martedì 22 luglio 2014

LA PACE IMPOSSIBILE

Oltre quattrocento morti palestinesi, più di duemila feriti e 55mila sfollati, cui vanno aggiunte due vittime israeliane: è questo il bilancio provvisorio dei primi 12 giorni dell’offensiva israeliana a Gaza che è entrata nel vivo giovedì 14 con l’invasione terrestre della Striscia da parte dell’esercito israeliano. Ufficialmente l’operazione ha lo scopo di interrompere i lanci di razzi Qassam da parte di Hamas, ma il vero scopo di Israele è quello di spezzare l’unità del popolo palestinese, riconquistata con l’entrata della stessa Hamas nel governo di unità nazionale palestinese e mantenere Hamas al potere nella Striscia, (seppur militarmente indebolita) in modo da giustificare la “prigione a cielo aperto” che Gaza è diventata dopo il disimpegno israeliano dell’estate del 2005.
Per comprendere appieno la strategia di Tel Aviv nella sua dichiarata guerra contro il terrorismo è necessario comprendere la natura del conflitto israeliano-palestinese, nonché l’essenza stessa del sionismo. Nonostante Israele abbia sempre cercato di descrivere il conflitto come uno scontro religioso o ideologico, infatti, la natura dello scontro è sempre stata di carattere demografico.
Agli albori del sionismo, quando Theodor Herzl teorizzò la creazione di uno stato ebraico in Palestina, si pose il problema della popolazione araba che era largamente maggioritaria nei territori in cui doveva sorgere lo Stato degli ebrei. Rovesciare questo dato demografico e creare una maggioranza ebraica dal fiume Giordano al Mare è sempre stato lo scopo ultimo del sionismo. Per raggiungere questo scopo il sionismo ha utilizzato tutti i mezzi possibili, dall’immigrazione di massa durante il mandato britannico al terrorismo per spingere la popolazione araba ad abbandonare le proprie case fino all’occupazione e colonizzazione della Cisgiordania, con conseguenti misure oppressive per il popolo palestinese, volte non a tutelare la sicurezza degli israeliani ma a rendere impossibile la vita ai palestinesi, per convincerli a trasferirsi in uno qualsiasi degli stati arabi esistenti.
Nonostante questa politica di pulizia etnica mascherata, portata avanti nel silenzio complice dell’Occidente per oltre sessant’anni, il numero di palestinesi tra il Giordano e il mare, ossia in quei territori che Israele rivendica come suoi per diritto divino, non solo non è diminuito, ma al contrario è aumentato fino a raggiungere i 6 milioni di persone, divise tra Cisgiordania, Gaza e la stessa Israele, dove vivono attualmente circa un milione e mezzo di palestinesi.
Vista l’impossibilità di cancellare la presenza araba i sionisti hanno dovuto ripiegare su una soluzione differente, ossia quella di concentrare quanti più arabi possibili in piccoli spazi e annettere tutti i territori rimanenti. Si comprende facilmente che questa strategia, che ha come scopo la colonizzazione e annessione di vaste aree della Cisgiordania, non è applicabile a Gaza, una minuscola striscia di terra abitata da due milioni di palestinesi, dove non esiste lo spazio fisico per colonizzazioni e annessioni. Da qui la politica, apparentemente senza senso, del falco Sharon che ha visto il disimpegno dalla Striscia, dove Hamas (organizzazione terroristica per Israele e per l’Occidente) aveva preso il potere, mentre ha mantenuto una ferrea occupazione sulla Cisgiordania, dove “governa”, nonostante il suo mandato sia largamente scaduto, il moderato Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Ritirare i propri militari da una zona governata da “terroristi” per concentrarsi su un’area amministrata da moderati appare infatti irrazionale dal punto di vista della sicurezza, ma è assolutamente sensato se l’obbiettivo non è l’autodifesa ma l’annessione di territori. A mettere in crisi questo piano strategico sionista sono però intervenuti tre fattori.
Il primo è la presa di coscienza da parte dell’Occidente che lo status quo che Israele mira a prolungare “sine die”, per proseguire con il processo di colonizzazione, non è più tollerabile, e questa consapevolezza ha avuto la sua manifestazione più eclatante nel voto che ha riconosciuto la Palestina come Stato Osservatore all’ONU, dove solo 9 paesi hanno votato contro il riconoscimento dello Stato di Palestina (tra cui vari “Paesi” da operetta come le Isole Marshall, la Micronesia, Palau e Narau) mentre 138 Stati hanno votato per il sì e 41 si sono astenuti.
Il secondo elemento a rendere sempre più tortuoso, se non impossibile, il percorso tracciato dal sionismo per liberare la Palestina storica dalla sua popolazione araba è l’emersione di un equilibrio globale sempre più multipolare, in cui gli USA, alleati storici di Israele, sono uno Stato che, seppur ancora influentissimo sul piano diplomatico e potentissimo sul piano militare, deve venire a patti con le altre grandi potenze globali, in primis Russia e Cina, alleati degli arabi e sostenitori della causa palestinese. In un contesto simile gli Usa non hanno più la forza (e forse neppure la volontà) di costringere il mondo a “guardare altrove” per tutto il tempo necessario a Israele per terminare il lavoro intrapreso.
In questo contesto il terzo dato, ossia il tentativo di ricomposizione della fazioni palestinesi in guerra e la nascita di un governo di unità nazionale, è visto dallo Sato ebraico come una minaccia mortale alle sue mire espansionistiche per due ragioni. La prima è che proprio la divisione dei palestinesi in due fazioni, di cui solo una riconosce il diritto all’esistenza di Israele (ossia Al-Fatah, è la motivazione ufficiale addotta di Israele per evitare di concedere l’autonomia allo Stato Palestinese che, obietta Tel Aviv, rischierebbe di trasformarsi in una nuova Gaza con la presa del potere da parte di Hamas. La seconda ragione è che uno Stato palestinese comprensivo di Gaza e con libertà di spostamento per la popolazione porterebbe il numero complessivo di arabi nel territorio conteso a circa 6 milioni di persone, con un forte aumento della presenza araba in Cisgiordania, rendendo quindi impossibile il sogno israeliano di “liberare” dalla popolazione palestinese se non l’intera Cisgiordania almeno sue vaste aree, tollerando una qualche forma di autogoverno palestinese (possibilmente temporanea, in attesa del concretizzarsi di una solida maggioranza ebraica che ne consenta l’annessione) su alcune piccole enclavi cisgiordane.
I 426 morti palestinesi, numero che purtroppo è destinato ad aumentare nei prossimi giorni, testimoniano il rifiuto ostinato di Israele di accettare la realtà del fallimento del progetto sionista e la presenza di due popoli, numericamente ormai equivalenti, nel piccolo territorio dell’ex mandato britannico, popoli destinati a convivere laddove l’ideologia sionista aveva previsto la presenza di un solo popolo, quello ebraico, con una residua minoranza araba tollerata a fatica. Non ci potrà essere pace in Medio Oriente fino a quando Israele non si convincerà che i palestinesi rimarranno in Palestina, e smetterà di essere uno Stato sionista per diventare semplicemente uno Stato come tutti gli altri, che non distingue tra cittadini di fedi o etnie diverse e che non persegue una radicale modifica demografica dei territori che amministra o occupa. E visto che sembra che gli israeliani siano ben lontani dall’accettare questo dato di fatto, se non si vuole che il bagno di sangue continui, è improcrastinabile che sia la Comunità Internazionale, fino ad ora incapace di imporre alcunché a Tel Aviv, a obbligare lo Stato di Israele (non più Stato ebraico) a fare i conti con la realtà.

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