Si
racconta di un tale che aveva provato a insegnare al proprio asino a
non mangiare. Diceva di esserci riuscito ma che, purtroppo, proprio
quando aveva imparato bene, l’asino era morto.
La vecchia favola si adatta alla perfezione al mercantilismo europeo, sagomato su quello tedesco. La teoria del grande capitale multinazionale continentale era semplice: riduciamo i salari interni (in tutta Europa, ma soprattutto nei paesi più deboli), ridisegniamo le filiere produttive intorno alle grandi concentrazioni industriali (casualmente tedesche), così “le nostre” esportazioni diventano più competitive e ci possiamo dedicare a far soldi con la finanza speculativa.
Tutto perfetto, per qualche anno, in tempi di globalizzazione e mercati aperti. Certo, il mercato interno (i consumi) si fermavano, la ricerca scientifica si esauriva (l’Europa ha il più basso numero di nuovi brevetti), i bilanci pubblici dei paesi deboli vedevano ingigantirsi il debito, ma chissenefrega…
Poi scoppia la crisi (2008), la globalizzazione si inverte in nuova competizione tra macroaree continentali fino ad esplodere apertamente con l’ascesa di Trump e l’apertura della “guerra dei dazi” contro Cina ed Europa (preceduta e preparata da un periodo di “guerra delle monete”).
E a questo punto – oggi – anche chi aveva fatto del modello export oriented il proprio personalissimo punto di forza si ritrova col sedere per terra.
I dati sugli ordinativi industriali in Germania, resi noti stamattina, parlano di una crisi drammatica e galoppante. A febbraio sono crollati del -4.2% rispetto a gennaio, e del -8,4% rispetto al febbraio 2018. Questo tracollo segue il già grave calo di gennaio (-2,1%, rivisto dalla stima iniziale a -2,6).
In particolare, i nuovi ordinativi dai paesi non appartenenti all’area euro sono diminuiti del 7,9% su base mensile.
A determinare questo crollo verticale concorrono gli ordinativi domestici – scesi dell’1,6% – mentre quelli rilevati al di fuori dei confini nazionali sono scivolati del 6%.
Diciamola in modo semplice: è la fine di un’epoca, oltre che di un modello economico sparagnino, gretto, conservativo e fautore di una “austerità” che neanche nei sogni matematici più audaci è mai diventata “espansiva”.
A parte le valutazioni strettamente congiunturali, infatti, c’è da tener presente il contesto di competizione internazionale. Mentre la Cina sta stimolando da mesi il suo mercato interno – aumenti rilevanti dei salari, calo delle tasse in busta paga, riduzione dell’Iva dal 16 al 13%, ecc – e investendo cifre colossali sulla via della Seta (collegando infrastrutturalmente Asia, Africa ed Europa). Mentre gli Usa di Trump tentano disperatamente di ri-localizzare sul territorio nazionale un po’ della produzione manifatturiera allegramente espatriata alla ricerca dei salari più bassi possibile… L’area dell’Unione Europea è ferma ai diktat scritti nei trattati quando la fase economica era del tutto diversa, in piena espansione post-crollo del Muro.
Un primo allarme serissimo era arrivato da Altmaier e altri boss dei think tank economici tedeschi, arrivando – orrore! – a chiedere l’intervento dello Stato nell’economia reale. Ma un treno in corsa, delle dimensioni di un intero continente, ha un’inerzia che per essere invertita richiede quanto meno un deragliamento.
Non che ai vertici dell’Unione Europea nessuno si sia accorto che le cose vanno malissimo. La frettolosa ricerca di un “vertice” informale con Xi Jinping, a latere della firma del Memorandum of Understanding con l’Italia e della vendita di 300 aerei Airbus festeggiata da Macron, è una prova provata della difficoltà di vedere soluzioni “interne” all’area. Della serie, “per favore comprate ancora le nostre merci, sennò qui salta tutto…”
Non si parla neppure di far aumentare i salari (gli unici che per il momento li hanno spuntati sono i dipendenti pubblici tedeschi, mentre i francesi sono in piazza da ventuno settimane con addosso i gilet gialli), e quindi non si punta sul mercato interno per compensare le minori esportazioni.
I tedeschi cominciano a soffrire, insomma. Ma non c’è da goderne. Specie per un paese come il nostro, sciaguratamente trasformato – da una classe imprenditoriale vile e miserabile – in subfornitore contoterzista dell’industria tedesca. La quale farà di tutto per sopravvivere, anche a costo di affondare i suoi servi senza autonomia.
Basta guardare quel che si annuncia per la “legge di stabilità” di fine anno, tra sanguinosi tagli alla spesa pubblica e aumenti automatici dell’Iva (come previsto dalle “clausole di salvaguardia” inventate dal governo Pd di Enrico Letta). In piena recessione, e da un anno, a quel punto, è praticamente un suicidio.
La vecchia favola si adatta alla perfezione al mercantilismo europeo, sagomato su quello tedesco. La teoria del grande capitale multinazionale continentale era semplice: riduciamo i salari interni (in tutta Europa, ma soprattutto nei paesi più deboli), ridisegniamo le filiere produttive intorno alle grandi concentrazioni industriali (casualmente tedesche), così “le nostre” esportazioni diventano più competitive e ci possiamo dedicare a far soldi con la finanza speculativa.
Tutto perfetto, per qualche anno, in tempi di globalizzazione e mercati aperti. Certo, il mercato interno (i consumi) si fermavano, la ricerca scientifica si esauriva (l’Europa ha il più basso numero di nuovi brevetti), i bilanci pubblici dei paesi deboli vedevano ingigantirsi il debito, ma chissenefrega…
Poi scoppia la crisi (2008), la globalizzazione si inverte in nuova competizione tra macroaree continentali fino ad esplodere apertamente con l’ascesa di Trump e l’apertura della “guerra dei dazi” contro Cina ed Europa (preceduta e preparata da un periodo di “guerra delle monete”).
E a questo punto – oggi – anche chi aveva fatto del modello export oriented il proprio personalissimo punto di forza si ritrova col sedere per terra.
I dati sugli ordinativi industriali in Germania, resi noti stamattina, parlano di una crisi drammatica e galoppante. A febbraio sono crollati del -4.2% rispetto a gennaio, e del -8,4% rispetto al febbraio 2018. Questo tracollo segue il già grave calo di gennaio (-2,1%, rivisto dalla stima iniziale a -2,6).
In particolare, i nuovi ordinativi dai paesi non appartenenti all’area euro sono diminuiti del 7,9% su base mensile.
A determinare questo crollo verticale concorrono gli ordinativi domestici – scesi dell’1,6% – mentre quelli rilevati al di fuori dei confini nazionali sono scivolati del 6%.
Diciamola in modo semplice: è la fine di un’epoca, oltre che di un modello economico sparagnino, gretto, conservativo e fautore di una “austerità” che neanche nei sogni matematici più audaci è mai diventata “espansiva”.
A parte le valutazioni strettamente congiunturali, infatti, c’è da tener presente il contesto di competizione internazionale. Mentre la Cina sta stimolando da mesi il suo mercato interno – aumenti rilevanti dei salari, calo delle tasse in busta paga, riduzione dell’Iva dal 16 al 13%, ecc – e investendo cifre colossali sulla via della Seta (collegando infrastrutturalmente Asia, Africa ed Europa). Mentre gli Usa di Trump tentano disperatamente di ri-localizzare sul territorio nazionale un po’ della produzione manifatturiera allegramente espatriata alla ricerca dei salari più bassi possibile… L’area dell’Unione Europea è ferma ai diktat scritti nei trattati quando la fase economica era del tutto diversa, in piena espansione post-crollo del Muro.
Un primo allarme serissimo era arrivato da Altmaier e altri boss dei think tank economici tedeschi, arrivando – orrore! – a chiedere l’intervento dello Stato nell’economia reale. Ma un treno in corsa, delle dimensioni di un intero continente, ha un’inerzia che per essere invertita richiede quanto meno un deragliamento.
Non che ai vertici dell’Unione Europea nessuno si sia accorto che le cose vanno malissimo. La frettolosa ricerca di un “vertice” informale con Xi Jinping, a latere della firma del Memorandum of Understanding con l’Italia e della vendita di 300 aerei Airbus festeggiata da Macron, è una prova provata della difficoltà di vedere soluzioni “interne” all’area. Della serie, “per favore comprate ancora le nostre merci, sennò qui salta tutto…”
Non si parla neppure di far aumentare i salari (gli unici che per il momento li hanno spuntati sono i dipendenti pubblici tedeschi, mentre i francesi sono in piazza da ventuno settimane con addosso i gilet gialli), e quindi non si punta sul mercato interno per compensare le minori esportazioni.
I tedeschi cominciano a soffrire, insomma. Ma non c’è da goderne. Specie per un paese come il nostro, sciaguratamente trasformato – da una classe imprenditoriale vile e miserabile – in subfornitore contoterzista dell’industria tedesca. La quale farà di tutto per sopravvivere, anche a costo di affondare i suoi servi senza autonomia.
Basta guardare quel che si annuncia per la “legge di stabilità” di fine anno, tra sanguinosi tagli alla spesa pubblica e aumenti automatici dell’Iva (come previsto dalle “clausole di salvaguardia” inventate dal governo Pd di Enrico Letta). In piena recessione, e da un anno, a quel punto, è praticamente un suicidio.
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