È arrivata persino la benedizione dalle autorità religiose.
L’alleanza tra Iraq, Siria, Iran e Russia rappresenta un “passo nella
giusta direzione”. A scriverlo in un comunicato è stato il capo del
Consiglio supremo islamico iracheno, Ammar al Hakim, in riferimento alla
creazione di un Centro per il coordinamento “’intelligence
quadripartito istituito a Baghdad” per coordinare la loro campagna
militare contro lo Stato islamico. Inoltre la presidente della Camera
alta del Parlamento di Mosca,Valentina Matviyenko, citata dall’agenzia
di stampa Ria, ha fatto sapere che sarà valutata la possibilità di
estendere all’Iraq gli attacchi aerei che sta compiendo in Siria nel
caso in cui ricevesse esplicita richiesta dal premier sciita Haider Al
Abadi. Di fatto, a quattro anni dal ritiro dei militari della Nato, si
fa sempre più concreto il raffreddamento dei rapporti tra il governo
iracheno e gli Stati Uniti, il quale sta entrando progressivamente sotto
la sfera di influenza degli Ayatollah. Già Nouri Al Maliki,
predecessore dell’attuale primo ministro, condusse la resistenza contro
Saddam Hussein proprio da Teheran, città nella quale strinse solidi
rapporti con il clero e il governo iraniano.
Ma c’è un segnale ancora più indicativo – passato sottotraccia nei giornali italiani – che conferma l’allontanamento dell’Iraq dalla sfera d’influenza statunitense. Al Abadi ha annunciato domenica che la “Green Zone” di Baghdad è stata aperta al pubblico per la prima volta in 12 anni, anche se con molte restrizioni rimanenti. “È una delle misure che avevamo promesso al popolo”, ha detto il premier iracheno. Occupata dopo l’invasione del 2003 da parte delle forze statunitensi, quest’area situata nel cuore della capitale, di fianco al fiume Tigri, ha una superficie di 10 km2, ospita la sede del governo e di diverse ambasciate (tra cui quella nordamericana) ed è circondata da muri di cemento alti rinforzati dal filo spinato, protetti da carri armati, veicoli corazzati e membri di un corpo d’elite di sicurezza. Pur essendo tornata sotto il controllo delle autorità irachene dopo il ritiro statunitense la “Green Zone” è sempre stata il simbolo dell’occupazione americana. Non a caso è stata più volte presa di mira nel corso degli anni, soprattutto al culmine della guerra civile tra il 2006 e il 2008. Inoltre questa è diventata sinonimo di scollegamento tra le élite e il popolo iracheno.
Alcuni reporter l’hanno infatti descritta come la riproduzione in piccola scala di una grande metropoli occidentale: un’area protetta con le sue ville di lusso, mentre fuori la gente comune subisce la violenza della quotidianità. Nella sua dichiarazione, Al Abadi ha presentato la riapertura parziale della zona come parte del percorso di riforme. Un’iniziativa che però non è piaciuta a Washington: “Abbiamo più volte espresso le nostre preoccupazioni circa l‘allentamento delle restrizioni” avrebbe affermato il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner, nel corso di una conferenza stampa. Aggiungendo: “Monitoreremo attentamente le condizioni di sicurezza e continueremo ad adattare l’apparato di sicurezza della nostra ambasciata se necessario”.
Ma c’è un segnale ancora più indicativo – passato sottotraccia nei giornali italiani – che conferma l’allontanamento dell’Iraq dalla sfera d’influenza statunitense. Al Abadi ha annunciato domenica che la “Green Zone” di Baghdad è stata aperta al pubblico per la prima volta in 12 anni, anche se con molte restrizioni rimanenti. “È una delle misure che avevamo promesso al popolo”, ha detto il premier iracheno. Occupata dopo l’invasione del 2003 da parte delle forze statunitensi, quest’area situata nel cuore della capitale, di fianco al fiume Tigri, ha una superficie di 10 km2, ospita la sede del governo e di diverse ambasciate (tra cui quella nordamericana) ed è circondata da muri di cemento alti rinforzati dal filo spinato, protetti da carri armati, veicoli corazzati e membri di un corpo d’elite di sicurezza. Pur essendo tornata sotto il controllo delle autorità irachene dopo il ritiro statunitense la “Green Zone” è sempre stata il simbolo dell’occupazione americana. Non a caso è stata più volte presa di mira nel corso degli anni, soprattutto al culmine della guerra civile tra il 2006 e il 2008. Inoltre questa è diventata sinonimo di scollegamento tra le élite e il popolo iracheno.
Alcuni reporter l’hanno infatti descritta come la riproduzione in piccola scala di una grande metropoli occidentale: un’area protetta con le sue ville di lusso, mentre fuori la gente comune subisce la violenza della quotidianità. Nella sua dichiarazione, Al Abadi ha presentato la riapertura parziale della zona come parte del percorso di riforme. Un’iniziativa che però non è piaciuta a Washington: “Abbiamo più volte espresso le nostre preoccupazioni circa l‘allentamento delle restrizioni” avrebbe affermato il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner, nel corso di una conferenza stampa. Aggiungendo: “Monitoreremo attentamente le condizioni di sicurezza e continueremo ad adattare l’apparato di sicurezza della nostra ambasciata se necessario”.
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