La
potenza imperialista egemone non ha mai mollato il bastone del comando
senza provare a stroncare l’ascesa dei potenziali sostituti.
E
gli Stati Uniti – che in pratica non hanno mai passato due anni
consecutivi della loro storia senza far guerra a qualcuno – non possono
certo sottrarsi a questo destino.
Ieri
Donald Trump ha annunciato la fine delle deroghe concesse fin qui ad
una serie di paesi per l’importazione di petrolio iraniano. Dal 2 maggio
(giovedì prossimo) qualsiasi paese o azienda compri greggio dagli
ayatollah sarà colpito dalle sanzioni di Washington.
La
ragione di questo embargo è politicamente pretestuosa, oltre il limite
del ridicolo: i pasdaran iraniani (i “guardiani della rivoluzione”,
milizia collaterale all’esercito regolare di Tehran) sono stati inseriti
dagli Usa nella lista dei “gruppi terroristici”. Solo per ricordarlo ai
nostri lettori: l’Iran è un paese a stragrande maggioranza sciita, e
non si ha notizia di attentati di matrice sciita da nessuna parte nel
mondo. E da parecchi anni. Mentre abbondano, com’è noto, quelli di
matrice sunnita-wahabita (la variante dell’Islam che ha il suo epicentro
nell’Arabia Saudita, ufficialmente alleata di Usa e Israele).
Da
dove deriva allora la definizione di “organizzazione terroristica”? Dal
fatto che reparti di pasdaran hanno combattuto e combattono in Siria a
fianco dell’esercito di Assad, mentre il Libano supportano da sempre –
sul piano logistico, quantomeno – le milizia di Hezbollah (che peraltro è
uno dei partiti al governo del paese).
E’
questa presenza ad aver contribuito al fallimento del progetto di
conquista della Siria (prima dell’intervento russo), e a preoccupare in
primo luogo il governo di ultradestra di Israele. E in Medio Oriente la
politica Usa è da sempre un supporto alle pretese di Tel Aviv, anche a
costo di perdere progressivamente alleanze nel mondo arabo.
L’idea
che ha portato all’embargo del greggio iraniano, dopo la disdetta degli
accordi sul nucleare firmati da Obama e dall’Unione Europea, oltre che
dalla Russia, è semplice fino alla noia. E ufficialmente rivendicata: «azzerare l’export di petrolio iraniano, negando al regime la sua principale fonte di entrate.
L’amministrazione Trump e i suoi alleati sono determinati a sostenere
ed espandere la campagna di massima pressione economica contro l’Iran
per mettere fine all’attività destabilizzante del regime che minaccia
gli Stati Uniti, i nostri partner ed alleati, e la sicurezza in Medio
Oriente».
In
un mercato delicato come quello petrolifero, escludere la produzione di
uno dei membri dell’Opec ha conseguenze dirette sull’economia globale,
visto che si traduce immediatamente in un aumento del prezzo
dell’energia (unica merce, insieme al lavoro umano, che entra nella
formazione del prezzo di tutte le altre). Tanto più in un momento
in cui un altro produttore importante – la Libia – è nuovamente
paralizzato dai combattimenti; mentre un terzo – il Venezuela – sta già
subendo restrizioni all’export. E infatti sui mercati il prezzo del
barile è salito immediatamente: più di 74 dollari per la qualità Brent
(quello del Mare del Nord) e più di 66 per il Wti (qualità texana).
L’aumento
dei prezzi implica a sua volta una possibilità di rallentamento della
produzione globale, in una fase già caratterizzata dal forte
rallentamento (tranne che per la Cina, che sta beneficiando della
continua crescita salariale, incrementata ora dal radicale taglio delle tasse in busta paga, con ovvia espansione del mercato interno).
Per
ovviare a questa sciagurata conseguenza, la Casa Bianca ha annunciato
un coordinamento con Arabia Saudita, Emirati Arabi ed altri Paesi
dell’Opec «per garantire che la domanda globale sia soddisfatta, mentre
tutto il petrolio iraniano è rimosso dal mercato».
Insomma: si prova a strangolare un paese e nel frattempo si fanno fare migliori affari a se stessi e ai propri alleati…
Diversi
paesi erano stati fin qui “esentati” dalle sanzioni, pur continuando ad
acquistare petrolio da Tehran. I contratti sulle forniture di greggio
sono infatti a lungo termine, la stessa circolazione e consegna è
piuttosto lenta (avviene tramite navi tanker o attraverso oleodotti, ma
non dall’Iran); quindi è impossibile per chiunque obbedire all’”ordine”
di Washington da un giorno all’altro.
Tra
gli “esentati” c’erano Italia e Cina. E proprio Pechino l’ha presa
molto male, vista la dimensione delle sue importazioni dall’Iran. Il
sospetto – nemmeno troppo velato – è che la mossa di Trump miri a
“prendere due piccioni con una fava”: azzerare le entrate di Tehran e
mettere in (temporanea) difficoltà la prorompente capacità produttiva di
Pechino. Che infatti si oppone, con un comunicato del portavoce del
ministero degli Esteri Geng Shuang, “alle sanzioni unilaterali e alla
giurisdizione ad ampio raggio”; ricordando comunque che gli accordi
siglati di Pechino con Teheran sono “ragionevoli e legittimi”.
Ma
non c’è solo la Cina. Gli acuisti di greggio erano continuati anche da
parte di India, Turchia, Giappone e Sud Corea. Tutti paesi teoricamente
alleati o “non nemici” di Washington.
Ma non si può chiedere a una superpotenza in declino un occhio di riguardo per i vecchi amici.
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