Perlomeno
ancora fino al 21 aprile Petro Porošenko rimane Presidente dell’Ucraina
golpista; e ci sono discrete premesse perché continui a esserlo anche
dopo. Vista l’infinità di sondaggi, che convergevano sulla pedina di
Igor Kolomojskij – lo showman Vladimir Zelenskij – nessuno si attendeva
un ribaltamento dell’ultimo minuto. Ma quegli stessi sondaggi hanno
sempre indicato che, in caso di secondo turno, Petro dovrebbe spuntarla.
Vedremo.
Intanto qualche cifra. Ancora nel tardo pomeriggio di domenica, gli exit pool davano Zelenskij al 28% e al secondo posto Jurij Bojko col 19%, seguito da Petro col 17%. Ma quando il risultato è prossimo a essere definitivo, Zelenskij ha il 30,4%, raggiungendo il 42,4% nelle aree orientali del paese e il 38,8% al sud.
Porošenko diventa secondo col 17,8% (il 29% nella capitale e il 26,5% nelle regioni occidentali). Vengono poi Julija Timošenko (14,2%), Jurij Bojko (9,8%), Anatolij Gritsenko (7,1%), l’ex capo del SBU Igor Smeško (6,4%), il radicale Oleg Ljaško (4,8%) e Aleksandr Vilkul (4,0%).
La Commissione elettorale centrale ha dichiarato che negli elenchi elettorali erano incluse 29,6 milioni di persone; ma solo 18,8 milioni avevano ricevuto la scheda. La stessa CEC è oggi accusata di fornire dati contraddittori; al momento della chiusura dei seggi l’affluenza era stata data al 47%, ma appena qualche ora dopo la cifra era magicamente balzata al 63,5% (dal 69% nella regione di L’vov, al 47% della Transcarpazia), sollevando sospetti di aggiunte in massa di schede, probabilmente già votate.
Ora, data la tacita (nemmeno tanto) alleanza pre-elettorale tra Kolomojskij e Timošenko, non si può escludere che, il 21 aprile, l’elettorato di colei che voleva bombardare con l’atomica i russi del Donbass, venga sollecitato a riversare i propri voti su Zelenskij. Tutto dipende, come sempre, dal prezzo e da cosa offrirà l’attuale presidente che, negli ultimi giorni prima del voto, secondo news-front.info, ha ricevuto una forte spinta dal team di esperti in tecnologie promozionali urgentemente catapultati dagli Stati Uniti: segno che Washington non ha del tutto escluso Porošenko dai propri piani.
Si parla anche del sostegno della “donna dalla treccia” a Zelenskij, in cambio della firma di un memorandum per una coalizione parlamentare, con l’obiettivo dell’introduzione del doppio turno per le elezioni alla Rada previste per il prossimo autunno.
Non va dimenticato che dal voto erano esclusi alcuni milioni di ucraini, principalmente quelli residenti in Russia (nessun seggio era stato allestito né all’ambasciata ucraina a Mosca, né nei cinque consolati) e gli abitanti delle Repubbliche popolari del Donbass. I quali ultimi, sentiti ieri nelle strade di Donetsk, si erano detti per la maggior parte convinti che non ci sarà alcun mutamento nei rapporti di Kiev col Donbass, chiunque esca vincitore dalle elezioni e che solo, forse, nel caso della vittoria di Jurij Bojko (a questo punto sfumata) qualcosa avrebbe potuto raddrizzarsi.
Intanto, già durante la giornata elettorale del 31 marzo, Porošenko non ha perso occasione per farsi ancora un po’ di propaganda (formalmente, proibita) ricordando che il 1 aprile, scade il “Trattato di amicizia” con la Russia: “Passo dopo passo continueremo ad andare per la nostra strada” ha declamato su Facebook, “tornando a casa, in Europa, e tagliando i ponti con Mosca, che non ha potuto abbandonare le proprie ambizioni imperiali”. Intriso di tanto pathos, Porošenko non ha mancato di apporre la firma a cotanta declamazione sullo sfondo delle bandiere ucraina, UE e NATO, con la scritta ”La nostra via è la strada verso UE e NATO”.
Il trattato di amicizia, cooperazione e partenariato tra la Russia e l’Ucraina era stato firmato nel maggio 1997 ed entrato in vigore nell’aprile 1999, con una validità di 10 anni e rinnovo automatico per i seguenti periodi decennali; lo scorso settembre Kiev aveva notificato a Mosca la decisione di non rinnovare il documento.
Intanto qualche cifra. Ancora nel tardo pomeriggio di domenica, gli exit pool davano Zelenskij al 28% e al secondo posto Jurij Bojko col 19%, seguito da Petro col 17%. Ma quando il risultato è prossimo a essere definitivo, Zelenskij ha il 30,4%, raggiungendo il 42,4% nelle aree orientali del paese e il 38,8% al sud.
Porošenko diventa secondo col 17,8% (il 29% nella capitale e il 26,5% nelle regioni occidentali). Vengono poi Julija Timošenko (14,2%), Jurij Bojko (9,8%), Anatolij Gritsenko (7,1%), l’ex capo del SBU Igor Smeško (6,4%), il radicale Oleg Ljaško (4,8%) e Aleksandr Vilkul (4,0%).
La Commissione elettorale centrale ha dichiarato che negli elenchi elettorali erano incluse 29,6 milioni di persone; ma solo 18,8 milioni avevano ricevuto la scheda. La stessa CEC è oggi accusata di fornire dati contraddittori; al momento della chiusura dei seggi l’affluenza era stata data al 47%, ma appena qualche ora dopo la cifra era magicamente balzata al 63,5% (dal 69% nella regione di L’vov, al 47% della Transcarpazia), sollevando sospetti di aggiunte in massa di schede, probabilmente già votate.
Ora, data la tacita (nemmeno tanto) alleanza pre-elettorale tra Kolomojskij e Timošenko, non si può escludere che, il 21 aprile, l’elettorato di colei che voleva bombardare con l’atomica i russi del Donbass, venga sollecitato a riversare i propri voti su Zelenskij. Tutto dipende, come sempre, dal prezzo e da cosa offrirà l’attuale presidente che, negli ultimi giorni prima del voto, secondo news-front.info, ha ricevuto una forte spinta dal team di esperti in tecnologie promozionali urgentemente catapultati dagli Stati Uniti: segno che Washington non ha del tutto escluso Porošenko dai propri piani.
Si parla anche del sostegno della “donna dalla treccia” a Zelenskij, in cambio della firma di un memorandum per una coalizione parlamentare, con l’obiettivo dell’introduzione del doppio turno per le elezioni alla Rada previste per il prossimo autunno.
Non va dimenticato che dal voto erano esclusi alcuni milioni di ucraini, principalmente quelli residenti in Russia (nessun seggio era stato allestito né all’ambasciata ucraina a Mosca, né nei cinque consolati) e gli abitanti delle Repubbliche popolari del Donbass. I quali ultimi, sentiti ieri nelle strade di Donetsk, si erano detti per la maggior parte convinti che non ci sarà alcun mutamento nei rapporti di Kiev col Donbass, chiunque esca vincitore dalle elezioni e che solo, forse, nel caso della vittoria di Jurij Bojko (a questo punto sfumata) qualcosa avrebbe potuto raddrizzarsi.
Intanto, già durante la giornata elettorale del 31 marzo, Porošenko non ha perso occasione per farsi ancora un po’ di propaganda (formalmente, proibita) ricordando che il 1 aprile, scade il “Trattato di amicizia” con la Russia: “Passo dopo passo continueremo ad andare per la nostra strada” ha declamato su Facebook, “tornando a casa, in Europa, e tagliando i ponti con Mosca, che non ha potuto abbandonare le proprie ambizioni imperiali”. Intriso di tanto pathos, Porošenko non ha mancato di apporre la firma a cotanta declamazione sullo sfondo delle bandiere ucraina, UE e NATO, con la scritta ”La nostra via è la strada verso UE e NATO”.
Il trattato di amicizia, cooperazione e partenariato tra la Russia e l’Ucraina era stato firmato nel maggio 1997 ed entrato in vigore nell’aprile 1999, con una validità di 10 anni e rinnovo automatico per i seguenti periodi decennali; lo scorso settembre Kiev aveva notificato a Mosca la decisione di non rinnovare il documento.
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