Conclusa o meno la battaglia di Kunduz (l’esercito afghano ha
riconquistato alcuni edifici governativi nel raggio di alcune centinaia
di metri del centro città, però i talebani sono ancora nei sobborghi e
sfrontati ne controllano un’ampia area fino all’aeroporto) chi risulta
ancora una volta vittima è la popolazione civile. Completamente in balìa
degli eventi e nient’affatto sicura, come al contrario blatera il
presidente Ghani che conosce e nasconde le magagne della struttura
militare interna. Solo l’intervento aereo Nato e quello diretto via
terra da alcuni reparti statunitensi e britannici hanno dato vita a una
risposta sul campo, perché lunedì scorso buona parte dei settemila
soldati dell’ANSF era rimasta inerte o era fuggita di fronte all’assalto
guerrigliero. L’instabilità d’un governo, che a un anno di vita, sta
subendo lo smacco di queste ore non è una novità per un Paese immerso
nelle guerre da quarant’anni. Ghani da mesi le sta provando tutte, ha
cercato di rilanciare colloqui di pace coi turbanti, ma questi un po’
perché divisi, un po’ perché alla ricerca d’una leadership forte che
sostituisse il mullah Omar, sono rimasti in bilico. Una parte di loro è
assolutamente contraria a ogni accordo, come lo era un quinquennio
addietro. Ora l’uomo di ferro della nuova fase, mullah Mansour, sembra
aver tralasciato ogni ipotesi di trattativa.
L’operazione Kunduz ne è la prova: i Talib si sentono e si mostrano forti e non faranno concessioni a un regime fantoccio ancor più claudicante di quello di Karzai. Il clima di guerra non è affatto un buon viatico per milioni di afghani intrappolati nelle province e anche in grandi centri come Kunduz. I talebani, cambiano tattica, escono dalle zone rurali, si riaffacciano nelle città, cercano di accattivarsi le simpatie della gente, in primo luogo d’ignari giovani che non ne hanno conosciuto passate nefandezze. Poco possono le iniziative di protesta che attivisti coscienti e gruppi politici democratici mettono in atto. Ieri a Kabul c’è stato un raduno spontaneo; quest’estate Hambastagi aveva manifestato contro tutte le sopraffazioni: dei militari Nato, dei talebani, dei signori della guerra che siedono nell’attuale governo. Eppure nelle scorribande dimostrative compiute per due giorni a Kunduz, gli “studenti col kalashnikov” si facevano fotografare dai ragazzi del posto che li osservavano più ammirati che impauriti. Non è una buona prospettiva, commentano gli attivisti democratici, ma il corto circuito creato dai governi collaborazionisti con gli occupanti occidentali e la popolazione è profondo e difficile da sanare, anche perché al di là dei proclami nessun principio democratico è nei programmi del ceto dirigente che guida il Paese. Per non parlare dei fallimentari disegni dei suggeritori d’Oltreoceano.
E fra i tanti sfollati e profughi che nell’estate hanno invaso le isole del Dodecaneso di fronte alle coste turche c’è un gran numero di afghani, come nel 2004-2005 quando l’Enduring Freedom di Bush mostrava gli effetti drammatici della sua deriva e loro fuggivano, affrontando ogni avventura per scampare alla morte. I dati dell’Unama, l’agenzia Onu che s’occupa delle vittime civili, per i primi sei mesi del 2015 riferiscono un numero minore di vittime (1592) ma superiore di feriti (3329) rispetto all’anno precedente. Nella somma la quota aumenta, comunque, dell’1%. Ma esistono province schiacciate in pieno dai conflitti; quella del Badakhshan nei mesi scorsi ha visto quasi raddoppiare il numero degli abitanti uccisi (da 311 a 545). Colpiti anche dalla guerriglia oppure da chi li caccia: in quella zona del nord-est trovano riparo i Tahreek, talebani dissidenti e comunque sanguinari responsabili della strage alla scuola di Peshawar, inseguiti fuori dai confini dall’esercito pakistano. Una guerra nella guerra d’un Medioriente che non si vuole pacificare. I bambini continuano a essere l’anello debole, insieme alle donne, d’uno stillicidio senza fine. La triste statistica dell’anno in corso conferma la tendenza: il 13% in più di vittime per gli infanti, il 23% per sorelle, madri, nonne. Quest’ultime sono sempre meno. Invecchiare è un lusso non concesso al genere femminile afghano.
L’operazione Kunduz ne è la prova: i Talib si sentono e si mostrano forti e non faranno concessioni a un regime fantoccio ancor più claudicante di quello di Karzai. Il clima di guerra non è affatto un buon viatico per milioni di afghani intrappolati nelle province e anche in grandi centri come Kunduz. I talebani, cambiano tattica, escono dalle zone rurali, si riaffacciano nelle città, cercano di accattivarsi le simpatie della gente, in primo luogo d’ignari giovani che non ne hanno conosciuto passate nefandezze. Poco possono le iniziative di protesta che attivisti coscienti e gruppi politici democratici mettono in atto. Ieri a Kabul c’è stato un raduno spontaneo; quest’estate Hambastagi aveva manifestato contro tutte le sopraffazioni: dei militari Nato, dei talebani, dei signori della guerra che siedono nell’attuale governo. Eppure nelle scorribande dimostrative compiute per due giorni a Kunduz, gli “studenti col kalashnikov” si facevano fotografare dai ragazzi del posto che li osservavano più ammirati che impauriti. Non è una buona prospettiva, commentano gli attivisti democratici, ma il corto circuito creato dai governi collaborazionisti con gli occupanti occidentali e la popolazione è profondo e difficile da sanare, anche perché al di là dei proclami nessun principio democratico è nei programmi del ceto dirigente che guida il Paese. Per non parlare dei fallimentari disegni dei suggeritori d’Oltreoceano.
E fra i tanti sfollati e profughi che nell’estate hanno invaso le isole del Dodecaneso di fronte alle coste turche c’è un gran numero di afghani, come nel 2004-2005 quando l’Enduring Freedom di Bush mostrava gli effetti drammatici della sua deriva e loro fuggivano, affrontando ogni avventura per scampare alla morte. I dati dell’Unama, l’agenzia Onu che s’occupa delle vittime civili, per i primi sei mesi del 2015 riferiscono un numero minore di vittime (1592) ma superiore di feriti (3329) rispetto all’anno precedente. Nella somma la quota aumenta, comunque, dell’1%. Ma esistono province schiacciate in pieno dai conflitti; quella del Badakhshan nei mesi scorsi ha visto quasi raddoppiare il numero degli abitanti uccisi (da 311 a 545). Colpiti anche dalla guerriglia oppure da chi li caccia: in quella zona del nord-est trovano riparo i Tahreek, talebani dissidenti e comunque sanguinari responsabili della strage alla scuola di Peshawar, inseguiti fuori dai confini dall’esercito pakistano. Una guerra nella guerra d’un Medioriente che non si vuole pacificare. I bambini continuano a essere l’anello debole, insieme alle donne, d’uno stillicidio senza fine. La triste statistica dell’anno in corso conferma la tendenza: il 13% in più di vittime per gli infanti, il 23% per sorelle, madri, nonne. Quest’ultime sono sempre meno. Invecchiare è un lusso non concesso al genere femminile afghano.
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