La frase corre da tempo, almeno a far data da Tangentopoli. Quando la
configurazione politica della cosiddetta Prima Repubblica crollò di
schianto sotto il maglio delle inchieste giudiziarie, che provavano a
mettere uno stop a un regime di corruzione evidente, sfrontato,
indifendibile.
Venne dunque la stagione (ormai ultraventennale, non proprio un momento di passaggio...) della “discesa in campo della società civile”, che ci ha consegnato Berlusconi e Renzi, un'esplosione delle dimensioni della corruzione legata all'amministrazione pubblica ad ogni livello, la scomparsa di ogni “spirito pubblico” tanto nell'”elettorato” quanto nelle figure che vengono elette o più spesso nominate sulle poltrone dell'amministrazione, un degrado universale sia nella qualità che nel numero dei servizi. Le “facce nuove” che hanno fatto irruzione nelle cariche politico-amministrative neppure più nascondono un istinto predatorio esaltato dal mantra delle privatizzazioni, che – regalando di fatto all'imprenditoria privata pezzi consistenti del patrimonio costruito dall'intervento statale – favorisce la “trattativa privata” tra neo-amministratori inesperti e sapienti “compratori a basso prezzo”. Inutile ribadire che tutto il capitolo degli appalti pubblici ha seguito esattamente la stessa parabola, tra “emergenze”, commissariamenti, “semplificazioni procedurali”, ecc,
Cose risapute, ridette. È vero. Ma la fine patetica di Ignazio Marino sembra aver scoperchiato un punto molto debole del regime renziano. È stato fatto fuori, certamente, perché incapace di governare una grande città. È stato fatto fuori anche se aveva applicato in tutto e per tutto le direttive provenienti da Palazzo Chigi (ovvero da Bruxelles) sul “patto di stabilità”, il taglio della spesa e dei servizi, persino del salario dei dipendenti pubblici, sposato in pieno il clima di vandea contro i lavoratori (ad esempio quelli del Colosseo in “assemblea autorizzata” o contro i tranvieri).
Ma questa incapacità è anche il tratto comune di tutti gli amministratori locali e/o centrali selezionati nella stagione della “società civile”. Certo, nelle grandi città questa incapacità diventa più evidente.
Bene. Pare ora che in vista delle elezioni amministrative di primavera, che investono molte grandi amministrazioni comunali (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Salerno, Cagliari, Rimini, Caserta, Latina, ecc), ci sia un fuggi fuggi davanti alla possibilità di essere candidati alla poltrona di sindaco per il Pd. Strano, non è vero?
Di sicuro c'è della normale vigliaccheria. Un sindaco, di questi tempi, ha pochi o nulli strumenti per amministrare. Il “patto di stabilità” lo inchioda alla ricerca del pareggio di bilancio e/o alla riduzione del debito. Il taglio delle tasse sulla casa ne prosciugherà le entrate certe e li farà dipendere in tutto e per tutto dai trasferimenti decisi dal governo centrale. La loro autonomia operativa è insomma ridotta a zero, ma al tempo stesso la cittadinanza li individua – anche solo per motivi di prossimità, di “raggiungibilità” - come l'interlocutore che dovrebbe risolvere tutti i problemi sociali (dalle buche sulle strade ai servizi di trasporto, dall'istruzione al welfare in dismissione, alla sanità), senza a star lì a sottilizzare su cosa sia di competenza del Comune e cosa di altri livelli amministrativi (Regione, ministeri, ecc).
Parafulmini senza possibilità di scarico a terra, insomma. Una condizione di solitudine, tra il martello popolare e l'incudine governativa, che li espone al rischio di fare tutti la fine di Marino. Rimossi per decisione governativa (agendo sulla maggioranza in giunta) e “ricercati” dalla cittadinanza, anche se una piccola parte continua a sostenerli.
Comprensibile dunque che tutti facciano un passo indietro con un “no, grazie”.
Ma questa “solitudine” degli amministratori mette in luce un processo molto più generale relativo alla sfera della politica e alla selezione della classe politica stessa. L'irruzione della “società civile” ha coperto il parallelo svuotamento dei partiti politici “ideologici”, ovvero portatori di un pogetto complessivo di governo della società giunta a un determinato stadio di sviluppo. Liberali, comunisti, socialisti, democristiani – per dire solo gli schieramenti principali – rappresentavano contemporaneamente interessi sociali ben individuabili e programmi politici per realizzare quegli interessi. In altre parole, la prevalenza di uno o l'altro degli schieramenti, o della composizione dei governi di coalizione, poteva portare a cambiamenti politici, sociali, strutturali anche molto diversi tra loro. Sia al livello dell'amministrazione dello Stato che negli enti locali.
Era il campo privilegiato del riformismo. Che poteva essere anche un po' reazionario, conservatore o moderatamente progressista, ma era sempre riformismo dell'esistente. Gestione orientata progettualmente, insomma.
Tutto questo non è più possibile. La politica di bilancio – la distribuzione e impiego delle risorse nazionali – è dettata dall'Unione Europea. Ed anche le singole misure fiscali che determinano il raggiungimento degli obiettivi di bilancio sono sottoposte all'approvazione Ue. Il “patto di stabilità” è un filo a piombo che parte da Bruxelles e di dirama fino all'ultimo comune sperduto della penisola.
Non c'è insomma più scelta tra soluzioni diverse che rispondono a interessi sociali diversi. Al massimo, si può scegliere tra il consentire alcuni diritti civili oppure no (tengono banco in queste ore le “unioni civili”, con relativi diritti di adozione), che in fondo sono misure gratuite, “senza onere per lo Stato”. A differenza dei diritti sociali come istruzione, sanità, pensioni...
Ma se non c'è più scelta non c'è più politica come rappresentanza di interessi sociali specifici in relazione ad altri interessi sociali. Non c'è dunque necessità né spazio per la “composizione” tra i diversi interessi, ma solo imposizione dell'interesse dominante deciso “in alto”.
Servono sgherri, non politici. Commissari governativi, prefetti, plenipotenziari, non costruttori di consenso intorno a progetti differenti.
Lo stesso Renzi, di fatto, non ha alcun progetto politico proprio. Interpreta più efficacemente di altri un programma continentale: la distruzione del “modello sociale europeo”, di cui la Costituzione italiana era interprete quasi “estremista”, e la creazione di un ambiente favorevole alle irruzioni temporanee del capitale multinazionale. Senza resistenze sindacali e/o popolari.
Il suo cosiddetto partito, il Pd, non assomiglia più in nulla a un partito politico. È un grande comitato elettorale in cui viene selezionata la corte che ha accesso alla presenza del Capo. Non viene richiesta alcuna professionalità politica pregressa, nessuna formazione o esperienza amministrativa. Solo disponibilità a mentire in pubblico e obbedire agli ordini.
Sembra un dispositivo di potere fenomenale, ma è debolissimo, come dimostra la vicenda dei sindaci (vi ricordate, c'era addirittura un “movimento dei sindaci”, molto tempo fa – tre o quattro anni...).
Ovvio che la “spallata” non arriverà mai dall'interno, neanche se si dovesse affermare l'unico comitato elettorale per ora estraneo a questa logica, ovvero i “grillini”.
Ci vuole un movimento popolare vero, rabbioso e informato. A partire dall'informazione fondamentale: il cuore del potere oggi sta nell'Unione Europea. Se non si rompe questa, non ci può esser alcun cambiamento reale. Basta chiedere ai greci...
Non c'è alcun vuoto di potere, anzi... C'è un vuoto di rappresentanza e di classe politica all'altezza. In questo vuoto, di solito, germogliano le dittature.
Venne dunque la stagione (ormai ultraventennale, non proprio un momento di passaggio...) della “discesa in campo della società civile”, che ci ha consegnato Berlusconi e Renzi, un'esplosione delle dimensioni della corruzione legata all'amministrazione pubblica ad ogni livello, la scomparsa di ogni “spirito pubblico” tanto nell'”elettorato” quanto nelle figure che vengono elette o più spesso nominate sulle poltrone dell'amministrazione, un degrado universale sia nella qualità che nel numero dei servizi. Le “facce nuove” che hanno fatto irruzione nelle cariche politico-amministrative neppure più nascondono un istinto predatorio esaltato dal mantra delle privatizzazioni, che – regalando di fatto all'imprenditoria privata pezzi consistenti del patrimonio costruito dall'intervento statale – favorisce la “trattativa privata” tra neo-amministratori inesperti e sapienti “compratori a basso prezzo”. Inutile ribadire che tutto il capitolo degli appalti pubblici ha seguito esattamente la stessa parabola, tra “emergenze”, commissariamenti, “semplificazioni procedurali”, ecc,
Cose risapute, ridette. È vero. Ma la fine patetica di Ignazio Marino sembra aver scoperchiato un punto molto debole del regime renziano. È stato fatto fuori, certamente, perché incapace di governare una grande città. È stato fatto fuori anche se aveva applicato in tutto e per tutto le direttive provenienti da Palazzo Chigi (ovvero da Bruxelles) sul “patto di stabilità”, il taglio della spesa e dei servizi, persino del salario dei dipendenti pubblici, sposato in pieno il clima di vandea contro i lavoratori (ad esempio quelli del Colosseo in “assemblea autorizzata” o contro i tranvieri).
Ma questa incapacità è anche il tratto comune di tutti gli amministratori locali e/o centrali selezionati nella stagione della “società civile”. Certo, nelle grandi città questa incapacità diventa più evidente.
Bene. Pare ora che in vista delle elezioni amministrative di primavera, che investono molte grandi amministrazioni comunali (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Salerno, Cagliari, Rimini, Caserta, Latina, ecc), ci sia un fuggi fuggi davanti alla possibilità di essere candidati alla poltrona di sindaco per il Pd. Strano, non è vero?
Di sicuro c'è della normale vigliaccheria. Un sindaco, di questi tempi, ha pochi o nulli strumenti per amministrare. Il “patto di stabilità” lo inchioda alla ricerca del pareggio di bilancio e/o alla riduzione del debito. Il taglio delle tasse sulla casa ne prosciugherà le entrate certe e li farà dipendere in tutto e per tutto dai trasferimenti decisi dal governo centrale. La loro autonomia operativa è insomma ridotta a zero, ma al tempo stesso la cittadinanza li individua – anche solo per motivi di prossimità, di “raggiungibilità” - come l'interlocutore che dovrebbe risolvere tutti i problemi sociali (dalle buche sulle strade ai servizi di trasporto, dall'istruzione al welfare in dismissione, alla sanità), senza a star lì a sottilizzare su cosa sia di competenza del Comune e cosa di altri livelli amministrativi (Regione, ministeri, ecc).
Parafulmini senza possibilità di scarico a terra, insomma. Una condizione di solitudine, tra il martello popolare e l'incudine governativa, che li espone al rischio di fare tutti la fine di Marino. Rimossi per decisione governativa (agendo sulla maggioranza in giunta) e “ricercati” dalla cittadinanza, anche se una piccola parte continua a sostenerli.
Comprensibile dunque che tutti facciano un passo indietro con un “no, grazie”.
Ma questa “solitudine” degli amministratori mette in luce un processo molto più generale relativo alla sfera della politica e alla selezione della classe politica stessa. L'irruzione della “società civile” ha coperto il parallelo svuotamento dei partiti politici “ideologici”, ovvero portatori di un pogetto complessivo di governo della società giunta a un determinato stadio di sviluppo. Liberali, comunisti, socialisti, democristiani – per dire solo gli schieramenti principali – rappresentavano contemporaneamente interessi sociali ben individuabili e programmi politici per realizzare quegli interessi. In altre parole, la prevalenza di uno o l'altro degli schieramenti, o della composizione dei governi di coalizione, poteva portare a cambiamenti politici, sociali, strutturali anche molto diversi tra loro. Sia al livello dell'amministrazione dello Stato che negli enti locali.
Era il campo privilegiato del riformismo. Che poteva essere anche un po' reazionario, conservatore o moderatamente progressista, ma era sempre riformismo dell'esistente. Gestione orientata progettualmente, insomma.
Tutto questo non è più possibile. La politica di bilancio – la distribuzione e impiego delle risorse nazionali – è dettata dall'Unione Europea. Ed anche le singole misure fiscali che determinano il raggiungimento degli obiettivi di bilancio sono sottoposte all'approvazione Ue. Il “patto di stabilità” è un filo a piombo che parte da Bruxelles e di dirama fino all'ultimo comune sperduto della penisola.
Non c'è insomma più scelta tra soluzioni diverse che rispondono a interessi sociali diversi. Al massimo, si può scegliere tra il consentire alcuni diritti civili oppure no (tengono banco in queste ore le “unioni civili”, con relativi diritti di adozione), che in fondo sono misure gratuite, “senza onere per lo Stato”. A differenza dei diritti sociali come istruzione, sanità, pensioni...
Ma se non c'è più scelta non c'è più politica come rappresentanza di interessi sociali specifici in relazione ad altri interessi sociali. Non c'è dunque necessità né spazio per la “composizione” tra i diversi interessi, ma solo imposizione dell'interesse dominante deciso “in alto”.
Servono sgherri, non politici. Commissari governativi, prefetti, plenipotenziari, non costruttori di consenso intorno a progetti differenti.
Lo stesso Renzi, di fatto, non ha alcun progetto politico proprio. Interpreta più efficacemente di altri un programma continentale: la distruzione del “modello sociale europeo”, di cui la Costituzione italiana era interprete quasi “estremista”, e la creazione di un ambiente favorevole alle irruzioni temporanee del capitale multinazionale. Senza resistenze sindacali e/o popolari.
Il suo cosiddetto partito, il Pd, non assomiglia più in nulla a un partito politico. È un grande comitato elettorale in cui viene selezionata la corte che ha accesso alla presenza del Capo. Non viene richiesta alcuna professionalità politica pregressa, nessuna formazione o esperienza amministrativa. Solo disponibilità a mentire in pubblico e obbedire agli ordini.
Sembra un dispositivo di potere fenomenale, ma è debolissimo, come dimostra la vicenda dei sindaci (vi ricordate, c'era addirittura un “movimento dei sindaci”, molto tempo fa – tre o quattro anni...).
Ovvio che la “spallata” non arriverà mai dall'interno, neanche se si dovesse affermare l'unico comitato elettorale per ora estraneo a questa logica, ovvero i “grillini”.
Ci vuole un movimento popolare vero, rabbioso e informato. A partire dall'informazione fondamentale: il cuore del potere oggi sta nell'Unione Europea. Se non si rompe questa, non ci può esser alcun cambiamento reale. Basta chiedere ai greci...
Non c'è alcun vuoto di potere, anzi... C'è un vuoto di rappresentanza e di classe politica all'altezza. In questo vuoto, di solito, germogliano le dittature.
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