giovedì 10 settembre 2015

L’Italia è fondata sul lavoro, ma quale?

C’è un dato che fa riflettere parlando di crisi economica. Il rimodellamento del mercato del lavoro. In un interessante articolo uscito sul Sole24ore di domenica Luca Ricolfi porta alcune cifre: tra il 2008 e il 2014 si sono persi 954mila impieghi in termini assoluti ma parallelamente alcune categorie hanno visto più assunzioni che licenziamenti. Stranieri, donne e over 45 hanno visto aumentare la loro occupazione.
Paradossalmente, ma non così tanto, quelle che erano le fasce marginali, più deboli, del mercato del lavoro sono quelle che hanno visto un rafforzamento delle loro posizioni. Secondo Ricolfi, perché sono meno choosy del maschio italiano under 44. Le donne straniere over 44 addirittura segnano un più 58% e considerando che è l’identikit della badante è un dato allarmante per il sistema-Italia, infatti la produzione industriale continua a non dare segnali di ripresa. Fa sorridere, pensando all’articolo uno della Costituzione. Eppure, anche l’articolo uno merita qualche riflessione. Se si legge la Costituzione degli Stati Uniti d’America, ad esempio, ci si accorge che il lavoro non viene mai citato.
“We the People of the United States, in Order to…”: la costituzione Americana è un esempio di razionalismo settecentesco. Il secolo dei lumi aveva acceso il fuoco della ragione anche oltreoceano. E’ il soggetto in cui risiede la sovranità a parlare, il popolo, che esprime attraverso un atto di volontà la propria forma istituzionale ed enuncia i diritti fondamentali del cittadino.
Quella italiana ha un incipit completamente differente. E’ interessante ricostruirne la genesi. Intanto nasce da una sconfitta rovinosa, culminata in due anni di guerra civile. Il Paese nel ’46, pur nella sbornia di gioia per la fine della guerra e del regime, era ancora profondamente diviso non solo tra vincitori e vinti ma anche tra gli stessi vincitori. Già questo segna una profonda differenza rispetto agli Usa, dove l’atto fondativo dello Stato aveva avuto una duplice valenza positiva: da un lato guerra d’indipendenza dalla madrepatria inglese, e in questo senso rappresenta un prodromo dei moti patriottici europei dell’Ottocento, e contemporaneamente rivoluzione sociale, che porta dalla forma di governo monarchica a quella repubblicana.
In Italia la situazione è completamente differente. C’è da seppellire il fascismo con tutto il suo bagaglio di valori, nessun vuol sentire parlare di Patria, Sovranità, solo di democrazia. Già il concetto di popolo diventa spinoso, esposto com’è a differenti interpretazioni a seconda della parte politica. Così, quando si riunisce l’Assemblea Costituente, nessuno ha dubbi che la forma dello Stato sarà quella Repubblicana, decisa dal popolo tramite referendum, né tanto meno sulla democrazia. Già al terzo concetto però la discussione si inceppa. Fu Aldo Moro a proporre l’accenno al lavoro, subito rilanciato da Togliatti nella formula “Repubblica democratica dei lavoratori”, dal forte sapore d’oltrecortina. Bocciata per ovvi motivi, Amintore Fanfani darà sfoggio di quell’arte diplomatica che alberga nel bagaglio dei talenti di ogni buon democristiano e conierà il testo definitivo “fondata sul lavoro”.
Proprio il lavoro rappresenta un primo timido tentativo di trovare un trait-d-union tra quelle che saranno le due forze protagoniste della democrazia bloccata della Prima Repubblica. Per la dottrina sociale della Chiesa il lavoro è centrale, è determinante di senso e anche di realizzazione dell’uomo, che in quanto modellatore del mondo circostante partecipa alla creazione di Dio. Per il pensiero marxista, il lavoro è la componente chiave della produzione, la sola a fornire il valore aggiunto, il plusvalore, alla produzione (caduta tendenziale del saggio di profitto, Marx).
Da questo fortunato incontro nasce, anche in Italia, quella che Hobsbawn definì “l’età dell’oro” del capitalismo. Capitale e lavoro, attraverso la mutua coordinazione e con la partecipazione dello Stato alla vita economica, si concentrano sulla massimizzazione delle vendite, non dei profitti, e questo determinerà la più grande espansione produttiva della storia dell’Occidente. Produttività e salari, crescendo di pari passo, sostengono congiuntamente la produzione. L’articolo uno nasce dunque dalle contingenze materiali e spirituali del suo tempo e come tutte le parole scritte su un pezzo di carta rischia di prestarsi a più interpretazioni. Nell’Italia post-bellica democristiana e comunista la tutela del lavoro era sicuramente un obbiettivo fondamentale, c’era da ricostruire il Paese. Allargando l’orizzonte di tempo, le prospettive cambiano.
Per le stesse Sacre Scritture, il lavoro è anche una condanna. “Lavorerai la terra col sudore della tua fronte”, questo dice Dio ad Adamo. In quest’ottica, è interessante come Adamo, dismessa la foglia di fico per un grembiule da tessitore, assuma le sembianze di Ned Ludd, che nell’Inghilterra di fine settecento andava distruggendo i telai meccanici. E lo faceva per tutelare il lavoro, anzi, il salario. Eppure, in termini storici, la Mule Jenny era una grande conquista. Permetteva ad un tessitore di fare il lavoro di tre, quattro, cinque uomini, liberando, allo stesso tempo, buona parte dell’umanità dalla schiavitù della tessitura. Gli strumenti agricoli, la cui diffusione spesso incontrò le resistenze dei braccianti padani, nel corso dei secoli hanno permesso ad una quota sempre maggiore di forza lavoro di dedicarsi ad altre attività, lasciando a concimare il solco il sudore delle macchine. E’ una sconfitta del lavoro o una vittoria sul lavoro questa? Questo significa che spesso, nel corso della Storia, una sconfitta dei lavoratori nell’immediato ha rappresentato una vittoria dell’Uomo sul Lavoro nel lungo periodo.
Sette anni di crisi economica hanno il potere di ottundere le capacità sensoriali e fanno perdere di vista il futuro. Renzi ha poco da agitarsi cercando di far assumere qualche migliaio di persone quando gli investimenti sono risibili e la produttività stagnante. Significa che non migliora più la qualità del lavoro, che non si liberano più lavoratori da impieghi che potrebbero venire automatizzati perché costa meno assumere qualcuno meno choosy piuttosto che investire in tecnologia. E questa è una sconfitta per il lavoro e la vittoria di chi interpreta la Costituzione a perdere. Stiamo sconfiggendo i lavoratori senza sconfiggere la fatica, senza perseguire il progresso. Li paghiamo meno, li obblighiamo a fare gli straordinari, li vogliamo licenziare liberamente, tagliamo ferie ed assistenza perché la crisi impone le riforme con la forza della necessità.
La crisi ha riportato indietro le lancette del tempo, cancellando quella fase dello sviluppo occidentale che ha rappresentato uno spartiacque fondamentale. Ad un certo punto il proletariato occidentale ha capito come garantirsi la quota salari anche senza il Pci a proteggerne gli interessi: estinguendosi. Il crollo demografico obbliga il Capitale, in una società chiusa, ad investire nell’automazione, se vuole mantenere la produttività. E’ la ricetta del Giappone, che sta ottenendo risultati fino a pochi anni fa inimmaginabili nella robotica e sta sconfiggendo il lavoro, non il lavoratore.
In Occidente, invece, si è preferito scegliere la strada comoda: aprire i confini, avanti, c’è posto, ad ingrossare le fila dell’esercito industriale di riserva, aumentare la competitività, eliminando le tutele, attrarre i capitali, aumentando la competitività e riducendo la redistribuzione tramite il welfare, e così via. Ogni nuova ricetta sconfigge i lavoratori e non il lavoro

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