Ha
ragione il presidente dell’INPS, dagli anni 70 in Italia non ci sono
significative riduzioni dell’orario di lavoro. Anzi negli ultimi anni
chi lavora, lavora di più. Quindi ridurre l’orario è necessario, ma non
solo per ridurre la disoccupazione, ma per redistribuire davvero la
produttività e per migliorare complessivamente le condizioni di vita. Un
lavoratore italiano la ora 300 ore all’anno in più di un tedesco,
questo significa che la riduzione d’orario è possibile solo con un
radicale cambiamento di politica economica.
Di
fronte alla potente innovazione tecnologica della cosiddetta industria
4.0 non dobbiamo ripetere gli errori compiuti con l’invenzione della
categoria del postfordismo. Questa categoria ha confuso un progresso
tecnico e un cambiamento nella organizzazione del lavoro manifatturiero e
nella sua distribuzione mondiale a favore dei paesi di nuova
industrializzazione, con un cambiamento di sistema; non è così.
Non
ci sono mai stati tanti operai nel mondo come da quando si é cominciato
a parlare di fine della classe operaia. Non c’è mai stato tanto lavoro
salariato come da quando si è proclamato il suo superamento. Non si è
mai esteso tanto il taylorismo come da quando si detto che la nuova
organizzazione del lavoro lo avrebbe eliminato. Oggi il Taylorismo si
estende a tutto il lavoro che una volta si sarebbe detto intellettuale o
di servizio. Quindi se è vero che come in agricoltura avremo una
riduzione della occupazione manifatturiera strettamente definita,
l’industria si estenderà a lavori ieri impensabili, che oggi chiamiamo
di servizi pubblici e privati.
La
cosiddetta terziarizzazione è la industrializzazione di nuovi settori.
Con questa ottica, cioè che il capitalismo, finche esisterà non potrà
fare ameno di due cose: diffondere il lavoro salariato e controllarne
sempre di più il tempo di lavoro, con questa ottica bisogna affrontare
il tema della necessaria riduzione degli orari di lavoro.
In
Italia nel 1932 in piena grande depressione il padrone della Fiat
Giovanni Agnelli scriveva a Luigi Einaudi per sostenere la riduzione
dell’orario di lavoro.
La
motivazione era la diversa velocità innovazione tecnologica ed
ordinamento del lavoro. Einaudi rispose con la solita ideologia
liberista: lo stato non deve combattere la disoccupazione perché essa è
salutare e il sistema di mercato reagisce automaticamente ad essa.
Naturalmente vinse Einaudi è il fascismo si schierò con lui.
Nello
stesso periodo Keynes prevedeva che lo sviluppo della produttività
avrebbe liberato tempo di lavoro e che nel 2000 non si sarebbe lavorato
più di trenta ore settimanali. Perché non é successo, quando e come si è
interrotto il processo storico di riduzione dell’orario di lavoro?
Per chiarire effettivamente cosa è successo bisogna distinguere tra
ORARIO LEGALE DI LAVORO
ORARIO CONTRATTUALE DI LAVORO
ORARIO DI FATTO
ORARIO DI PRESTAZIONE EFFETTIVA E TEMPO DI LAVORO REALE
Le quattro fatti specie hanno una dinamica bel tempo differente tra loro e quindi vanno esaminate separatamente.
L’ORARIO
LEGALE DI LAVORO, con l’eccezione della della Francia e di pochi altri
paesi è fermo sostanzialmente ai primi anni venti del secolo scorso,
quando la legislazione nei paesi industrializzati stabilì le 8 ore
giornaliere intese come 48 ore settimanali. Se alla dine degli anni
sessanta la legislazione ha favorito la riduzione degli orari, a partire
dagli anni 80 tale tendenza si è interrotto, con l’eccezione della
Francia. La spinta liberista ha poi imposto anche legalmente il concetto
di orario medio rispetto a quello massimo, il che ha portato ad una
legislazione che pur non aumentando l’orario massimo, lo ha spalmato su
tutto l’anno di fatto trasformando l’orario settimanale in orario
annuale.
L’ultima
direttiva europea in fatto di orari, del 2003, definisce l’orario
settimanale di 48 ore come MEDIO e con l’obbligo di quattro settimane di
ferie. Quindi l’orario di lavoro massimo annuale nella UE può
legalmente arrivare fino a 2304 ore, ben al di sopra degli orari di
fatto di qualsiasi paese dell’Unione. Quanto alla durata massima della
giornata di lavoro per la UE è di 13 ore, con l’obbligo di riposo di 11
ore. Va detto che in Italia queste 11 ore di riposo hanno ricevuto
deroghe contrattuali, il governo Berlusconi le aveva persino imposte per
legge nella sanità, cioè si è lavorato con tempi di riposo inferiori.
Si
può dire quindi che la legislazione, con la introduzione della
flessibilità, abbia complessivamente aumentato l’orario massimo di
lavoro.
Come
sappiamo gli ORARI CONTRATTUALI sono diminuiti quasi ovunque fino
all’inizio degli anni 80 del secolo scorso. In Italia questo ha
significato la conquista delle 40 ore settimanali, che poi sono
diventate 37 e mezzo per i turnisti con la pausa mensa. È bene ricordare
che la riduzione d’orario fu voluta dagli operai come settimana corta.
Nel contratto dei metalmeccanici del 1969 fu posta infatti in
consultazione l’ipotesi alternativa di riduzione dell’orario
giornaliero, ma essa fu respinta a grande maggioranza a favore del week
end libero. Ed è bene altresì ricordare che negli anni 70 fu la lotta
operaia ad imporre l’innovazione tecnologica e persino l’automazione,
come in FIAT. E questa automazione non faceva paura né riduceva
l’occupazione complessiva.
A
partire dagli anni 80 la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro
per via contrattuale si ferma, con l’eccezione della Germania dove la IG
Metall conquista le 35 ore, con una lotta durissima.
Da
noi anche sul piano contrattuale comincia ad affermarsi la linea della
flessibilità, per cui le richieste di riduzione dell’orario, a partire
dagli anni 80 diventano giornate di riposo in più, spesso giocate nel
quadro dei ritmi produttivi aziendali. La lotta sugli orari è sempre più
legata all’utilizzo degli impianti ( senza però ottenere risultati
strutturali come la quinta squadra strutturale nel ciclo continuo,
obiettivo fallito in Italia e realizzato parzialmente in Francia. Nello
stesso tempo aumenta il ricorso allo straordinario che in tutti i
contratti diventa in parte obbligatorio. In Italia ancora negli anni 90
si lotta su questo terreno, fino alla vertenza della FIAT di Melfi del
2004 contro le turnazioni imposte dall’azienda. Poi non si hanno più
vertenze significative sugli orari di lavoro.
In
questo contesto di arresto della riduzione legale e contrattuale degli
orari, gli ORARI DI FATTO subiscono comunque una riduzione nel tempo.
Essa è sia una riduzione voluta dell’orario, sia quella naturale e
fisiologica che corrisponde cioè all’utilizzo effettivo della forza
lavoro da parte delle imprese. Infatti vediamo che i paesi che
effettivamente riducono l’orario di lavoro per legge o contratto, come
la Francia e la Germania, hanno orari annuali molto più bassi
dell’Italia, che comunque riduce i suoi orari annuali, aumentando però
la differenza del tempo di lavoro. Cioè gli operai italiani diventano
gli stakanovisti d’Europa. Questo nonostante il dilagare di contratti
part time che teoricamente dovrebbero registrare orari di prestazione
inferiori.
E
qui arriviamo al TEMPO DI LAVORO REALE. Cioè a quanto il lavoratore è
effettivamente Ecco Così giungiamo al TEMPO DI LAVORO REALE che vede il
lavoratore effettivamente impegnato nella prestazione lavorativa . Qui a
partire dagli anni 80 abbiamo un colossale AUMENTO.
Tale incremento avviene con quattro operazioni fondamentali.
La
riduzione della porosità del tempo di lavoro. Cioè la soppressione
delle pause tecniche che si raggiunge con la razionalizzazione del
processo produttivo tramite informatica e nuovo taylorismo. A questo si
aggiunge anche l’attacco alle pause contrattuali e fisiologiche
ufficiali. La sostanza è che otto ore di lavoro oggi sono molto più
piene e faticose di qualche decennio fa.
La
seconda operazione e la riduzione apparente degli orari a cui
corrisponde un aumento non adeguatamente retribuito. Ad esempio le ore
supplementari imposte ai lavoratori part time, che spesso li portano a
lavorare oltre lo stesso orario contrattuale.
La
terza operazione è determinata dal tempo in cui si é disposizione del
lavoro senza essere effettivamente considerati al lavoro. È una lotta di
classe sul tempo che i padroni oggi conducono intensamente: tutto il
mondi del lavoro precario, ma non solo quello, la subisce. Per fare
un’ora retribuita di lavoro si devono spendere ore del proprio tempo in
attesa della chiamata. È tempo di lavoro non retribuito. Il lavoro
gratuito dilaga e aumenta l’orario complessivo di lavoro anche se non
viene considerato tale, all’opposto del tempo tuta, cioè il tempo per
gli operai di vestirsi per il lavoro, considerato tempo di lavoro da
molte sentenze. Ecco oggi al contrario aumenta il tempo di lavoro
complessivo, ma diminuisce il tempo di lavoro riconosciuto come tale ed
effettivamente retribuito. Quello che si chiama essere pagati in base ai
risultati, come ha teorizzato l’ex ministro Poletti, in realtà è
aumento di lavoro gratuito.
Infine
l’elevazione dell’età pensionabile aumenta il tempo di lavoro in vita,
la riforma Fornero comporta mediamente da 5000 a 7000 ore di la oro in
più nella vita di una persona.
Da questi dati emergono due conclusioni.
La
prima e che la svolta liberista degli anni 80 ha portato al blocco
sostanziale del processo storico di riduzione degli orari e anche ad un
loro aumento in termini di tempo di lavoro reale. La flessibilità degli
orari e la precarizzazione del lavoro sono stati le basi di questo
processo.
La
seconda è che la riduzione d’orario come progettata da Agnelli e da
Keynes, come soluzione razionale e condivisa della disoccupazione non
sarà mai davvero accettata dalle classi imprenditoriali. Che sempre
puntano a combinare l’evoluzione della tecnologia con l’estrazione di
plusvalore assoluto, cioè cercando di allungare il più possibile
l’orario di lavoro. E siccome nelle crisi aumenta la disoccupazione e
quindi si riduce il potere contrattuale del lavoro verso il capitale,
paradossalmente è più facile ridurre l’orario quando c’è piena
occupazione, che quando servirebbe a ridurre la disoccupazione.
Per questo oggi abbiamo lavoro straordinario e disoccupati assieme, non solo nel sistema ma anche nella stessa azienda.
Se
si vuole, ed è giusto volerlo, la riduzione generalizzata dell’orario
di lavoro a parità di salario, non si può pensare ad essa come la
soluzione tecnica del problema tecnico della disoccupazione.
Essa
va invece pensata nel quadro di un cambiamento complessivo della
società, sia dal lato dei rapporti di potere tra le classi, sia da
quello del modo di vivere.
Non
si riduce l’orario di lavoro se il padrone ha il dominio assoluto del
tempo del lavoratore e se la società è governata dal profitto. La lotta
dei lavoratori per essere più liberi dal lavoro e nel lavoro e quella
per politiche economiche di rottura con il liberismo e per la piena
occupazione sono necessarie assieme.
E con esse deve riemergere la questione di fondo del rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita.
La
lotta per le 8 ore fu lanciata dalla Prima Internazionale già nel 1866.
Era per allora, con orari giornalieri di 10 12 ore, una idea
visionaria.
Che
si reggeva su un progetto di vita chiaro: la ripartizione della
giornata in tre parti uguali, una per il lavoro, una per il riposo, una
per sè stessi. La forza razionale di questa visione servi ad affermarla.
Oggi
che rapporto noi pensiamo tra tempo di lavoro e tempo di vita? Come
proponiamo che sia una più giusta ripartizione del tempo?
In
Germania c’è stata una prima apertura verso le 28 ore settimanali.
Pensiamo a questo obiettivo e lo generalizziamo? E come ripariamo nella
settimana queste ore? Queste sono le domande concrete a cui dobbiamo
rispondere, magari costruendo la risposta con una consultazione,
discussione di massa come fecero i metalmeccanici nel 1969.
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