Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. I rischi
enormi che corriamo privatizzando l’impossibile in favore degli
stranieri. La crisi economica come figlia di una terribile
alimentazione.
Come sempre nei periodi economicamente critici la prima pulsione è quella di dismettere quanto possibile. Molte volte comunque sfugge la non trascurabile differenza tra un privato cittadino che si trovi costretto a (s)vendere le sue proprietà, e uno Stato, che frequentemente liquida beni pubblici, pertanto dei cittadini.
Questi ultimi però il più delle volte plaudono a siffatte decisioni governative, lamentandosi anzi quando “diminuiscono gli investimenti stranieri”, ritenendo (non a torto effettivamente) che le strutture pubbliche non sempre siano capaci di gestire delle aziende diligentemente. Numerosi italiani poi, non vengono nemmeno sfiorati dal pensiero che un bene possa cambiare o peggiorare semplicemente perché prodotto sotto l’egida di compratori esteri, in quanto quella stessa merce (nei fatti e nella produzione) rimarrebbe –teoricamente- italica, e la conclusione più diffusa è che proprio gli investitori di altri Stati siano i benvenuti, esattamente perché apporterebbero capitali laddove non ve ne sarebbero altrimenti.
E qui il grossolano errore, analizzato attraverso il teorema della carbonara. Si pensi per un momento ai tanti turisti che affollano quotidianamente le nostre piazze. Si provi a immaginarli, con la loro carnagione chiara abbrustolita dal sole – che normalmente non vedono mai – alle loro camicie a maniche corte dalla trama improbabile, ai sandali col calzino. Si pensi poi ai piatti che ordinano, in particolare al cappuccino che accompagna sempre e comunque ogni pasto, che si tratti di pizza o di caprese. Cappuccini ad ogni ora, eccezion fatta per la mattina, rigorosamente ricca di fritture e proteine. Ecco. Quando i soggetti in questione si trovano sul territorio italico non alzano un fiato, se non di meraviglia, e si ingozzano di qualsiasi cibaria felicemente ed in maniera compulsiva.
Ora però si pensi alle stesse persone, prive di scottature, vestiti quasi normalmente, seduti presso ristoranti sempre italiani, ma con sede all’estero. A quel punto i medesimi piatti, preparati con tanto amore ed attenzione per la qualità, vengono disdegnati, diventando di colpo immangiabili ed osceni. Nella pasta al sugo serve più ketchup, sulla pizza ci vuole l’ananas e sulla povera carbonara ci vorranno massicce dosi di panna.
Il cameriere allora, ultimo fedele custode dell’italianità, insisterà nel sostenere (a ragion veduta) che la vera cucina italiana non prevede quella montagna di sozzure. Questo nobile figuro tuttavia, dinanzi alle imperterrite rimostranze di quegli avventori forestieri -e di fronte alla possibilità di perdere clienti su clienti altrimenti transfughi verso la concorrenza attrezzatissima di panna- sarà costretto a cedere all’ignobile ricatto.
Il teorema sopra esposto ci spiega come così facendo inevitabilmente i prodotti italiani (che si tratti di ristorazione come pure di differenti settori) saranno inevitabilmente condannati alla morte qualitativa, in nome del cliente straniero, ignorante ma pagante. Lo stesso accade quando le nostre aziende vengono acquisite dagli “extraitaliani” o dalle multinazionali. Molti pensano si tratti soltanto di un banale cambio di nome su un contratto e, si diceva, di un nuovo apporto di capitali. Ma possiamo esserne sempre sicuri? Perché per risparmiare (e guadagnare) questi padroni delocalizzano, impongono l’uso delle materie prime più economiche (ossia peggiori), assumono lavoratori più convenienti (quindi non italiani), lasciando in finale i nostri compatrioti disoccupati e con prodotti scadenti.
Il problema principale è duplice, anzi unico: manager avidi ed incapaci. Nazionalizzando troppo si rischia di incorrere verso una percezione delle responsabilità sensibilmente minore, giacché gli amministratori sono portati ingenuamente (od opportunatamente?) a pensare che qualora il bilancio dovesse risultare negativo, Pantalone (lo Stato) interverrebbe a risolver la questione. Un esempio pratico fu l’IRI (istituto per la ricostruzione industriale) negli anni Settanta, un mostro pubblico enorme cui spettava la gestione di imprese ed istituti creditizi. Ebbe momenti di gloria, poi vanificati da un’amministrazione inadeguata, incosciente e clientelare.
Dall’altra parte troviamo gli imprenditori privati, vergognosamente colpiti da una tassazione pesantissima ed insana; di contro sono essi stessi talvolta poco attenti alle possibilità ed alle potenzialità di cui godono e che gli si offrono. Quello di cui siamo deficitari è un sistema fiscale equo ed amministratori validi e coraggiosi tanto a livello politico quanto imprenditoriale. Una cosa in realtà semplice ma contemporaneamente di difficile ottenimento. Il governo intanto, mentre distrae i cittadini con riforme inutili come la legge elettorale, continuerà nel silenzio a liquidar tutto, dall’Eni all’Enel passando per le Poste, privando ignobilmente gli italiani dei propri tesori, del lavoro e della dignità; servendo dunque loro un’indigesta carbonara pannosa.
Come sempre nei periodi economicamente critici la prima pulsione è quella di dismettere quanto possibile. Molte volte comunque sfugge la non trascurabile differenza tra un privato cittadino che si trovi costretto a (s)vendere le sue proprietà, e uno Stato, che frequentemente liquida beni pubblici, pertanto dei cittadini.
Questi ultimi però il più delle volte plaudono a siffatte decisioni governative, lamentandosi anzi quando “diminuiscono gli investimenti stranieri”, ritenendo (non a torto effettivamente) che le strutture pubbliche non sempre siano capaci di gestire delle aziende diligentemente. Numerosi italiani poi, non vengono nemmeno sfiorati dal pensiero che un bene possa cambiare o peggiorare semplicemente perché prodotto sotto l’egida di compratori esteri, in quanto quella stessa merce (nei fatti e nella produzione) rimarrebbe –teoricamente- italica, e la conclusione più diffusa è che proprio gli investitori di altri Stati siano i benvenuti, esattamente perché apporterebbero capitali laddove non ve ne sarebbero altrimenti.
E qui il grossolano errore, analizzato attraverso il teorema della carbonara. Si pensi per un momento ai tanti turisti che affollano quotidianamente le nostre piazze. Si provi a immaginarli, con la loro carnagione chiara abbrustolita dal sole – che normalmente non vedono mai – alle loro camicie a maniche corte dalla trama improbabile, ai sandali col calzino. Si pensi poi ai piatti che ordinano, in particolare al cappuccino che accompagna sempre e comunque ogni pasto, che si tratti di pizza o di caprese. Cappuccini ad ogni ora, eccezion fatta per la mattina, rigorosamente ricca di fritture e proteine. Ecco. Quando i soggetti in questione si trovano sul territorio italico non alzano un fiato, se non di meraviglia, e si ingozzano di qualsiasi cibaria felicemente ed in maniera compulsiva.
Ora però si pensi alle stesse persone, prive di scottature, vestiti quasi normalmente, seduti presso ristoranti sempre italiani, ma con sede all’estero. A quel punto i medesimi piatti, preparati con tanto amore ed attenzione per la qualità, vengono disdegnati, diventando di colpo immangiabili ed osceni. Nella pasta al sugo serve più ketchup, sulla pizza ci vuole l’ananas e sulla povera carbonara ci vorranno massicce dosi di panna.
Il cameriere allora, ultimo fedele custode dell’italianità, insisterà nel sostenere (a ragion veduta) che la vera cucina italiana non prevede quella montagna di sozzure. Questo nobile figuro tuttavia, dinanzi alle imperterrite rimostranze di quegli avventori forestieri -e di fronte alla possibilità di perdere clienti su clienti altrimenti transfughi verso la concorrenza attrezzatissima di panna- sarà costretto a cedere all’ignobile ricatto.
Il teorema sopra esposto ci spiega come così facendo inevitabilmente i prodotti italiani (che si tratti di ristorazione come pure di differenti settori) saranno inevitabilmente condannati alla morte qualitativa, in nome del cliente straniero, ignorante ma pagante. Lo stesso accade quando le nostre aziende vengono acquisite dagli “extraitaliani” o dalle multinazionali. Molti pensano si tratti soltanto di un banale cambio di nome su un contratto e, si diceva, di un nuovo apporto di capitali. Ma possiamo esserne sempre sicuri? Perché per risparmiare (e guadagnare) questi padroni delocalizzano, impongono l’uso delle materie prime più economiche (ossia peggiori), assumono lavoratori più convenienti (quindi non italiani), lasciando in finale i nostri compatrioti disoccupati e con prodotti scadenti.
Il problema principale è duplice, anzi unico: manager avidi ed incapaci. Nazionalizzando troppo si rischia di incorrere verso una percezione delle responsabilità sensibilmente minore, giacché gli amministratori sono portati ingenuamente (od opportunatamente?) a pensare che qualora il bilancio dovesse risultare negativo, Pantalone (lo Stato) interverrebbe a risolver la questione. Un esempio pratico fu l’IRI (istituto per la ricostruzione industriale) negli anni Settanta, un mostro pubblico enorme cui spettava la gestione di imprese ed istituti creditizi. Ebbe momenti di gloria, poi vanificati da un’amministrazione inadeguata, incosciente e clientelare.
Dall’altra parte troviamo gli imprenditori privati, vergognosamente colpiti da una tassazione pesantissima ed insana; di contro sono essi stessi talvolta poco attenti alle possibilità ed alle potenzialità di cui godono e che gli si offrono. Quello di cui siamo deficitari è un sistema fiscale equo ed amministratori validi e coraggiosi tanto a livello politico quanto imprenditoriale. Una cosa in realtà semplice ma contemporaneamente di difficile ottenimento. Il governo intanto, mentre distrae i cittadini con riforme inutili come la legge elettorale, continuerà nel silenzio a liquidar tutto, dall’Eni all’Enel passando per le Poste, privando ignobilmente gli italiani dei propri tesori, del lavoro e della dignità; servendo dunque loro un’indigesta carbonara pannosa.
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