lunedì 29 aprile 2019

I caccia F35 vanno comprati, che volino o no

L’incontro di ieri a Washington tra Donald Trump e il Primo ministro giapponese Shinzo Abe aveva tra i temi principali, come ovvio, i colloqui di giovedì scorso a Vladivostok tra Vladimir Putin e Kim Jong Un.
Ma non solo. Nei giorni scorsi vari media giapponesi davano per scontata l’inclusione nell’ordine del giorno anche della questione dei caccia F-35, soprattutto dopo la scomparsa in mare, il 9 aprile, nel corso di un’esercitazione, di uno di tali aerei.
Subito dopo l’incidente, sentito dall’agenzia nhk world-japaan, l’ex tenente generale dell’aviazione, Toshimichi Nagaiwa, ha detto che i F-35A dovrebbero costituire i futuri principali caccia del Giappone e, dato che il loro dispiegamento è in fase di sperimentazione, l’incidente pone un serio problema allo sviluppo del programma.
Quattro giorni fa, ancora nhk world-japaan scriveva che le ricerche hanno sinora consentito di recuperare solo alcune parti della coda del caccia, mentre il pilota è tuttora “disperso”. Per intensificare le operazioni, in una zona in cui i fondali raggiungono i 1.500 metri, è previsto l’arrivo del vascello oceanografico “Kaimei” e anche gli Stati Uniti prevedono di inviare una unità con elevate capacità di ricerca, data l’urgenza di recuperare i resti del velivolo, dotato di tecnologia stealth altamente classificata. Per il pilota, una prece…
Lo scorso 16 aprile, The Asahi Shimbun riassumeva in questo modo i termini della questione. “Il recente incidente con il caccia a tecnologia stealth avanzata F-35A solleva la questione se il Giappone debba continuare a comprare dagli Stati Uniti questi costosi aerei da guerra. Il governo dovrebbe per il momento congelare il programma d’acquisto e, come massima priorità, concentrarsi sul chiarire le cause dell’incidente”.
The Asahi Shimbun ricordava come il velivolo precipitato fosse stato il primo F-35 assemblato, meno di un anno fa, in Giappone, dalla Mitsubishi Heavy Industries su licenza della Lockheed Martin e avesse all’attivo appena 280 ore di volo.
L’aereo precipitato, scriveva il giornale, “è costato circa 14 miliardi di yen (125 milioni di dollari). Un esemplare della variante F-35B, a decollo corto e atterraggio verticale, si era schiantato in USA a settembre dell’anno scorso; ma l’incidente al largo della Prefettura di Aomori è stato il primo occorso a un F-35A a decollo e atterraggio convenzionali”. The Asahi non esclude errori umani o condizioni del pilota, ma precisa che questi, un maggiore 41enne, era un “veterano con circa 3.200 ore di volo, incluse circa 60 ore su un F-35A”.
Dunque, tra le possibili cause dell’incidente, “il governo dovrebbe considerare tutte le possibilità”, a partire da “problemi meccanici, problemi al motore, movimento e altitudine”, non dimenticando che in precedenza il velivolo aveva già “effettuato due atterraggi di emergenza a causa di problemi meccanici”.
Per la cronaca, a fine 2018 Tokyo ha approvato l’acquisto di 105 F-35 aggiuntivi – 63 F-35A e 42 F-35B – per oltre 1,2 trilioni di yen, con l’obiettivo di arrivare a un totale di 147 F-35. In contemporanea, Tokyo programma di riadattare i due cacciatorpediniere portaelicotteri della classe “Izumo”, trasformandoli in vere e proprie portaerei, adattandone i ponti di volo ai caccia F-35B, come d’altronde fatto dall’Italia – al pari del Giappone, in base al trattato di pace, non può avere portaerei propriamente dette – con i cosiddetti “incrociatori portaeromobili” “Garibaldi” e “Cavour”, di fatto vere e proprie portaerei STVOL (Short Take-Off and Vertical Landing).
La scorsa settimana, il Ministro della Difesa Takeshi Iwaya aveva detto che il governo non ha intenzione di cambiare i piani di acquisto dei caccia, ma se verranno messi in luce difetti tecnologici, il governo “non avrà altra scelta che effettuare una revisione radicale del programma”.
E’ il caso di ricordare come già quasi un anno fa un rapporto del U.S. Government Accountability Office (GAO) avesse rilevato poco meno di mille difetti non ancora sanati nel programma del F-35 e ora, sempre secondo il GOA, solo il 27% dei F-35 in servizio negli Stati Uniti sarebbero pienamente operativi e, di questi, circa la metà in grado di eseguire una sola missione di combattimento, a causa della mancanza di parti necessarie, ritardi nelle riparazioni e pezzi di ricambio inadatti. In base al rapporto GOA, il costante ammodernamento del velivolo rende obsolete le parti di ricambio stivate nei depositi: il 44% di esse non è già più adatta ai nuovi F-35 recentemente adottati dal Corpo dei marine.
Ma, Donald Trump, che intanto ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal Trattato internazionale sul commercio di armi, chiede (?) al Giappone di acquistare enormi quantità di armi statunitensi, tra cui F-35. Però, “il governo non dovrebbe procedere con il programma F-35 semplicemente perché ha già preso la decisione”, scriveva The Asahi all’inizio della settimana; il “primo test della risposta di Tokyo all’incidente arriverà al più tardi questa settimana, quando i principali esponenti della politica estera e della difesa dei due governi” si riuniranno.
Di fatto, secondo The Asahi, durante l’incontro di ieri alla Casa Bianca, oltre alla questione nord-coreana e al vertice Putin-Kim di giovedì scorso, Trump e Abe hanno affrontato soprattutto le questioni del contenzioso commerciale – lo squilibrio di 67,6 miliardi di dollari a favore del Giappone – le divergenze sulle tariffe (quelle giapponesi per i prodotti agricoli statunitensi e i dazi USA su auto, acciaio e alluminio nipponici, ecc.) e, a quanto pare, si sono travati pienamente d’accordo sul continuare nei fortissimi acquisti di equipaggiamenti militari USA da parte di Tokyo. Della questione dei caccia F-35 non c’è traccia nelle cronache di The Asahi Shimbun.
Sulla vicenda specifica del Giappone è intervenuta nei giorni scorsi anche la russa topwar.ru, rilevando come gli Stati Uniti non abbiano fornito alla Mitsubishi la chiave del software, per cui questa non ha potuto adattarlo alle esigenze dell’aeronautica giapponese. Riguardo alle voci su un congelamento degli acquisti, il sito russo scrive che “non ci saranno cambiamenti: i capi dei dipartimenti militari giapponesi e americani hanno precisato che tutti i contratti tra Giappone e Stati Uniti per i caccia di 5° generazione rimangono in vigore”. Questo, a dispetto del fatto che la stampa nipponica abbia pubblicato materiali secondo cui vari F-35A in servizio in Giappone sarebbero già stati costretti ad atterraggi di emergenza, in almeno sette occasioni, a causa dell’anormale funzionamento delle apparecchiature di bordo.
Anche dall’Italia non pare ci siano ripensamenti: i caccia F-35 vanno comprati.

venerdì 26 aprile 2019

Germania: chi semina sfruttamento raccoglie crisi

Secondo la saggezza popolare, l’erba del vicino è sempre più verde. Un caso di scuola di questo luogo comune si dà quando si discute della Germania e del suo modello economico. Quale che sia il tema specifico, il sottotesto ci parla sempre della supremazia tedesca dal punto di vista tecnologico, culturale ed economico, un risultato ottenuto a seguito di taumaturgiche riforme e che permette alla Germania di fare da locomotiva per la crescita di tutta l’Europa.
Se questo è il mito, la realtà ci offre tuttavia uno spaccato leggermente diverso. Ai racconti di un’economia vitale e rigorosa, che dovrebbe fungere da esempio terapeutico per tutti i Paesi mediterranei, si stanno pian piano sovrapponendo cronache più nefastela Germania starebbe finendo in recessione.
Stando alla lettura dei media, la frenata dell’economia tedesca deriverebbe, da un lato, dal rallentamento della domanda internazionale e, dall’altro, dal “complesso adeguamento dell’industria dell’auto ai più rigidi standard europei di emissione dei motori diesel”. Come vedremo, però, si tratta di una spiegazione parziale e che nasconde le cause più profonde e sistemiche, che hanno le loro radici in uno scellerato modello di crescita per sua natura insostenibile, basato sulla compressione salariale e sulla disponibilità di altri paesi a continuare comprare le merci prodotte internamente.
In qualche sobborgo di Wolfsburg sono stivate migliaia di auto invendute. Sarebbe facile associare questo fosco scenario semplicemente alle conseguenze dello scandalo Dieselgate, che ha coinvolto la celebre casa automobilistica “del popolo” (sic). Ma la storia non è così semplice. Al di là di questo caso ‘patologico’, il vero problema del modello economico tedesco è strutturale e per capirlo è necessario fare un passo indietro.
La Germania compete internazionalmente sui costi di produzione a suon di precarietà e delocalizzazioni. Si tratta di un modello di crescita, perfettamente coerente con l’attuale architettura dell’Unione Europea, che la Germania persegue da ormai vent’anni a colpi di mini-job, con ripercussioni drammatiche sulle classi subalterne. Non si tratta, infatti, di una partita tra Germania e resto del mondo, bensì di un vero e proprio scontro di classe senza confini geografici.
Da decenni la Germania ci viene spacciata per l’avanguardia dell’efficienza e della competitività, cui si contrappone un’improduttiva periferia europea incapace di adottare un modello di sviluppo “moderno” come quello tedesco. Il fiore all’occhiello dell’efficienza tedesca sarebbe rappresentato dalla capacità di vendere i propri prodotti sui mercati esteri: dal 1999 ai giorni nostri, la Germania ha in media esportato un ammontare di beni e servizi pari al 40% del proprio PIL (per un raffronto, in Italia lo stesso dato si aggira attorno al 25%).
Le ragioni della competitività tedesca sono facilmente individuabili andando a guardare i differenziali di prezzo: i beni realizzati in Italia, che generalmente non sono di minore qualità di quelli prodotti a Stoccarda o a Monaco (tant’è che molta della componentistica dei beni finali made in Germany è prodotta da aziende italiane), sono diventati dal 1999 ad oggi più cari del 20% rispetto alle merci tedesche. In breve, il segreto del modello tedesco risiede soprattutto nella capacità di produrre le stesse merci a costi minori, con l’ovvio risultato che, mentre la Germania è cresciuta grazie alla domanda estera, i Paesi della periferia europea hanno progressivamente perso pezzi pregiati della propria industria, con effetti drammatici sull’occupazione.
Questa strategia di crescita è frutto di una deliberata scelta di politica economica, definita crescita trainata dalle esportazioni”. Generalmente, i beni prodotti da un’impresa possono essere venduti nel mercato domestico, traducendosi in domanda interna (ossia in consumi delle famiglie, investimenti di altre imprese, oppure acquisti fatti dal settore pubblico), o su quello estero, intercettando la domanda estera (esportazioni verso un soggetto residente in un altro Paese).
Nell’implementazione di un modello di crescita fondato sull’export diventa cruciale il contenimento dei salari, considerati un mero costo di produzione, al fine di moderare la dinamica dei prezzi e dare linfa (via maggiore competitività) alle vendite all’estero. La conseguente anemia della domanda interna (indotta da salari stagnanti), combinata alla fissazione di prezzi competitivi, obbliga e al tempo stesso permette alle aziende di vendere i proprio prodotti all’estero, intercettando la domanda proveniente da Paesi dove le stesse merci sono generalmente più care.
Come si può facilmente intuire, questa strategia fondata sulla repressione di salari e domanda interni per stimolare le esportazioni – una strategia definita in letteratura ‘mercantilista’ – presenta degli evidenti limiti.
Il primo limite è che questo modello, per costruzione, facendo leva sulla compressione dei salari, distrugge la domanda interna di un Paese. Oltre ad avere, quindi, conseguenze sociali particolarmente sgradevoli, in primo luogo per la classe lavoratrice, presenta un naturale elemento di vulnerabilità. Se la domanda estera inizia a stagnare (a causa, ad esempio, di una congiuntura economica avversa che coinvolte il resto del mondo), oppure entrano sul palcoscenico mondiale nuovi competitor ancora più concorrenziali (come i Paesi emergenti, caratterizzati da un bassissimo costo del lavoro), il Paese che persegue questa strategia finisce per cadere in crisi.
Non sorprendentemente, le recenti statistiche ci indicano che la Germania sta scivolando in recessione perché la crescita del commercio internazionale sta rallentando. Gli ultimi dati sugli ordinativi industriali in Germania parlano chiaro: a febbraio 2019, si è registrato un -4.2% su base mensile e un -8.4% su base annuale.
Il secondo limite ha invece a che vedere con la possibilità di generalizzare e replicare questo modello di crescita. Volendo dare credito alle raccomandazioni delle istituzioni internazionali, infatti, questa sarebbe la via maestra, soprattutto per le economie del sud Europa, per uscire dalle sacche della recessione. Non ci vuole molto, però, per capire la fallacia di questo ragionamento, poiché se qualcuno esporta, qualcun altro deve importare. In altre parole: non tutti i Paesi possono campare di export.
Ciononostante, questa rappresenta ormai la ricetta standard, suggerita dall’Unione Europea anche alla periferia europea come un modo efficace per uscire dalla crisi. Ci dovremmo quindi tutti imbarcare per questa china, ma questa strategia, oltre ad accrescere povertà e sfruttamento, risulterebbe addirittura inutile in termini di esportazioni qualora fosse applicata contestualmente da tutti i Paesi a colpi di svalutazione salariale.
Ecco il motivo delle auto stivate nelle periferie delle grigie metropoli tedesche: come accade in tutte le fasi di crisi, non c’è sufficiente domanda di merci, interna e/o esterna (nel caso tedesco, sono crollati sia gli ordinativi domestici che quelli esteri, scesi rispettivamente dell’1.6% e del 6%). Certo, nelle fasi di depressione economica internazionale, e di conseguente bassa domanda estera, ci sarebbe un modo relativamente semplice per tornare a crescere: sarebbe sufficiente riattivare la domanda interna, ormai agonizzante in quanto falcidiata dal contenimento dei salari (la cui quota sul reddito ha perso circa 3 punti percentuali in vent’anni), ma per farlo occorrerebbe invertire la rotta in cui l’economia tedesca è invischiata da ormai due decadi, in cui si è assistito alla pressoché totale deregolamentazione del mercato del lavoro e ad una concertazione tra imprese e sindacati tedeschi funzionale alla deflazione salariale.
Non in ultimo, occorre sottolineare che nel 2012 la Germania ha raggiunto il pareggio di bilancio e nei cinque anni successivi è arrivata ad accumulare un avanzo pubblico (avanzo totale, non solo primario, vedi qui per una spiegazione delle differenze tra queste due grandezze): in altri termini, anche lo Stato ha contribuito a frenare la domanda interna.
Se questa sottrazione di risorse da parte del settore pubblico non ha generato crisi nel recente passato è stato solo per effetto di un forte dinamismo dell’export: come i dati di oggi ci indicano, quando l’export cede il contenimento della spesa pubblica rappresenta la ciliegina sulla torta di una strategia completamente suicida.
Dalle nostre parti, tuttavia, non si respira un’aria molto diversa: in Italia, le esportazioni sono l’unica componente della domanda che mostra una certa vitalità, i consumi interni crollano a causa della stagnazione dei salari, e il processo di riforma del mercato del lavoro è in atto dai primi anni ‘90.
Per queste ragioni, non bisogna commettere l’errore di individuare il nemico nella Germania, bensì in un modello di crescita (di cui la Germania è solo un esempio di fulgida attuazione, con buona pace dei proletari tedeschi pagati un euro all’ora) che promuove precarietà, disoccupazione, crisi e, di conseguenza, redistribuzione del reddito dai salari ai profitti.
Queste considerazioni ci portano ancora una volta a riflettere sulla vera natura degli assetti politico-economici delle attuali economie avanzate, dove sulla contrapposizione tra ‘centro’ e ‘periferia’ europea si innesta la realtà di una società divisa in classi, in cui la deregolamentazione del mercato del lavoro, combinata alla libera circolazione di merci e capitali, non può che portare a pressioni a ribasso sul costo del lavoro, con l’unico effetto di spostare ancor più i rapporti di forza a favore dei capitalisti.

mercoledì 24 aprile 2019

Italia ultima per occupazione, gli obiettivi Ue 2020 sono lontanissimi

Di seguito i dati di Open Polis sull’occupazione in Italia a confronto dei livelli europei.
Si può notare  come appare evidente l’assoluta inefficacia delle politiche per il lavoro elaborate dagli ultimi governi, dal job act al “decreto dignità”.
L’Italia insiste con provvedimenti di facilitazioni alle imprese che non possono usufruirne, di incentivo al lavoro nero come nel caso del reddito di cittadinanza,  di assoluta trascuratezza (per non scrivere di peggio) nei confronti dell’industria nei suoi settori decisivi, soprattutto dal punto di vista della qualità tecnologica, per una idea di moderno sviluppo, puntando in maniera sbagliata a una crescita impossibile del consumo individualistico in dimensione diffusa.
In questo quadro appare particolarmente drammatica la situazione della Liguria, classificata al dodicesimo posto, ultima tra le regioni del Nord (sono lontani i tempi del triangolo industriale) e superata anche da regioni del Centro Italia come le Marche e l’Umbria nelle quali resistono ancora settori del modello fondato sui “distretti” e sulla media industria specializzata in beni di consumo  come scarpe e abbigliamento.
Senza commento se non il richiamo alla necessità di superare la logica dell’assistenzialismo e del conseguente inevitabile lavoro nero.
Servono grandi investimenti pubblici nei settori nevralgici dell’industria e del recupero delle infrastrutture e della difesa del territorio.
 Si dirà : parole al vento, in quanto nessun partito politico sembra contenere nei propri programmi ipotesi del genere e l’imprenditoria appare legata ai  concetti di finanziarizzazione e funziona piuttosto da lobby collocandosi sul terreno delle tangenti pagate ai politici: uno scenario che risale agli anni’80 del XX secolo e che pare proprio non mutare mai.
ROMA – Il 2020 ormai è alle porte, ma gli obiettivi della strategia Ue per la crescita sono lontanissimi. E quello sul lavoro in particolare non potrebbe essere più lontano: l’Italia ha raggiunto appena un tasso di occupazione del 63 per cento, e diventa davvero improbabile che arrivi in pochi mesi al 67 per cento fissato da Bruxelles. Tasso che comunque, ammesso che riuscissimo a raggiungerlo, ci lascerebbe comunque distanti dagli altri Paesi: già nel 2017 la media Ue era al 72,2 per cento, e anche se l’obiettivo del 75 per cento per il 2020 non verrà raggiunto, l’Italia rimarrà comunque fanalino di coda, ultimo Paese europeo per l’occupazione, seguito solo dalla Grecia che sfiora appena il 58 per cento.
A fare il punto sul lavoro è la Fondazione OpenPolis, che seguendo il proprio motto “Numeri alla mano” ha appena pubblicato un rapporto che mette a confronto anche le profonde differenze regionali, che rendono la situazione italiana ancora più problematica. I punti di differenza tra il tasso di occupazione della provincia di Bolzano e quello della Regione Sicilia sono 35: un abisso tra il 79 per cento di una delle aree più progredite del Nord e il 44 per cento della Regione più meridionale d’Italia. La classifica ripercorre fedelmente la geografia della penisola: seguono Campania, Calabria, Puglia, Basilicata, fino ad arrivare al Lazio e alle Regioni del Centro che mostrano tassi di occupazione medi, di poco superiori al 60 per cento, per poi arrivare al Nord che, a partire dal Piemonte, mostra tutti tassi superiori al 70 per cento. (esclusa ovviamente la Liguria, di cui si parla nella nota introduttiva, n.d.r)
Due Italia, anche lontanissime, quella degli uomini e quella delle donne. Ci sono 28 punti di differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile, nonostante la situazione delle donne sia migliorata, e il tasso, rimasto a lungo sotto il 50 per cento, adesso abbia finalmente sfondato quello che sembrava un traguardo fin troppo ambizioso. A seguire l’Italia, come sempre, la Grecia. Prima c’era Malta: è un primato negativo del Sud dell’Europa quello di negare opportunità alle donne, e ai giovani. L’Italia mantiene anche il primato negativo della disoccupazione giovanile: la percentuale dei giovani occupati raggiunge appena il 42,7 per cento, anche stavolta ci segue la Grecia ma invece Malta mostra un andamento del tutto diverso, è in cima alla classifica Ue per giovani occupati con un tasso record del 78,5 per cento, superiore persino al 76,5 dell’Olanda e del Regno Unito.

martedì 23 aprile 2019

Sanzioni all’Iran, minacce Usa per tutti

La potenza imperialista egemone non ha mai mollato il bastone del comando senza provare a stroncare l’ascesa dei potenziali sostituti.
E gli Stati Uniti – che in pratica non hanno mai passato due anni consecutivi della loro storia senza far guerra a qualcuno – non possono certo sottrarsi a questo destino.
Ieri Donald Trump ha annunciato la fine delle deroghe concesse fin qui ad una serie di paesi per l’importazione di petrolio iraniano. Dal 2 maggio (giovedì prossimo) qualsiasi paese o azienda compri greggio dagli ayatollah sarà colpito dalle sanzioni di Washington.
La ragione di questo embargo è politicamente pretestuosa, oltre il limite del ridicolo: i pasdaran iraniani (i “guardiani della rivoluzione”, milizia collaterale all’esercito regolare di Tehran) sono stati inseriti dagli Usa nella lista dei “gruppi terroristici”. Solo per ricordarlo ai nostri lettori: l’Iran è un paese a stragrande maggioranza sciita, e non si ha notizia di attentati di matrice sciita da nessuna parte nel mondo. E da parecchi anni. Mentre abbondano, com’è noto, quelli di matrice sunnita-wahabita (la variante dell’Islam che ha il suo epicentro nell’Arabia Saudita, ufficialmente alleata di Usa e Israele).
Da dove deriva allora la definizione di “organizzazione terroristica”? Dal fatto che reparti di pasdaran hanno combattuto e combattono in Siria a fianco dell’esercito di Assad, mentre il Libano supportano da sempre – sul piano logistico, quantomeno – le milizia di Hezbollah (che peraltro è uno dei partiti al governo del paese).
E’ questa presenza ad aver contribuito al fallimento del progetto di conquista della Siria (prima dell’intervento russo), e a preoccupare in primo luogo il governo di ultradestra di Israele. E in Medio Oriente la politica Usa è da sempre un supporto alle pretese di Tel Aviv, anche a costo di perdere progressivamente alleanze nel mondo arabo.
L’idea che ha portato all’embargo del greggio iraniano, dopo la disdetta degli accordi sul nucleare firmati da Obama e dall’Unione Europea, oltre che dalla Russia, è semplice fino alla noia. E ufficialmente rivendicata: «azzerare l’export di petrolio iraniano, negando al regime la sua principale fonte di entrate. L’amministrazione Trump e i suoi alleati sono determinati a sostenere ed espandere la campagna di massima pressione economica contro l’Iran per mettere fine all’attività destabilizzante del regime che minaccia gli Stati Uniti, i nostri partner ed alleati, e la sicurezza in Medio Oriente».
In un mercato delicato come quello petrolifero, escludere la produzione di uno dei membri dell’Opec ha conseguenze dirette sull’economia globale, visto che si traduce immediatamente in un aumento del prezzo dell’energia (unica merce, insieme al lavoro umano, che entra nella formazione del prezzo di tutte le altre). Tanto più in un momento in cui un altro produttore importante – la Libia – è nuovamente paralizzato dai combattimenti; mentre un terzo – il Venezuela – sta già subendo restrizioni all’export. E infatti sui mercati il prezzo del barile è salito immediatamente: più di 74 dollari per la qualità Brent (quello del Mare del Nord) e più di 66 per il Wti (qualità texana).
L’aumento dei prezzi implica a sua volta una possibilità di rallentamento della produzione globale, in una fase già caratterizzata dal forte rallentamento (tranne che per la Cina, che sta beneficiando della continua crescita salariale, incrementata ora dal radicale taglio delle tasse in busta paga, con ovvia espansione del mercato interno).
Per ovviare a questa sciagurata conseguenza, la Casa Bianca ha annunciato un coordinamento con Arabia Saudita, Emirati Arabi ed altri Paesi dell’Opec «per garantire che la domanda globale sia soddisfatta, mentre tutto il petrolio iraniano è rimosso dal mercato».
Insomma: si prova a strangolare un paese e nel frattempo si fanno fare migliori affari a se stessi e ai propri alleati…
Diversi paesi erano stati fin qui “esentati” dalle sanzioni, pur continuando ad acquistare petrolio da Tehran. I contratti sulle forniture di greggio sono infatti a lungo termine, la stessa circolazione e consegna è piuttosto lenta (avviene tramite navi tanker o attraverso oleodotti, ma non dall’Iran); quindi è impossibile per chiunque obbedire all’”ordine” di Washington da un giorno all’altro.
Tra gli “esentati” c’erano Italia e Cina. E proprio Pechino l’ha presa molto male, vista la dimensione delle sue importazioni dall’Iran. Il sospetto – nemmeno troppo velato – è che la mossa di Trump miri a “prendere due piccioni con una fava”: azzerare le entrate di Tehran e mettere in (temporanea) difficoltà la prorompente capacità produttiva di Pechino. Che infatti si oppone, con un comunicato del portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang, “alle sanzioni unilaterali e alla giurisdizione ad ampio raggio”; ricordando comunque che gli accordi siglati di Pechino con Teheran sono “ragionevoli e legittimi”.
Ma non c’è solo la Cina. Gli acuisti di greggio erano continuati anche da parte di India, Turchia, Giappone e Sud Corea. Tutti paesi teoricamente alleati o “non nemici” di Washington.
Ma non si può chiedere a una superpotenza in declino un occhio di riguardo per i vecchi amici.

venerdì 19 aprile 2019

L’Italia, un paese di rentier e lavoratori poveri

E’ dagli anni Settanta, da Berlinguer in poi, che agli italiani gli si dice che stanno “vivendo al di sopra dei propri mezzi”, una vulgata che passa dai partiti ai media, dagli intellettuali ai cosiddetti economisti.
Poi capita che vai sul sito della banca centrale italiana e vedi tutt’altro. Ci riferiamo al Bollettino Economico uscito ieri e al comunicato Bilancia dei Pagamenti.
Incominciano con il primo. Ebbene, i funzionari del capitale italiano ci informano che la posizione finanziaria netta, vale a dire il saldo tra attivi e passivi finanziari, è lievemente debitoria. Vi è un passivo di 67 miliardi alla fine del 2019, il 3,9% del pil, dovuto alla discesa dei corsi azionari globali.
Per fare un raffronto, in Usa il saldo è negativo per il 35% del Pil, nella tanto decantata Spagna addirittura dell’86%. Questo paese, cioè, come prima della crisi del 2008, cresce grazie ai prestiti esteri, mentre l’Italia ha ridotto in questi cinque anni la posizione finanziaria netta di 20 punti percentuali e ormai la percentuale è irrisoria.
Significa che paghiamo i debiti e soprattutto abbiamo una mole enorme di attivi finanziari investiti all’estero.
Per avere un’idea, basti dire che a febbraio di quest’anno il surplus delle partite correnti (merci, servizi, redditi) è aumentato a 46 miliardi di euro, il 2,6% di pil, un’enormità. Stiamo dunque vivendo molto al di sotto delle nostre possibilità e dei nostri mezzi, contrariamente a quanto dice la vulgata corrente.
Al calo del surplus delle merci, da 55 a 49 miliardi, dovuto alla risalita dei prezzi energetici, ha fatto da contraltare il surplus dei servizi dovuto alla voce “spese dei turisti stranieri”, ma soprattutto il boom dei redditi primari
Questi sono cedole, interessi, affitti, plusvalenze finanziarie di attivi investiti all’estero. Il surplus di questa voce è passata da 9,4 miliardi a 17,3 miliardi, più di un punto percentuale di pil.
L’Italia campa di rendita, insomma. O perlomeno alcuni italiani: quelli ricchi.
Gli attivi finanziari italiani spostati all’estero, almeno quelli ufficiali, sono pari a 900 miliardi di euro, ma c’è da aggiungere che dal 1963 vige la regola dello spallone, vale a dire l’esportazione illegale di capitali. Lo stock di questa voce è praticamente sconosciuto, ma si tratta senz’altro di un’enormità.
C’è poi un’altra voce da tenere d’occhio, il risparmio gestito. Negli ultimi 8 anni ha avuto un boom e ormai vengono amministrati circa 2.200 miliardi di euro, al 95% investiti in attività finanziarie estere.
Chi ha tutti questi capitali? Nei giorni scorsi abbiamo informato del dato Istat sul tasso di profitto delle imprese non finanziarie, pari al 41.7% (il più alto della media dell’eurozona), contro un tasso di investimento pari al 21,2%. Una differenza di 20 punti percentuali, spostati in attività finanziarie.
Banca d’Italia informa inoltre che è cresciuta la liquidità delle imprese non finanziarie e ormai si porta al 13% del valore aggiunto. Insomma, i capitalisti industriali sono pieni di soldi ma non investono.
Marcello De Cecco inquadrava questo costume sin dal 1963, con la stretta creditizia di Carli e lo “sciopero degli investimenti”. Si protrae da allora. Ma allora faceva da contraltare il sistema delle partecipazioni statali che programmavano, negli anni delle lotte sociali, massicci investimenti. Tolti di mezzo questi, grazie al volere dell’Unione Europea, non è rimasto più nulla.
Si campa – chi può farlo – sugli stock di rendita, non sui flussi. E ai metalmeccanici, grazie ai confederali, gli si dà un aumento mensile di 1,5 euro…

giovedì 18 aprile 2019

Notre-Dame: gli interrogativi sulla generosità di miliardari e multinazionali

Dopo il drammatico incendio di Notre-Dame, le grandi fortune e gruppi francesi non hanno perso tempo ad offrire i loro servizi. Bernard Arnault, CEO di LVMH, ha promesso 200 milioni di euro per la ristrutturazione del monumento, così come L’Oréal (di proprietà della famiglia Bettencourt). La famiglia Pinault (gruppo Kering) e la compagnia petrolifera Total hanno annunciato 100 milioni di euro, il displayer di JCDecaux 20 milioni di euro, la famiglia Bouygues 10 milioni di euro, la fondazione Crédit Agricole 5 milioni di euro… [1]. Tante donazioni fatte o direttamente dai gruppi, o attraverso le loro fondazioni aziendali, o individualmente dai loro patron. Anche i gruppi di costruzione Vinci e Bouygues si offrono di mettere a disposizione loro dipendenti e competenze per la ricostruzione di Notre-Dame.
Questo riversamento di generosità è già controverso. La maggior parte di queste promesse di doni sarà quindi esente da imposte al 60% per una società, al 66% per un privato, o addirittura al 90% se il governo decide di applicare lo sconto previsto dalla legge per il mecenatismo relativo ai “tesori nazionali”. Questo è stato richiesto dall’ex ministro della Cultura Jean-Jacques Aillagon – e consigliere di François Pinault – all’indomani dell’incendio.
In altre parole, dei 200 milioni di euro promessi da L’Oréal o dalla famiglia Arnault, solo una piccola parte sarà effettivamente a loro carico, mentre il resto sarà compensato dalla riduzione della loro imposizione fiscale [2]. Saranno quindi le autorità pubbliche a pagare la maggior parte di queste somme per compensare le imposte perse, mentre i miliardari e le multinazionali possono prendersi il merito di aver facilitato il restauro della cattedrale, pur avendo il potere di ripartire le imposte che pagano dove vogliono. Tuttavia, la famiglia Pinault, la cui fortuna è stimata a 30,5 miliardi di euro, avrebbe annunciato, a seguito della controversia, che non cercheranno di beneficiare del regime.
Costo della sponsorizzazione culturale: quasi 1 miliardo di euro all’anno
La valanga di generosità di cui beneficia la cattedrale parigina arriva in un momento in cui le agevolazioni fiscali legate al mecenatismo culturale sono sempre più contestate. Il gruppo LVMH e il suo amministratore delegato Bernard Arnault, il cui patrimonio è ora stimato in 77,2 miliardi di euro, sono ora oggetto di una denuncia, ispirata da una relazione al vetriolo della Corte dei conti, per aver abusato del sistema durante la costruzione della Louis Vuitton Foundation. Inaugurata nel 2016 nel Bois de Boulogne, questo luogo è stato presentato da Bernard Arnault come “dono alla Francia”. Secondo i calcoli della Corte dei conti, il suo bilancio totale di 790 milioni di euro ha dato luogo a detrazioni fiscali di 518 milioni di euro per varie società del gruppo del miliardario. I magistrati sono stati anche pubblicamente sorpresi delle fatture non standard pubblicate da LVMH e dall’appaltatore principale del sito, Vinci (vedi il nostro articolo).
Quest’anno è prevista l’apertura di una “Collezione Pinault” nell’edificio della Borsa del Commercio nel 1° arrondissement della capitale, dove la famiglia Pinault esporrà le opere acquisite. I Pinaulti, proprietari del gigante del lusso Kering – attualmente al centro di uno scandalo di evasione fiscale legato alla sua controllata Gucci [3] – hanno assicurato che non cercheranno di far valere i loro diritti a un rimborso fiscale. L’operazione è stata comunque contestata, in quanto il Comune di Parigi ha acquistato l’edificio per 86 milioni di euro, per poi affittarlo alla famiglia miliardaria con i suoi 3000 m2 per soli 60.000 euro all’anno (più un canone iniziale di 15 milioni di euro). Un affitto che è quasi un regalo dato il prezzo medio di affitto in questo quartiere [4].
Quali “contropartite” per i ricchi donatori?
La Corte dei conti francese stima che gli sgravi fiscali legati alla filantropia societaria costano alle autorità fiscali francesi quasi 1 miliardo di euro all’anno, la maggior parte dei quali viene spesa da poche grandi multinazionali che la considerano un’opportunità per migliorare la loro immagine e far dimenticare gli scandali o il loro impatto sul pianeta (vedi la nostra indagine sulla filantropia aziendale di Total).
Dietro la controversia fiscale, le donazioni promesse per Notre-Dame sollevano un’ulteriore domanda sul futuro del monumento stesso. Un altro aspetto della legislazione francese sulle sponsorizzazioni, spesso criticato, è la questione delle “contropartite”. In cambio della loro generosità, i donatori ottengono, entro certi limiti, prestazioni in natura come l’ingresso gratuito per i loro dipendenti o la messa a disposizione degli spazi per eventi.
Lo Château de Versailles illustra questo approccio: i grandi marchi del lusso – quelli dei miliardari che oggi si accalcano al capezzale della Cattedrale di Parigi – sono stati i primi a beneficiarne. Moltiplicano operazioni di marketing, servizi fotografici e ricevimenti [5]. Nel 2016, il castello aveva anche ospitato la festa di compleanno organizzata per sua moglie dal CEO di Renault, Carlos Ghosn, nell’ambito di un accordo di sponsorizzazione tra Renault e l’ente pubblico. Un’indagine dell’Ufficio centrale per la lotta contro la corruzione e i reati finanziari è stata aperta in Francia in seguito all’incarcerazione di Ghosn in Giappone.
Domani, un gigantesco telone pubblicitario su Notre Dame?
Anche l’uso di teloni pubblicitari giganti ­– prerogativa anche dei marchi di lusso – sui cantieri dei monumenti parigini è oggetto di dibattito. L’associazione Résistance à l’agression publicitaire ha persino presentato una denuncia per “violazione delle sepolture” per denunciare il telone che ha circondato per diversi mesi la Colonna di Luglio, a Place de la Bastille (la colonna è costruita su una necropoli che ospitava i morti dell’insurrezione del luglio 1830). La prospettiva di pubblicità sul cantiere di Notre-Dame potrebbe suscitare non pochi desideri.
Notre-Dame è il monumento più visitato della capitale, con circa 13 milioni di visitatori all’anno. Posto sotto l’egida del Centre des monuments nationaux, sfuggiva ancora alla logica commerciale della “monetizzazione” del patrimonio che prevale oggi a Versailles e, in misura minore, al Louvre. Il grande rinnovamento in arrivo potrebbe cambiare la situazione.

lunedì 15 aprile 2019

Italia e Pigs. Orari di lavoro più lunghi, salari più bassi.

In base agli ultimi dati elaborati dall’Ocse emerge che l’Italia, insieme a Grecia e Estonia, è il Paese dell’Eurozona è dove si lavorano più ore settimanali: 33. Si tratta di tre ore in più rispetto alla media europea che è di di 30 ore, e addirittura di 7 ore in più rispetto alla Germania. Come dire che rispetto ai lavoratori tedeschi, quelli italiani, greci ed estoni lavorano un giorno in più alla settimana.
Sopra la media europea si collocano anche paesi Irlanda, Portogallo, Slovacchia, Lettonia, Spagna, Slovenia e Lituania (in pratica gli altri paesi Pigs e dell’Est), tutti sopra le 30 ore settimanali di lavoro.
Le ore di lavoro settimanali, sono invece ridotte nei paesi del  “nucleo centrale e nordico” dell’Eurozona. Germania: 26 ore a settimana, Olanda 28 ore, Lussemburgo, Austria e Francia con 29 ore di lavoro settimanali, Allineati con la media europea – con 30 ore di lavoro settimanali – sono altri due paesi del nucleo centro-nordico come Finlandia e Belgio.
Contestualmente a questa disuguaglianza tra gli orari di lavoro nell’Eurozona, i salari reali in Italia sono più bassi rispetto a dieci anni fa, così come avvenuto in Spagna, Portogallo, Grecia, Ungheria, Cipro, Croazia e Gran Bretagna. I salari sono rimasti stabili in Finlandia e Belgio. C’è stato invece un exploit degli stipendi nei Paesi dell’Est. La fotografia è stata scattata dall’istituto dei sindacati europei Etuc (European Trade Union Confederation).
Nel periodo 2009-2019, gli stipendi aggiustati rispetto all’inflazione sono scesi del 23% in Grecia, dell’11% in Croazia, del 7% a Cipro, del 4% in Portogallo, del 3% in Spagna, del 2% in Italia e dell’1% in Gran Bretagna e Ungheria. In Germania invece gli stipendi sono aumentati dell’11% e in Francia del 7%. Dove sono cresciuti di più sono nei Paesi dell’Est, con il boom record della Bulgaria con +87%, seguita a distanza dalla Romania (+34%), dalla Polonia (+30%), e dai baltici (Lettonia, Lituania ed Estonia, tra il +21% e il +20%).
Infine, ma non per importanza, sia l’Ocse che altri apparati della borghesia lamentano che l’Italia è il fanalino di coda per la produttività. Ma se in Italia gli orari di lavoro sono tra i più lunghi e i salari tra i più bassi, questa “scarsa” produttività non può essere certo addossata al fattore lavoro, piuttosto emerge con evidenza come dipenda dal fattore capitale. Come sempre, da sempre. Va rovesciato il tavolo.

giovedì 11 aprile 2019

Ha ragione Tridico: bisogna ridurre – e di molto – l’orario di lavoro a parità di salario

Ha ragione il presidente dell’INPS, dagli anni 70 in Italia non ci sono significative riduzioni dell’orario di lavoro. Anzi negli ultimi anni chi lavora, lavora di più. Quindi ridurre l’orario è necessario, ma non solo per ridurre la disoccupazione, ma per redistribuire davvero la produttività e per migliorare complessivamente le condizioni di vita. Un lavoratore italiano la ora 300 ore all’anno in più di un tedesco, questo significa che la riduzione d’orario è possibile solo con un radicale cambiamento di politica economica.
Di fronte alla potente innovazione tecnologica della cosiddetta industria 4.0 non dobbiamo ripetere gli errori compiuti con l’invenzione della categoria del postfordismo. Questa categoria ha confuso un progresso tecnico e un cambiamento nella organizzazione del lavoro manifatturiero e nella sua distribuzione mondiale a favore dei paesi di nuova industrializzazione, con un cambiamento di sistema; non è così.
Non ci sono mai stati tanti operai nel mondo come da quando si é cominciato a parlare di fine della classe operaia. Non c’è mai stato tanto lavoro salariato come da quando si è proclamato il suo superamento. Non si è mai esteso tanto il taylorismo come da quando si detto che la nuova organizzazione del lavoro lo avrebbe eliminato. Oggi il Taylorismo si estende a tutto il lavoro che una volta si sarebbe detto intellettuale o di servizio. Quindi se è vero che come in agricoltura avremo una riduzione della occupazione manifatturiera strettamente definita, l’industria si estenderà a lavori ieri impensabili, che oggi chiamiamo di servizi pubblici e privati.
La cosiddetta terziarizzazione è la industrializzazione di nuovi settori. Con questa ottica, cioè che il capitalismo, finche esisterà non potrà fare ameno di due cose: diffondere il lavoro salariato e controllarne sempre di più il tempo di lavoro, con questa ottica bisogna affrontare il tema della necessaria riduzione degli orari di lavoro.
In Italia nel 1932 in piena grande depressione il padrone della Fiat Giovanni Agnelli scriveva a Luigi Einaudi per sostenere la riduzione dell’orario di lavoro.
La motivazione era la diversa velocità innovazione tecnologica ed ordinamento del lavoro. Einaudi rispose con la solita ideologia liberista: lo stato non deve combattere la disoccupazione perché essa è salutare e il sistema di mercato reagisce automaticamente ad essa.
Naturalmente vinse Einaudi è il fascismo si schierò con lui.
Nello stesso periodo Keynes prevedeva che lo sviluppo della produttività avrebbe liberato tempo di lavoro e che nel 2000 non si sarebbe lavorato più di trenta ore settimanali. Perché non é successo, quando e come si è interrotto il processo storico di riduzione dell’orario di lavoro?
Per chiarire effettivamente cosa è successo bisogna distinguere tra
ORARIO LEGALE DI LAVORO
ORARIO CONTRATTUALE DI LAVORO
ORARIO DI FATTO
ORARIO DI PRESTAZIONE EFFETTIVA E TEMPO DI LAVORO REALE

Le quattro fatti specie hanno una dinamica bel tempo differente tra loro e quindi vanno esaminate separatamente.
L’ORARIO LEGALE DI LAVORO, con l’eccezione della della Francia e di pochi altri paesi è fermo sostanzialmente ai primi anni venti del secolo scorso, quando la legislazione nei paesi industrializzati stabilì le 8 ore giornaliere intese come 48 ore settimanali. Se alla dine degli anni sessanta la legislazione ha favorito la riduzione degli orari, a partire dagli anni 80 tale tendenza si è interrotto, con l’eccezione della Francia. La spinta liberista ha poi imposto anche legalmente il concetto di orario medio rispetto a quello massimo, il che ha portato ad una legislazione che pur non aumentando l’orario massimo, lo ha spalmato su tutto l’anno di fatto trasformando l’orario settimanale in orario annuale.
L’ultima direttiva europea in fatto di orari, del 2003, definisce l’orario settimanale di 48 ore come MEDIO e con l’obbligo di quattro settimane di ferie. Quindi l’orario di lavoro massimo annuale nella UE può legalmente arrivare fino a 2304 ore, ben al di sopra degli orari di fatto di qualsiasi paese dell’Unione. Quanto alla durata massima della giornata di lavoro per la UE è di 13 ore, con l’obbligo di riposo di 11 ore. Va detto che in Italia queste 11 ore di riposo hanno ricevuto deroghe contrattuali, il governo Berlusconi le aveva persino imposte per legge nella sanità, cioè si è lavorato con tempi di riposo inferiori.
Si può dire quindi che la legislazione, con la introduzione della flessibilità, abbia complessivamente aumentato l’orario massimo di lavoro.
Come sappiamo gli ORARI CONTRATTUALI sono diminuiti quasi ovunque fino all’inizio degli anni 80 del secolo scorso. In Italia questo ha significato la conquista delle 40 ore settimanali, che poi sono diventate 37 e mezzo per i turnisti con la pausa mensa. È bene ricordare che la riduzione d’orario fu voluta dagli operai come settimana corta. Nel contratto dei metalmeccanici del 1969 fu posta infatti in consultazione l’ipotesi alternativa di riduzione dell’orario giornaliero, ma essa fu respinta a grande maggioranza a favore del week end libero. Ed è bene altresì ricordare che negli anni 70 fu la lotta operaia ad imporre l’innovazione tecnologica e persino l’automazione, come in FIAT. E questa automazione non faceva paura né riduceva l’occupazione complessiva.
A partire dagli anni 80 la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro per via contrattuale si ferma, con l’eccezione della Germania dove la IG Metall conquista le 35 ore, con una lotta durissima.
Da noi anche sul piano contrattuale comincia ad affermarsi la linea della flessibilità, per cui le richieste di riduzione dell’orario, a partire dagli anni 80 diventano giornate di riposo in più, spesso giocate nel quadro dei ritmi produttivi aziendali. La lotta sugli orari è sempre più legata all’utilizzo degli impianti ( senza però ottenere risultati strutturali come la quinta squadra strutturale nel ciclo continuo, obiettivo fallito in Italia e realizzato parzialmente in Francia. Nello stesso tempo aumenta il ricorso allo straordinario che in tutti i contratti diventa in parte obbligatorio. In Italia ancora negli anni 90 si lotta su questo terreno, fino alla vertenza della FIAT di Melfi del 2004 contro le turnazioni imposte dall’azienda. Poi non si hanno più vertenze significative sugli orari di lavoro.
In questo contesto di arresto della riduzione legale e contrattuale degli orari, gli ORARI DI FATTO subiscono comunque una riduzione nel tempo. Essa è sia una riduzione voluta dell’orario, sia quella naturale e fisiologica che corrisponde cioè all’utilizzo effettivo della forza lavoro da parte delle imprese. Infatti vediamo che i paesi che effettivamente riducono l’orario di lavoro per legge o contratto, come la Francia e la Germania, hanno orari annuali molto più bassi dell’Italia, che comunque riduce i suoi orari annuali, aumentando però la differenza del tempo di lavoro. Cioè gli operai italiani diventano gli stakanovisti d’Europa. Questo nonostante il dilagare di contratti part time che teoricamente dovrebbero registrare orari di prestazione inferiori.
E qui arriviamo al TEMPO DI LAVORO REALE. Cioè a quanto il lavoratore è effettivamente Ecco Così giungiamo al TEMPO DI LAVORO REALE che vede il lavoratore effettivamente impegnato nella prestazione lavorativa . Qui a partire dagli anni 80 abbiamo un colossale AUMENTO.
Tale incremento avviene con quattro operazioni fondamentali.
La riduzione della porosità del tempo di lavoro. Cioè la soppressione delle pause tecniche che si raggiunge con la razionalizzazione del processo produttivo tramite informatica e nuovo taylorismo. A questo si aggiunge anche l’attacco alle pause contrattuali e fisiologiche ufficiali. La sostanza è che otto ore di lavoro oggi sono molto più piene e faticose di qualche decennio fa.
La seconda operazione e la riduzione apparente degli orari a cui corrisponde un aumento non adeguatamente retribuito. Ad esempio le ore supplementari imposte ai lavoratori part time, che spesso li portano a lavorare oltre lo stesso orario contrattuale.
La terza operazione è determinata dal tempo in cui si é disposizione del lavoro senza essere effettivamente considerati al lavoro. È una lotta di classe sul tempo che i padroni oggi conducono intensamente: tutto il mondi del lavoro precario, ma non solo quello, la subisce. Per fare un’ora retribuita di lavoro si devono spendere ore del proprio tempo in attesa della chiamata. È tempo di lavoro non retribuito. Il lavoro gratuito dilaga e aumenta l’orario complessivo di lavoro anche se non viene considerato tale, all’opposto del tempo tuta, cioè il tempo per gli operai di vestirsi per il lavoro, considerato tempo di lavoro da molte sentenze. Ecco oggi al contrario aumenta il tempo di lavoro complessivo, ma diminuisce il tempo di lavoro riconosciuto come tale ed effettivamente retribuito. Quello che si chiama essere pagati in base ai risultati, come ha teorizzato l’ex ministro Poletti, in realtà è aumento di lavoro gratuito. 
Infine l’elevazione dell’età pensionabile aumenta il tempo di lavoro in vita, la riforma Fornero comporta mediamente da 5000 a 7000 ore di la oro in più nella vita di una persona.
Da questi dati emergono due conclusioni.
La prima e che la svolta liberista degli anni 80 ha portato al blocco sostanziale del processo storico di riduzione degli orari e anche ad un loro aumento in termini di tempo di lavoro reale. La flessibilità degli orari e la precarizzazione del lavoro sono stati le basi di questo processo.
La seconda è che la riduzione d’orario come progettata da Agnelli e da Keynes, come soluzione razionale e condivisa della disoccupazione non sarà mai davvero accettata dalle classi imprenditoriali. Che sempre puntano a combinare l’evoluzione della tecnologia con l’estrazione di plusvalore assoluto, cioè cercando di allungare il più possibile l’orario di lavoro. E siccome nelle crisi aumenta la disoccupazione e quindi si riduce il potere contrattuale del lavoro verso il capitale, paradossalmente è più facile ridurre l’orario quando c’è piena occupazione, che quando servirebbe a ridurre la disoccupazione.
Per questo oggi abbiamo lavoro straordinario e disoccupati assieme, non solo nel sistema ma anche nella stessa azienda.
Se si vuole, ed è giusto volerlo, la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, non si può pensare ad essa come la soluzione tecnica del problema tecnico della disoccupazione.
Essa va invece pensata nel quadro di un cambiamento complessivo della società, sia dal lato dei rapporti di potere tra le classi, sia da quello del modo di vivere.
Non si riduce l’orario di lavoro se il padrone ha il dominio assoluto del tempo del lavoratore e se la società è governata dal profitto. La lotta dei lavoratori per essere più liberi dal lavoro e nel lavoro e quella per politiche economiche di rottura con il liberismo e per la piena occupazione sono necessarie assieme.
E con esse deve riemergere la questione di fondo del rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita.
La lotta per le 8 ore fu lanciata dalla Prima Internazionale già nel 1866. Era per allora, con orari giornalieri di 10 12 ore, una idea visionaria.
Che si reggeva su un progetto di vita chiaro: la ripartizione della giornata in tre parti uguali, una per il lavoro, una per il riposo, una per sè stessi. La forza razionale di questa visione servi ad affermarla.
Oggi che rapporto noi pensiamo tra tempo di lavoro e tempo di vita? Come proponiamo che sia una più giusta ripartizione del tempo?
In Germania c’è stata una prima apertura verso le 28 ore settimanali. Pensiamo a questo obiettivo e lo generalizziamo? E come ripariamo nella settimana queste ore? Queste sono le domande concrete a cui dobbiamo rispondere, magari costruendo la risposta con una consultazione, discussione di massa come fecero i metalmeccanici nel 1969.

mercoledì 10 aprile 2019

Il governo si riconcilia con Confindustria, a spese nostre

È davvero surreale la distanza che separa i processi che si muovono su scala globale dall’autismo che caratterizza la classe imprenditoriale di casa nostra.
Mentre sull’Unione Europea e in particolare sul nostro paese si abbatte l’ennesimo tornante della crisi che conferma il fallimento di politiche di de-industrializzazione, privatizzazione degli asset strategici e compressione salariale, mentre su scala globale la Cina si presenta come locomotiva del mondo attraverso politiche volte a sostenere il mercato interno ed un piano faraonico di investimenti pubblici, il pacchetto di misure varate dal governo e contenute del DL crescita, viene salutato con ottimismo dalle pagine del sole 24ore ed addirittura definito come “una svolta necessaria di non poco conto”.
Un passaggio che segna la “riconciliazione” tra il governo giallo verde e l’associazione degli industriali (che pur senza ragione aveva storto il naso rispetto ad alcune misure contenute nella legge di bilancio che avevano leggermente rimodulato le poste indirizzandole maggiormente verso le piccole imprese) e che trova riscontro nelle parole del premier Conte secondo le quali il Governo è “un interlocutore che troverete sempre attento per favorire la crescita economica, per favorire le imprese” da intendersi “come comunità di donne e uomini” impegnate a “perseguire uno sviluppo sostenibile”.
Ma di quali misure in realtà stiamo parlando?
Siamo in presenza dei consueti interventi a favore delle imprese che si muovono sul versante dei tagli fiscali e degli aiuti agli investimenti.
Per entrare più nel dettaglio eccone alcune:
Proroga dal 1 aprile al 31 dicembre 2019 del super ammortamento al 130% degli investimenti in beni strumentali: si tratta di una misura che consente di pagare meno tasse sul bene acquistato attraverso una supervalutazione del bene, ovvero investi 100.000 euro e ne deduci 130.000.
Innalzamento della deducibilità dall’Ires e dall’Irpef dell’IMU pagata dagli imprenditori per gli immobili strumentali all’attività di impresa. Giusto per capirci: nella legge di bilancio l’attuale governo aveva già raddoppiato la deducibilità dell’IMU dal 20 al 40%, attraverso questo intervento l’aliquota sale al 50% per l’anno in corso ed arriva all’80% nel triennio 2020-2022.
Bonus per aggregazioni di imprese: si tratta di uno sconto fiscale per favorire processi di fusione e aggregazione tra imprese volte a favorirne la crescita dimensionale
Mini Ires 2.0: viene abbandonata la mini Ires (riduzione dal 24% al 15% sugli investimenti in beni strumentali) contenuta nella legge di bilancio, non particolarmente gradita alle imprese e, in una ottica di semplificazione, viene introdotta una nuova versione con una riduzione di 4 punti percentuali per gli utili reinvestiti e lasciati in azienda con una aliquota ridotta da subito al 22,5% per tutti, con la prospettiva di ridurla al 20% nel 2022.
Insomma nulla di nuovo sotto il sole: la solita ideologia secondo la quale l’impresa privata sarebbe il motore della crescita e il mondo imprenditoriale andrebbe ricoperto d’oro in quanto unico attore capace di rilanciare l’occupazione.
Ciò che però rende più surreale queste misure è il diverso contesto nel quale esse oggi si collocano.
Quel progetto economico  e politico denominato globalizzazione si è rivelato sempre più un boomerang per l’Unione europea e per gli USA, oggi decisamente in affanno rispetto ai loro competitor.
La costruzione da parte di imprese europee ed americane di nuovi impianti nei paesi in via di sviluppo al fine di conquistare mercati locali e la produzione in questi paesi anche di merci richieste dai mercati dei loro paesi di origine sfruttando una forza lavoro sottomessa e meno tutelata, hanno di fatto contribuito a creare le condizioni per l’emersione sullo scacchiere geopolitico di quei paesi che soltanto qualche decennio fa chiamavamo “terzo mondo”.
Anche se i soloni della globalizzazione giammai lo riconosceranno, la competitività dei paesi emergenti che ora tanto spaventa (Cina in primis) e gli impressionanti ritmi di crescita sono stati costruiti anche da noi attraverso il trasferimento in quei paesi della produzione di beni e servizi.
Allo stesso modo i processi di delocalizzazione hanno certamente indebolito la classe operaia e il movimento dei lavoratori su scala continentale ( a maggior ragione nei paesi del Sud Europa) ridisegnando i rapporti di classe a favore del capitale.
Insomma in Europa un modello a trazione tedesca tutto orientato all’esportazione e alla compressione dei salari ha determinato una progressiva depressione dei mercati interni e dei consumi di massa.
I trattati europei, la lotta all’inflazione e l’eterno ricatto del debito hanno poi costituito la cornice giuridico-economica all’interno della quale collocare queste politiche, ma hanno anche scavato la fossa per i paesi dell’UE incapaci di reggere i ritmi di crescita dei paesi del c.d. terzo mondo.
E così mentre in Cina (magari non per filantropia) si ravvivano i consumi di massa attraverso l’innalzamento dei salari, la riduzione delle tasse per lavoratori e un gigantesco piano di interventi pubblici, nell’eurozona i livelli salariali sono da tempo al di sotto della soglia della sopravvivenza, la spesa sociale (scuola, sanità, pensioni) continua ad essere drasticamente ridotta e, specie nel nostro paese, brilla la mancanza di un qualsivoglia ragionamento volto a riportare in mano pubblica i settori strategici dell’economia (non dimentichiamo che anche nella recente legge di bilancio sono previsti 18 miliardi di privatizzazioni a garanzia della tenuta dei conti pubblici).
In questo scenario e con alle porte una manovra di autunno che si annuncia tra le più dolorose, potranno mai le consuete elargizioni alle imprese contenute nel DL crescita costituire davvero una svolta di non poco conto ?

martedì 9 aprile 2019

Libia: l’Italia è stata colta ancora una volta apparentemente di sorpresa

Ancora una volta sulla Libia l’Italia è stata colta apparentemente di sorpresa. Come del resto accade nel 2011 quando Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti decisero di fare fuori il Colonnello Gheddafi. Poi l’Italia si accordò ai raid della Nato commettendo un secondo errore: bombardammo il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, ricevuto a Roma soltanto sei mesi prima e con cui avevamo firmato accordi miliardari e nel campo della sicurezza, perdendo ogni credibilità internazionale. Gli stessi americani ci hanno preso in giro: prima Obama e poi Trump ci hanno promesso una “cabina di regia” sulla Libia che in realtà nessuno ci ha mai voluto dare, visti i precedenti.
Le illusioni dell’Italia
L’Italia è un Paese di illusi. Con il fascismo ha perso la seconda guerra mondiale, tutte le sue colonie ed è stato occupato dagli Alleati ospitando dozzine di basi Nato e testate nucleari americane che non controlla: puoi dichiarare di essere “sovranista” quanto vuoi ma non avendo mai recuperato sovranità reale conti ben poco. Anche le famose missioni militari all’estero con cui abbiamo avuto dozzine di morti in Iraq e in Afghanistan non sono bastate a ridarci credibilità: siamo rimasti i camerieri degli americani che ci tirano le orecchie di continuo, come è accaduto quando abbiamo firmato un memorandum sulla Via della Seta con la Cina e stretto contratti commerciali con Pechino, di valore per altro ben inferiori a quelli di francesi e tedeschi.
Da escludere un intervento militare
Del resto cosa accadrebbe se intervenissimo militarmente, da soli, a sostenere il governo Sarraj di Tripoli? Al primo morto qui si scatenerebbe il finimondo. La Francia che noi vituperiamo tanto perché protegge i suoi interessi manda i suoi soldati ovunque e nessuno protesta, nemmeno i gilet gialli che qui qualcuno ama tanto.
Un attacco annunciato
Che il generale Khalifa Haftar fosse sul piede di guerra era sotto gli occhi di tutti da mesi e lo avevano segnalato anche su queste colonne: non possiamo dire che non fossimo informati, pur nel silenzio generale di governo e opposizione, della sua avanzata.
Il giacimento libico El Feel
Bastava guardare cosa stava accadendo sul terreno. Haftar aveva preso il controllo dell’importante giacimento libico El Feel, gestito dall’ Eni assieme alla Compagnia petrolifera nazionale libica (Noc), un’operazione avvenuta nell’ambito della campagna di conquista del Sud-Ovest con cui si era già impadronito dei pozzi di Sharara, i più importanti della Libia.
Il vero problema della Libia
Ma qui in Italia quando si parla di Libia l’unico argomento sembrano i flussi dei migranti che sono un conseguenza dell’instabilità libica, non la causa. Il problema libico è che nel 2011 il Paese si è spezzato: Tripolitania e Cirenaica sono tornate a essere entità diverse e in competizione, come era prima della sanguinosa colonizzazione italiana che le unificò negli anni Trenta con il generale Graziani (80mila morti).
Dopo la seconda guerra mondiale la Gran Bretagna, potenza mandataria, puntò a tenere insieme la Libia sotto la monarchia dei Senussi nonostante Re Idriss avesse dichiarato: “Io sono re della Cirenaica non della Tripolitania”. Dopo la caduta di Gheddafi le due grandi regioni, cui si aggiunge il Fezzan, non sono più tornate assieme, se non in via teorica.
L’errore dei governi italiani
L’errore più marchiano commesso dai governi italiani è stato quello di snobbare per lungo tempo i rapporti con Haftar perché pensavano che il governo di Sarraj fosse appoggiato dalla comunità internazionale. In realtà Fayyez Sarraj ce lo abbiamo messo noi a Tripoli: è un uomo debole, privo di una sua forza militare autonoma e dipende dalla milizie.
Il governo di Fayyez Sarraj
Inoltre il suo governo è malvisto perché viene appoggiato da gruppi islamisti e Fratelli Musulmani. Ancora prima del petrolio questa è la vera ragione del conflitto. Haftar, che è tra l’altro cittadino americano, gode del sostegno dell’Egitto, della Francia, dell’ Arabia Saudita, degli Emirati e in parte degli Usa e della Russia perché ha il compito di far fuori i Fratelli Musulmani a Tripoli, una della parti perdenti delle vicende mediorientali, appoggiati soltanto da Qatar e Turchia. Il Qatar tra l’altro proprio per questo è boicottato dalle monarchie del Golfo che lo vedono come il fumo negli occhi.
Gli interessi petroliferi
L’Italia si è adattata alla situazione perché ha il 70% dei suoi interessi petroliferi in Tripolitania ma anche per gli affari con il Qatar, uno dei maggiori investitori stranieri in Italia e al quale abbiamo fornito in un anno mezzo circa 10 miliardi di dollari di armi, tra navi, elicotteri e aerei. Non facciamo i furbetti come al solito: sappiamo benissimo le ragioni per cui sosteniamo il governo di Tripoli. Ma non abbiamo la forza per tenerlo in piedi.
Gli obiettivi del generale
Il generale Haftar ha tre obiettivi. Il primo è conquistare il potere facendo fuori gli islamisti. Il secondo impadronirsi delle entrate petrolifere: lui controlla infatti i pozzi del Sud e i terminali dell’Est ma non può esportare il greggio per un embargo internazionale e i soldi dell’oro nero li incassa ancora Tripoli con la banca centrale libica. Aveva infatti chiesto recentemente di aumentare del 40% la sua quota di entrate. Questi due obiettivi non sono facili da raggiungere e non è detto che la sua offensiva su Tripoli abbia successo: deve evitare un bagno di sangue per presentarsi come un “pacificatore” del Paese. In realtà i sauditi gli hanno dato i finanziamenti per comprarsi l’appoggio delle fazioni avversarie ma questa operazione non è ancora riuscita completamente.
La conferenza dell’Onu sulla Libia
Ha già invece colto il terzo obiettivo, quello più immediato: far saltare, con ogni probabilità, la conferenza nazionale sulla Libia sponsorizzata dall’Onu che dovrebbe svolgersi a Ghadames tra una settimana. In ogni caso adesso ha alzato la posta e fatto capire che lui e i suoi sponsor non hanno nessuna intenzione di lasciare a lungo al potere il governo di Tripoli.

lunedì 8 aprile 2019

Con le bombe su Belgrado moriva l’Europa e nasceva l’Unione Europea

I bombardamenti delle potenze della Nato su Belgrado e la Federazione Jugoslava venti anni fa sono stati uno spartiacque nella storia europea più recente. La velocità con cui è stata rimossa quella guerra e il silenzio sul ventesimo anniversario,  confermano oggi quanta falsa coscienza e quanti scheletri ci siano nell’armadio delle forze liberali e progressiste europee che vorrebbero rappresentare l’alternativa alle forze reazionarie che vengono crescendo in Europa.
Con i bombardamenti  su Belgrado, una capitale europea, possiamo affermare con le parole dello scrittore Peter Handke, che “è morta l’Europa ed è nata l’Unione Europea”.
Ma quale è stata la colpa della Federazione Jugoslava alla quale per 78 giorni sono stati bombardate le città, le fabbriche come a Kraugujevac e Pancevo, i ponti sul Danubio, le ferrovie mentre transitavano i treni, con centinaia di morti, di feriti, di profughi che nessuno ha voluto vedere?
La residua Federazione Jugoslava agli occhi delle potenze imperialiste della Nato, tutte e nessuna esclusa, aveva la colpa di essersi opposta al processo di disgregazione e frammentazione che Germania e Usa avevano scatenato nei paesi dell’Europa dell’Est dopo la dissoluzione dell’Urss, e aveva la colpa di trovarsi in mezzo al “Grande Gioco” sui corridoi strategici tra Est e Ovest su cui si è combattuta una più di una guerra e su cui ancora oggi è in corso una durissima competizione globale.
Per avere una idea di come è stata brutalmente ridefinita la mappa del mondo in quell’area che i geopolitici chiamano Eurasia, dobbiamo sapere che fino al 1989 in quell’area a est di Gorizia per intenderci, c’erano solo 10 Stati riconosciuti dall’Onu. Oggi ce ne sono 32, quasi tutti riconosciuti dall’Onu e solo 11 hanno più di dieci milioni di abitanti. Ad eccezione della Russia si tratta in gran parte di piccoli Stati con scarso peso negoziale, con forza lavoro a basso costo ma istruita e qualificata (vedi il caso emblematico della Zastava denunciato in questo convegno), in condizioni di dipendenza economica dalle delocalizzazioni produttive e dagli investimenti esteri e, lì dove ce ne sono, sullo sfruttamento delle loro materie prime.
E’ noto come dopo la dissoluzione dell’Urss, soprattutto intorno al 1993 si sono riscatenati gli appetiti degli imperialismi, soprattutto da parte dagli Stati Uniti usciti vittoriosi dalla Guerra Fredda – ma in parte anche dalla Germania ormai riunificata – in tutta l’area che va dai Balcani all’Asia.
Gli obiettivi dichiarati erano:
  • Ridisegnare la mappa geopolitica
  • Mettere mano sulle risorse naturali (in particolare gas e petrolio) delle repubbliche ex sovietiche
  • Controllare i corridoi strategici, ossia una rete infrastrutturale fatta di pipelines, strade, porti, infrastrutture, che consentissero di far pervenire rapidamente queste risorse sui mercati più ricchi come l’Europa.
  • Tagliare fuori da questi corridoi Stati come la Russia e l’Iran, ma anche condizionare i partner europei sull’accesso alle risorse che si sono venute a trovare a disposizione.
In qualche modo questa strategia era stata indicata come vitale per il mantenimento dell’egemonia statunitense già nel 1992 con primo documento dei neocons statunitensi reso noto dal Washington Post (ripreso e ampliato nel 2000 con il Pnac, Project for New American Centuries) nel quale, dopo la sconfitta dell’Urss, si puntava a usare ogni mezzo affinchè in questa area non sorgesse mai più una potenza rivale capace di competere con gli Usa.
Questa strategia è stata definita ancora più nei dettagli da Zbignwew Brzezinski a metà degli anni Novanta con il suo libro “The Great Chessboard” (La Grande Scacchiera).
E’ emblematico che esattamente nello stesso periodo e con l’amministrazione Clinton, il Congresso Usa avesse discusso nel 1997 e approvato nel 1999 il “Silk Road Strategy Act”, ossia il Documento Strategico per la Via della Seta, ma in senso completamente opposto a quello perseguito oggi dalla Cina.
La Federazione Jugoslava è venuta a trovarsi proprio nel mezzo di tale ridefinizione e spartizione di questa parte del mondo. L’essersi opposta alla disgregazione, in una fase in cui la disgregazione degli Stati nell’Est veniva perseguita con determinazione da potenze imperialiste come Stati Uniti e Germania, l’ha resa colpevole e l’ha trasformata in un “Target” da abbattere, dividere ulteriormente, criminalizzare  e bombardare.
Alcuni articoli di Alberto Negri sui corridoi strategici nei Balcani, pubblicati sul quotidiano economico Il Sole 24 Ore, usciti durante le vacanze natalizie tra il 1998 e il 1999,  restano su questo aspetto illuminanti per capire le motivazioni dell’aggressione alla Jugoslavia.
E’ importante, anche se non c’è il tempo per approfondire, segnalare come tutto questo abbia influito sulla Russia allora soggetta ad una pesantissima crisi economica, sociale e perfino demografica (è stato l’unico paese a perdere popolazione non in tempo di guerra ma a causa di malattie, miseria etc.).
La Russia di Eltsin è stata uno zerbino e una terra di saccheggio per le multinazionali, gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Ma proprio l’aggressione alla Federazione Jugoslava nel 1999 ha funzionato da acceleratore per una controtendenza che portò ad un cambiamento di leadership.
La Russia non solo aveva subito le pesantissime conseguenze interne della dissoluzione dell’Urss, ma aveva visto esplodere gli orrori della guerra anche ai propri confini, ad esempio in Cecenia, una delle zone in cui transitano proprio quegli oleodotti diventati oggetto del Grande Gioco che doveva tagliare fuori la Russia dai corridoi strategici. Le due guerre in Cecenia sono state orrende, sia per i russi che per i ceceni. Dietro il secessionismo ceceno, così come quello kosovaro o bosniaco, abbiamo visto la longa manu non solo degli Usa ma anche quelle dell’Arabia Saudita e della Turchia che hanno agito in Bosnia, nel Kosovo, in Macedonia.
L’obiettivo dichiarato era quello di mettere fuori gioco i terminali petroliferi che convergevano nel porto russo di Novorossik sul Mar Nero, e imporre un tracciato per le nuove pipelines che doveva invece sfociare nel porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo. Inutile dire che quel tracciato passava anche sui territori abitati dai kurdi in Turchia e che quindi andavano “neutralizzati” con ogni mezzo.
L’onda lunga di quel conflitto ai confini della Russia è arrivato fino al 2008 ed ancora nel Caucaso (zona di passaggio delle pipelines provenienti dalle repubbliche asiatiche ex sovietiche), quando la Georgia si era sentita talmente forte e sostenuta dagli Stati Uniti da muovere guerra contro le due piccole repubbliche della Ossezia e dell’Abkhazia legate a Mosca. L’entrata in campo delle forze armate russe portò alla sconfitta della Georgia, la quale temendo per il suo futuro invocò l’art.5 della Nato in quanto partner e chiedendo alle potenze Nato di intervenire al suo fianco. Gli Usa si dissero disponibili, ma le potenze europee opposero un secco rifiuto evidenziando quella crisi della Nato diventata sempre più leggibile negli anni successivi. In sostanza le camere di compensazione degli interessi tra le varie potenze euroatlantiche, e con gli Stati Uniti come primus inter pares, cominciavano a non funzionare più come prima.
La dimostrazione che il mondo e i rapporti di forza sono cambiati venti anni dopo una guerra strategica come quella in Jugoslavia, sono leggibili da fatti che dimostrano come i peggiori incubi dei neconservatori statunitensi si stiano avverando: la non riuscita destabilizzazione della Siria, lo stallo della situazione in Ucraina, la tenuta del Venezuela ed infine il progetto della Via della Seta cinese tra l’Asia e l’Europa, in direzione e con interessi esattamente contrari a quelli del Silk Road Strategy Act degli Stati Uniti, sono lì a dimostrarlo. Gli Stati Uniti vivono una crisi della loro egemonia globale. Ciò li rende più deboli ma non per questo meno pericolosi.
Ma dobbiamo anche dirci che la disgregazione della Jugoslavia prima e l’aggressione NATO alla Federazione Jugoslava poi, non è un crimine che possiamo addossare solo agli Stati Uniti.
Per molti aspetti, come dicevamo all’inizio, i bombardamenti sulla Serbia del 1999 sono stati quasi un atto costitutivo della nuova fase dell’Unione Europea del XXI Secolo, esattamente come lo era stata la richiesta tedesca di riconoscimento unilaterale della secessione di Slovenia e Croazia mentre si discuteva l’approvazione del Trattato di Maastricht nel 1992.
Sappiamo tutti che i bombardamenti su Belgrado erano in preparazione almeno dal 1998 (la strage del Cermis è lì a testimoniare l’addestramento degli aerei militari statunitensi della base di Aviano ai voli a bassa quota). In Italia il primo ministro Prodi aveva dato l’activaction order nelle basi Nato presenti nel nostro paese già ad ottobre del 1998.
La farsa del Gruppo di Contatto e del negoziato di Rambouillet sul Kosovo,  ha visto pienamente coprotagonisti anche Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna e non solo gli Usa. Quando si è capito che Washington avrebbe dato via all’escalation, nessuna potenza europea si è chiamata fuori, anche se gli Stati europei coinvolti erano tutti governati da forze progressiste, socialdemocratiche e di centro-sinistra: Blair, Jospin, Schroeder, D’Alema. Sono state proprio queste forze ad aver elaborato e gestito nelle proprie società e tra i  militanti della sinistra la tesi della “guerra umanitaria”, della guerra come “dolorosa necessità”, ad aver alimentato e gestito la manipolazione mediatica e la disinformazione consapevole, finanche le operazioni di aiuto umanitario che hanno portato più benefici economici alle Ong e alle associazioni impegnate nella Missione Arcobaleno che alle popolazioni della Jugoslavia. Sono stati aiuti umanitari che hanno esplicitamente discriminato i più 600.000 profughi serbi fuggiti dalle Krajine e dalla Bosnia prima e dal Kosovo poi e presi in carico da un paese – la Serbia – sottoposta già a sanzioni economiche e poi ai bombardamenti.
Non c’è stato solo l’uso delle basi militari ma anche i bombardieri inglesi, francesi, italiani e tedeschi (per la prima volta dalla seconda guerra mondiale) hanno partecipato attivamente agli attacchi sulla Serbia e il Kosovo insieme a quelli statunitensi.
Sono state scelte gravissime che non dobbiamo e non vogliamo dimenticare, sono state, appunto, uno spartiacque politico, storico, strategico e se volete, anche morale che rimane valido tutt’oggi.