venerdì 4 settembre 2015

LE RIFORME STRUTTURALI NON SONO MAI ABBASTANZA STRUTTURALI

Proprio a metà agosto, quando tutti erano distratti, il governo ha rettificato le cifre sulle assunzioni a tempo indeterminato in conseguenza dell'entrata in vigore del "Jobs Act". Gli assunti effettivi sarebbero in realtà poco più della metà dei seicentotrentamila annunciati in un primo momento. Probabilmente a Natale, o a Capodanno, dalla pagina interna di qualche quotidiano, verremo a sapere che anche questa seconda cifra sarà stata ulteriormente rettificata al ribasso.
Fin qui niente di strano, poiché alla spinta occupazionale del "Jobs Act" non aveva creduto nessuno, meno che meno quelli che avevano fatto finta di crederci. Il problema è che queste "riforme strutturali" falliscono anche, e soprattutto, laddove persino gli oppositori più decisi si aspetterebbero un risultato, cioè nell'aumento della produttività e della competitività nei confronti delle cosiddette "economie emergenti". La scorsa settimana l'agenzia Reuters ha raccolto una serie di pareri di esponenti del Fondo Monetario Internazionale e dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo, per spiegare come mai queste "riforme strutturali" non soltanto non raggiungano nessuno degli obiettivi di aumento della competitività, ma, all'opposto, deprimano ancora di più l'economia.
Le spiegazioni fornite da questi "prestigiosi esperti", come al solito, si dimostrano piuttosto fumose e contraddittorie. Sì, sono venti anni che in Italia si fanno "riforme strutturali" in tutti i campi, ma non sono poi strutturali-strutturali come dovrebbero essere. Come diceva Sergio Endrigo, manca sempre una lira per fare un milione.
Insomma, le mitiche "riforme strutturali" non falliscono mai, falliscono solo i governi che le attuano, o perchè non hanno saputo fare i decreti attuativi, o perché la Pubblica Amministrazione non le ha sapute applicare, visto che è rimasta inefficiente nonostante le "riforme strutturali". Qualcuno, come l'ex del FMI Vito Tanzi, si atteggia a maoista del sedicente liberismo, e si spinge a dire che l'Italia avrebbe bisogno di una "rivoluzione culturale". Queste "argomentazioni" sono inattaccabili proprio perché non argomentano su nulla. Lo straparlare di questi "prestigiosi tecnici" serve solo a ribadire il vincolo gerarchico e coloniale che sottopone i governi nazionali come quello italiano alle direttive delle organizzazioni sovranazionali come il FMI e l'OCSE.
In realtà gli effetti recessivi di queste riforme strutturali non sono poi così male, se si considera che la stagnazione europea ha determinato una stagnazione mondiale che sta mettendo in crisi i piani di industrializzazione dei Paesi più poveri, perciò la gerarchia imperialistica è salva. Né il FMI, né l'OCSE, sono mai stati minimamente interessati allo sviluppo dei Paesi più poveri, semmai il contrario; e non ci vuole una mente superiore per capirlo. Più un Paese è povero, più il suo PIL arranca, più alti dovranno essere gli interessi che questo Paese paga sui suoi titoli di Stato. Uno Stato che possa esibire tassi di crescita vivaci, non sarebbe un debitore interessante per le grandi banche internazionali, poiché il suo basso rischio di insolvenza gli permetterebbe di pagare interessi bassi sui propri titoli. Il concetto di "crisi del capitalismo" va quindi completamente rivisto, se si considera che, proprio nel periodo di "crisi", i ricchi sono diventati molto più ricchi ed i poveri molto più poveri. C'è infatti da sottolineare che le "riforme strutturali" hanno favorito lo sviluppo di una serie di business tipici della recessione. Ci sono, ovviamente, le privatizzazioni/svendita. In Grecia la compagnia telefonica OTE, che era di Stato, oggi è controllata in maggioranza da Deutsche Telekom.
I vari "Jobs Act" favoriscono l'intermediazione parassitaria delle agenzie di "somministrazione del lavoro" (quelle che una volta si chiamavano agenzie di lavoro "interinale"). Il caporalato istituzionalizzato delle agenzie di somministrazione del lavoro rappresenta un business trasversale, che piace molto anche alle "sinistre", visto che il ministro del Lavoro (?), Giuliano Poletti, era a capo di una di queste agenzie, Obiettivo Lavoro. Quindi, se c'è qualcuno a cui la disoccupazione fa piacere, è proprio Poletti. Poi, visto che i salari sono bassi ed i posti precari, c'è l'esplosione del credito ai consumi, con il proliferare di agenzie finanziarie, che vengono, direttamente o indirettamente, generate dalle banche. Più sei povero, e più sei costretto ad indebitarti. Ed, infine, ultime, ma non meno importanti, ci sono le agenzie di recupero crediti, perché anche l'insolvenza dei troppo poveri può diventare un grosso business se sai come organizzare la loro persecuzione.

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