l'Eurogruppo, infatti, è giunto pochi giorni dopo che il governo Tsipras è riuscito a far passare in parlamento l'ultimo tassello in vista dei nuovi prestiti, che prevede misure per certi versi ancora più draconiane di quelle adottate finora. Tra queste: un meccanismo che prevede una correzione automatica dei conti pubblici nel caso di deriva del deficit pubblico, una accelerazione delle operazioni di privatizzazione e un aumento delle tasse indirette.
Nel frattempo - e non poteva essere altrimenti, a fronte delle più severe misure di austerità mai implementate in un paese occidentale - il tracollo sociale ed economico della Grecia continua. Come si può vedere dal seguente grafico, da quando SYRIZA si è piegata alla troika - nell'estate del 2015 - la Grecia è caduta nuovamente in recessione.
Il tasso di disoccupazione continua a viaggiare al di sopra del 20 per cento, mentre la disoccupazione giovanile supera addirittura il 50 per cento. Ancora più preoccupanti, però, sono le previsioni che fa il Fondo monetario internazionale, nel succitato rapporto, sulla disoccupazione greca da qui al 2060. Le proiezioni demografiche del Fondo suggeriscono che la popolazione in età da lavoro diminuirà del 10 per cento circa entro il 2060. Di conseguenza, il Fondo stima che - anche se l'economia greca dovesse tornare a crescere e i suoi creditori dovessero concedere un taglio del debito - il tasso disoccupazione raggiungerà il 18 per cento nel 2022, il 12 per cento nel 2040 e il 6 per cento solo nel 2060. In altre parole, ci vorranno quarant'anni per ridurre la disoccupazione greca a un dato vagamente normale. Per i giovani greci, attualmente fuori dal mercato del lavoro, questo significa un'intera vita lavorativa.