E’
dagli anni Settanta, da Berlinguer in poi, che agli italiani gli si
dice che stanno “vivendo al di sopra dei propri mezzi”, una vulgata che
passa dai partiti ai media, dagli intellettuali ai cosiddetti
economisti.
Poi capita che vai sul sito della banca centrale italiana e vedi tutt’altro. Ci riferiamo al Bollettino Economico uscito ieri e al comunicato Bilancia dei Pagamenti.
Incominciano con il primo. Ebbene, i funzionari del capitale italiano ci informano che la posizione finanziaria netta, vale a dire il saldo tra attivi e passivi finanziari, è lievemente debitoria. Vi è un passivo di 67 miliardi alla fine del 2019, il 3,9% del pil, dovuto alla discesa dei corsi azionari globali.
Per fare un raffronto, in Usa il saldo è negativo per il 35% del Pil, nella tanto decantata Spagna addirittura dell’86%. Questo paese, cioè, come prima della crisi del 2008, cresce grazie ai prestiti esteri, mentre l’Italia ha ridotto in questi cinque anni la posizione finanziaria netta di 20 punti percentuali e ormai la percentuale è irrisoria.
Significa che paghiamo i debiti e soprattutto abbiamo una mole enorme di attivi finanziari investiti all’estero.
Per avere un’idea, basti dire che a febbraio di quest’anno il surplus delle partite correnti (merci, servizi, redditi) è aumentato a 46 miliardi di euro, il 2,6% di pil, un’enormità. Stiamo dunque vivendo molto al di sotto delle nostre possibilità e dei nostri mezzi, contrariamente a quanto dice la vulgata corrente.
Al calo del surplus delle merci, da 55 a 49 miliardi, dovuto alla risalita dei prezzi energetici, ha fatto da contraltare il surplus dei servizi dovuto alla voce “spese dei turisti stranieri”, ma soprattutto il boom dei redditi primari.
Questi sono cedole, interessi, affitti, plusvalenze finanziarie di attivi investiti all’estero. Il surplus di questa voce è passata da 9,4 miliardi a 17,3 miliardi, più di un punto percentuale di pil.
L’Italia campa di rendita, insomma. O perlomeno alcuni italiani: quelli ricchi.
Gli attivi finanziari italiani spostati all’estero, almeno quelli ufficiali, sono pari a 900 miliardi di euro, ma c’è da aggiungere che dal 1963 vige la regola dello spallone, vale a dire l’esportazione illegale di capitali. Lo stock di questa voce è praticamente sconosciuto, ma si tratta senz’altro di un’enormità.
C’è poi un’altra voce da tenere d’occhio, il risparmio gestito. Negli ultimi 8 anni ha avuto un boom e ormai vengono amministrati circa 2.200 miliardi di euro, al 95% investiti in attività finanziarie estere.
Chi ha tutti questi capitali? Nei giorni scorsi abbiamo informato del dato Istat sul tasso di profitto delle imprese non finanziarie, pari al 41.7% (il più alto della media dell’eurozona), contro un tasso di investimento pari al 21,2%. Una differenza di 20 punti percentuali, spostati in attività finanziarie.
Banca d’Italia informa inoltre che è cresciuta la liquidità delle imprese non finanziarie e ormai si porta al 13% del valore aggiunto. Insomma, i capitalisti industriali sono pieni di soldi ma non investono.
Marcello De Cecco inquadrava questo costume sin dal 1963, con la stretta creditizia di Carli e lo “sciopero degli investimenti”. Si protrae da allora. Ma allora faceva da contraltare il sistema delle partecipazioni statali che programmavano, negli anni delle lotte sociali, massicci investimenti. Tolti di mezzo questi, grazie al volere dell’Unione Europea, non è rimasto più nulla.
Si campa – chi può farlo – sugli stock di rendita, non sui flussi. E ai metalmeccanici, grazie ai confederali, gli si dà un aumento mensile di 1,5 euro…
Poi capita che vai sul sito della banca centrale italiana e vedi tutt’altro. Ci riferiamo al Bollettino Economico uscito ieri e al comunicato Bilancia dei Pagamenti.
Incominciano con il primo. Ebbene, i funzionari del capitale italiano ci informano che la posizione finanziaria netta, vale a dire il saldo tra attivi e passivi finanziari, è lievemente debitoria. Vi è un passivo di 67 miliardi alla fine del 2019, il 3,9% del pil, dovuto alla discesa dei corsi azionari globali.
Per fare un raffronto, in Usa il saldo è negativo per il 35% del Pil, nella tanto decantata Spagna addirittura dell’86%. Questo paese, cioè, come prima della crisi del 2008, cresce grazie ai prestiti esteri, mentre l’Italia ha ridotto in questi cinque anni la posizione finanziaria netta di 20 punti percentuali e ormai la percentuale è irrisoria.
Significa che paghiamo i debiti e soprattutto abbiamo una mole enorme di attivi finanziari investiti all’estero.
Per avere un’idea, basti dire che a febbraio di quest’anno il surplus delle partite correnti (merci, servizi, redditi) è aumentato a 46 miliardi di euro, il 2,6% di pil, un’enormità. Stiamo dunque vivendo molto al di sotto delle nostre possibilità e dei nostri mezzi, contrariamente a quanto dice la vulgata corrente.
Al calo del surplus delle merci, da 55 a 49 miliardi, dovuto alla risalita dei prezzi energetici, ha fatto da contraltare il surplus dei servizi dovuto alla voce “spese dei turisti stranieri”, ma soprattutto il boom dei redditi primari.
Questi sono cedole, interessi, affitti, plusvalenze finanziarie di attivi investiti all’estero. Il surplus di questa voce è passata da 9,4 miliardi a 17,3 miliardi, più di un punto percentuale di pil.
L’Italia campa di rendita, insomma. O perlomeno alcuni italiani: quelli ricchi.
Gli attivi finanziari italiani spostati all’estero, almeno quelli ufficiali, sono pari a 900 miliardi di euro, ma c’è da aggiungere che dal 1963 vige la regola dello spallone, vale a dire l’esportazione illegale di capitali. Lo stock di questa voce è praticamente sconosciuto, ma si tratta senz’altro di un’enormità.
C’è poi un’altra voce da tenere d’occhio, il risparmio gestito. Negli ultimi 8 anni ha avuto un boom e ormai vengono amministrati circa 2.200 miliardi di euro, al 95% investiti in attività finanziarie estere.
Chi ha tutti questi capitali? Nei giorni scorsi abbiamo informato del dato Istat sul tasso di profitto delle imprese non finanziarie, pari al 41.7% (il più alto della media dell’eurozona), contro un tasso di investimento pari al 21,2%. Una differenza di 20 punti percentuali, spostati in attività finanziarie.
Banca d’Italia informa inoltre che è cresciuta la liquidità delle imprese non finanziarie e ormai si porta al 13% del valore aggiunto. Insomma, i capitalisti industriali sono pieni di soldi ma non investono.
Marcello De Cecco inquadrava questo costume sin dal 1963, con la stretta creditizia di Carli e lo “sciopero degli investimenti”. Si protrae da allora. Ma allora faceva da contraltare il sistema delle partecipazioni statali che programmavano, negli anni delle lotte sociali, massicci investimenti. Tolti di mezzo questi, grazie al volere dell’Unione Europea, non è rimasto più nulla.
Si campa – chi può farlo – sugli stock di rendita, non sui flussi. E ai metalmeccanici, grazie ai confederali, gli si dà un aumento mensile di 1,5 euro…
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