Se il ministro degli Esteri Gentiloni ha ventilato pubblicamente la
possibilità di un intervento militare italiano in Libia, un motivo ci
sarà.
Questo motivo, proprio mentre avviene nel Canale di Sicilia l’ennesima “strage di migranti”, parrebbe essere il contenimento dei flussi migratori illegali che, da quando è stata spazzata via la Jamahiriyya, sono ripresi a ritmi sempre più intensi.
Per la verità, i “migranti” arrivavano via mare anche quando era in sella il Colonnello Gheddafi, ma è innegabile che, con la Libia sempre più ridotta ad una sorta di Somalia, la situazione, anche per quanto riguarda il traffico di esseri umani, sia diventata praticamente insostenibile.
Oltretutto, con la proclamazione dell’affiliazione di parte della Cirenaica al preteso “califfato” del Levante islamico, i motivi di preoccupazione, dal nostro punto di vista, non possono che aumentare. Non perché i “jihadisti” s’insinuerebbero tra coloro che sbarcano illegalmente in Italia (anche se pure su quest’aspetto è bene non sottovalutare il pericolo), bensì perché essendo il cosiddetto “fondamentalismo islamico” una creatura dei servizi d’intelligence occidentali, bisogna assolutamente tenere d’occhio gli sviluppi in quella che non ha mai smesso di essere, per noi, la “Quarta sponda”.
Intendiamoci, le milizie “islamiste” che hanno preso il controllo di parte della Libia non costituiscono alcun problema dal punto di vista strettamente militare. Per dirla con una battuta, non sono nemmeno in grado di fare il buco nell’acqua del famoso missile lanciatoci da Gheddafi in uno dei momenti di tensione che caratterizzarono le nostre relazioni con quello che, in definitiva, si dimostrò a conti fatti un buon contraente per l’Italia.
E veniamo allora al perché, cent’anni dopo lo “sbarco a Tripoli”, si ricomincia a pensare di riconquistare la Libia o, perlomeno, di far sì che non vi si crei una situazione troppo negativa per i nostri interessi laggiù.
L’attacco proditorio alla Jamahiriyya, che aveva stipulato con l’Italia un accordo magnifico dopo anni di faticose trattative, venne portato unilateralmente dagli Usa e dalla Francia, soprattutto, che utilizzando sul terreno armati locali e reduci da altre “guerre sante” per procura ebbero la meglio dell’esercito regolare. Sullo sfondo, la Turchia, che storicamente non ha mai smesso di puntare al controllo della Tripolitania e della Cirenaica (infatti la guerra del 1911-12 è chiamata “Italo-turca”, ed è bene ricordare che, all’epoca, tutto il resto dell’Africa del Nord era colonizzato da Francia e Inghilterra).
Ora, l’Italia afferma timidamente di voler far qualcosa, “sotto mandato dell’Onu”, perché sa benissimo chi e perché ha voluto fare della Libia un campo di battaglia.
La nostra politica estera è inscindibilmente legata ai successi dell’Eni, che in Libia rischia di essere sempre più estromesso qualora essa finisse nelle mani di un “califfato” made in England.
Dunque, bisogna far qualcosa, su questo non c’è dubbio. Specialmente perché la crisi ucraina e la chiusura del South Stream non inducono all’ottimismo energetico. E se ci aggiungiamo i tentativi di scatenare una “primavera” o una “ribellione” in Algeria, tutti prontamente sedati dall’esercito, il quadro è sufficientemente preoccupante.
Ma la domanda principale che a questo punto dovremmo porci è la seguente: se non siamo stati in grado, nel 2011, quando eravamo in una posizione di forza, di far valere il nostro punto di vista, come faremo, questa volta, ad imporre la nostra linea contro chi – è sempre bene ricordarselo – detiene sul nostro territorio oltre cento basi ed installazioni militari?
Dio non voglia che, sotto gli squilli di tromba di un ostentato “orgoglio nazionale”, l’Italia si accodi, un’altra volta, ad un ruolo da comprimario, dilapidando soldi e, chissà, pure vite umane, per realizzare l’ennesimo autogol.
Questo motivo, proprio mentre avviene nel Canale di Sicilia l’ennesima “strage di migranti”, parrebbe essere il contenimento dei flussi migratori illegali che, da quando è stata spazzata via la Jamahiriyya, sono ripresi a ritmi sempre più intensi.
Per la verità, i “migranti” arrivavano via mare anche quando era in sella il Colonnello Gheddafi, ma è innegabile che, con la Libia sempre più ridotta ad una sorta di Somalia, la situazione, anche per quanto riguarda il traffico di esseri umani, sia diventata praticamente insostenibile.
Oltretutto, con la proclamazione dell’affiliazione di parte della Cirenaica al preteso “califfato” del Levante islamico, i motivi di preoccupazione, dal nostro punto di vista, non possono che aumentare. Non perché i “jihadisti” s’insinuerebbero tra coloro che sbarcano illegalmente in Italia (anche se pure su quest’aspetto è bene non sottovalutare il pericolo), bensì perché essendo il cosiddetto “fondamentalismo islamico” una creatura dei servizi d’intelligence occidentali, bisogna assolutamente tenere d’occhio gli sviluppi in quella che non ha mai smesso di essere, per noi, la “Quarta sponda”.
Intendiamoci, le milizie “islamiste” che hanno preso il controllo di parte della Libia non costituiscono alcun problema dal punto di vista strettamente militare. Per dirla con una battuta, non sono nemmeno in grado di fare il buco nell’acqua del famoso missile lanciatoci da Gheddafi in uno dei momenti di tensione che caratterizzarono le nostre relazioni con quello che, in definitiva, si dimostrò a conti fatti un buon contraente per l’Italia.
E veniamo allora al perché, cent’anni dopo lo “sbarco a Tripoli”, si ricomincia a pensare di riconquistare la Libia o, perlomeno, di far sì che non vi si crei una situazione troppo negativa per i nostri interessi laggiù.
L’attacco proditorio alla Jamahiriyya, che aveva stipulato con l’Italia un accordo magnifico dopo anni di faticose trattative, venne portato unilateralmente dagli Usa e dalla Francia, soprattutto, che utilizzando sul terreno armati locali e reduci da altre “guerre sante” per procura ebbero la meglio dell’esercito regolare. Sullo sfondo, la Turchia, che storicamente non ha mai smesso di puntare al controllo della Tripolitania e della Cirenaica (infatti la guerra del 1911-12 è chiamata “Italo-turca”, ed è bene ricordare che, all’epoca, tutto il resto dell’Africa del Nord era colonizzato da Francia e Inghilterra).
Ora, l’Italia afferma timidamente di voler far qualcosa, “sotto mandato dell’Onu”, perché sa benissimo chi e perché ha voluto fare della Libia un campo di battaglia.
La nostra politica estera è inscindibilmente legata ai successi dell’Eni, che in Libia rischia di essere sempre più estromesso qualora essa finisse nelle mani di un “califfato” made in England.
Dunque, bisogna far qualcosa, su questo non c’è dubbio. Specialmente perché la crisi ucraina e la chiusura del South Stream non inducono all’ottimismo energetico. E se ci aggiungiamo i tentativi di scatenare una “primavera” o una “ribellione” in Algeria, tutti prontamente sedati dall’esercito, il quadro è sufficientemente preoccupante.
Ma la domanda principale che a questo punto dovremmo porci è la seguente: se non siamo stati in grado, nel 2011, quando eravamo in una posizione di forza, di far valere il nostro punto di vista, come faremo, questa volta, ad imporre la nostra linea contro chi – è sempre bene ricordarselo – detiene sul nostro territorio oltre cento basi ed installazioni militari?
Dio non voglia che, sotto gli squilli di tromba di un ostentato “orgoglio nazionale”, l’Italia si accodi, un’altra volta, ad un ruolo da comprimario, dilapidando soldi e, chissà, pure vite umane, per realizzare l’ennesimo autogol.