Prima del “Costruite il muro!”, c’era il “Butti giù questo muro!”.
Nel suo famoso discorso del 1987, Ronald Regan chiese che la “cicatrice”
del Muro di Berlino fosse cancellata e ribadì che l’oltraggiosa
restrizione alla circolazione che esso rappresentava equivaleva niente
di meno che a una “questione di libertà per tutto il genere umano”.
Continuò dicendo che quelli che “rifiutavano di unirsi alla comunità
della libertà” sarebbero “stati superati” come risultato
dell’irresistibile forza del mercato globale. E così fu. Per celebrare,
Leonard Bernstein ha diretto una rappresentazione dell'”Inno alla gioia”
e Roger Waters si è esibito in “The Wall”. Le barriere alla mobilità
del lavoro e dei capitali crollarono in tutto il mondo; fu dichiarata la
fine della storia; e seguirono decenni di globalizzazione dominata
dagli Stati Uniti.
Nei suoi 29 anni di esistenza, circa 140 persone sono morte cercando
di superare il Muro di Berlino. Nel mondo promesso della libertà e della
prosperità economiche globali, sono morte 412 persone soltanto l’anno
scorso nel tentativo di attraversare il confine tra Messico e Stati
Uniti, e più di tremila sono morte l’anno prima nel Mediterraneo. Delle
canzoni pop e dei film di Hollywood sulla libertà non c’è traccia. Cosa è
andato storto?
Naturalmente, il progetto reaganiano non si concluse col crollo
dell’Unione Sovietica. Reagan – e i suoi successori di entrambi i
partiti – ha usato la stessa retorica trionfalistica per vendere lo
svuotamento dei sindacati, la liberalizzazione delle banche,
l’espansione delle esternalizzazioni, e la globalizzazione dei mercati
lontano dal peso morto degli interessi economici nazionali.
Per questo progetto è stato centrale l’attacco neoliberale alle
barriere nazionali alla circolazione della forza lavoro e dei capitali.
In casa, Reagan sovrintese a una delle più significative riforme a
favore dell’immigrazione nella storia americana, il “Reagan Amnesty” del
1986, che ampliò il mercato del lavoro permettendo a milioni di
migranti illegali di ottenere uno status legale.
Inizialmente, i movimenti popolari che lottavano contro differenti
elementi di questa visione post-Guerra Fredda insorsero da sinistra,
nella forma di movimenti anti-globalizzazione e successivamente di
Occupy Wall Street. Ma, mancando del potere negoziale per sfidare il
capitale internazionale, questi movimenti di protesta non si risolsero
in nulla. Il sistema economico globalizzato e finanziarizzato ha tenuto
nonostante tutte le devastazioni che ha provocato, anche durante la
crisi finanziaria del 2008.
Oggi, il movimento anti-globalizzazione di gran lunga più visibile ha
preso la forma di una forte reazione contro i migranti, guidata da
Donald Trump e altri “populisti”. La sinistra, nel frattempo, non sembra
avere altre opzioni che ritrarsi inorridita dal “Muslim ban” di Trump e
dalle nuove storie sull’
ICE che
bracca le famiglie di migranti; può soltanto reagire contro qualsiasi
cosa Trump stia facendo. Se Trump è a favore dei controlli
sull’immigrazione, la sinistra chiederà l’opposto. E così oggi i
discorsi sui “confini aperti” sono entrati nel dibattito liberale
mainstream, quando una volta erano confinati ai think tank radicali del
libero mercato e ai circoli anarco-libertari.
Anche se nessun importante partito politico di sinistra sta offrendo
proposte concrete per una società realmente senza confini, accogliendo
gli argomenti morali della sinistra open-border e gli argomenti
economici dei think tank del libero mercato, la sinistra si è messa
all’angolo. Se “nessun essere umano è illegale!”, come affermano i canti
di protesta, la sinistra sta implicitamente accettando la tesi morale a
favore di nessuna frontiera o sovranità nazionale. Ma quali
implicazioni avrà l’immigrazione illimitata su progetti come la sanità e
l’educazione pubbliche universali, o la garanzia dei lavori federali? E
come potranno i progressisti spiegare questi obiettivi in modo
convincente all’opinione pubblica?
Durante la campagna delle primarie democratiche del 2016, quando il
redattore di Vox Ezra Klein suggerì le politiche open border a Bernie
Sanders, il senatore com’è noto dimostrò la sua età rispondendo:
“Confini aperti? No. Quella è una proposta dei fratelli Koch” [1].
Questo per un attimo portò confusione nella narrazione ufficiale, e
Sanders fu velocemente accusato di “parlare come Donald Trump”. Sotto le
differenze generazionali rivelate da questo scambio, in ogni caso, c’è
un tema più grande. La distruzione e l’abbandono delle politiche del
lavoro implicano che, al momento, i temi dell’immigrazione possano
essere messi in scena soltanto all’interno della cornice di una cultura
di guerra, combattuta interamente sul terreno morale. Nelle intense
emozioni del dibattito pubblico americano sulla migrazione, prevale una
semplice dicotomia morale e politica. È “di destra” essere “contro
l’immigrazione” e “di sinistra” essere “a favore dell’immigrazione”. Ma
l’economia della migrazione racconta una storia diversa.
GLI UTILI IDIOTI
La trasformazione della posizione open border in una posizione di
“sinistra” è un fenomeno del tutto nuovo ed è in contrasto con la storia
della sinistra organizzata in diversi modi fondamentali. I confini
aperti sono da lungo tempo un grido di battaglia per la destra degli
affari e del libero mercato. Attingendo da economisti neoclassici,
questi gruppi hanno sostenuto la liberalizzazione della migrazione sulla
base della razionalità del mercato e della libertà economica. Si
oppongono ai limiti alla migrazione per le stesse ragioni per cui si
oppongono alle restrizioni sui movimenti di capitali. Il Cato Institute,
finanziato dai Koch, che promuove anche l’abolizione delle restrizioni
legali sul lavoro minorile, ha prodotto una difesa radicale delle
frontiere aperte per decenni, sostenendo che il sostegno alle frontiere
aperte è un principio fondamentale del libertarismo e “Dimenticate il
muro, è già tempo che gli Stati Uniti abbiano confini aperti” [2].
L’Adam Smith Institute ha fatto lo stesso, sostenendo che “le
restrizioni all’immigrazione ci rendono più poveri” [3].
Seguendo Reagan e figure come Milton Friedman, George W. Bush ha
sostenuto la liberalizzazione della migrazione prima, durante e dopo la
sua presidenza. Grover Norquist, zelante difensore dei tagli fiscali di
Trump (e di Bush e di Reagan), per anni si è scagliato contro
l’intolleranza dei sindacati, ricordandoci che “l’ostilità verso
l’immigrazione è stata tradizionalmente una causa sindacale” [4].
Non ha torto. Dalla prima legge che limitava l’immigrazione nel 1882 a
Cesar Chavez e ai famosi lavoratori multietnici della United Farm che
protestavano contro l’uso e l’incoraggiamento, da parte dei datori di
lavoro, dell’emigrazione illegale nel 1969, i sindacati si sono spesso
opposti alla migrazione di massa. Videro l’importazione deliberata di
lavoratori illegali a basso salario come un indebolimento del potere
contrattuale della forza lavoro e come forma di sfruttamento. Non c’è
modo di aggirare il fatto che il potere dei sindacati dipende per
definizione dalla loro capacità di limitare e ritirare l’offerta di
lavoro, cosa che diventa impossibile se un’intera forza lavoro può
essere sostituita facilmente ed economicamente. Le frontiere aperte e
l’immigrazione di massa sono una vittoria per i padroni.
E i padroni la supportano quasi universalmente. Il think tank e
organizzazione di lobbying di Mark Zuckerberg, Forward, che promuove la
liberalizzazione delle politiche migratorie, elenca tra i suoi
“fondatori e finanziatori” Eric Schmidt e Bill Gates, nonché
amministratori delegati e dirigenti di YouTube, Dropbox, Airbnb,
Netflix, Groupon, Walmart , Yahoo, Lyft, Instagram e molti altri. La
ricchezza personale cumulata rappresentata da questa lista è sufficiente
a influenzare pesantemente la maggior parte delle istituzioni di
governo e dei parlamenti, se non a comprarli del tutto. Sebbene spesso
celebrati dai progressisti, le motivazioni di questi miliardari
“liberali” sono chiare. Non dovrebbe sorprendere la loro generosità
verso i repubblicani dogmaticamente schierati contro il lavoro, come
Jeff Flake della famosa “
Gang of Eight“.
Certo, l’opposizione sindacale alla migrazione di massa nelle epoche
precedenti è stata a volte mescolata con il razzismo (che era presente
in tutta la società americana). Ciò che viene omesso nei tentativi dei
libertari di diffamare i sindacati come “i veri razzisti”, tuttavia, è
che ai tempi dei sindacati forti, questi erano in grado di usare il loro
potere anche per organizzare campagne di solidarietà internazionale con
i movimenti dei lavoratori in tutto il mondo. I sindacati hanno
aumentato i salari di milioni di membri non bianchi, mentre oggi si
stima che la de-sindacalizzazione costi ai maschi neri americani 50
dollari a settimana [5].
Durante la rivoluzione neoliberale di Reagan, il potere sindacale
subì un duro colpo dal quale non si è mai più ripreso e i salari sono
rimasti fermi per decenni. Sotto questa pressione, la sinistra stessa ha
subito una trasformazione. In assenza di un potente movimento operaio, è
rimasta radicale nella sfera della cultura e della libertà individuale,
ma può offrire poco più di proteste inoffensive e appelli al noblesse
oblige nella sfera dell’economia.
Con le immagini oscene di migranti a basso reddito che vengono
braccati come criminali dall’ICE, di altri che affogano nel
Mediterraneo, e la preoccupante crescita del sentimento
anti-immigrazione in tutto il mondo, è facile capire perché la sinistra
vuole impedire che i migranti illegali diventino bersagli e vittime. E
con ragione. Ma agendo sulla base del giusto impulso morale a difendere
la dignità umana dei migranti, la sinistra ha finito per trascinare la
linea del fronte troppo indietro, difendendo efficacemente lo stesso
sistema di sfruttamento della migrazione.
I benintenzionati attivisti di oggi sono diventati gli utili idioti
del grande business. Adottando la difesa dei “confini aperti” – e un
feroce assolutismo morale che considera ogni limite alla migrazione come
un male indicibile – qualsiasi critica al sistema di sfruttamento delle
migrazioni di massa viene effettivamente respinta come bestemmia.
Persino politici saldamente di sinistra, come Bernie Sanders negli Stati
Uniti e Jeremy Corbyn nel Regno Unito, sono accusati di “nativismo” dai
critici se riconoscono a un certo punto la legittimità delle frontiere o
delle restrizioni sulla migrazione. Questa radicalismo delle frontiere
aperte in definitiva giova alle élite dei paesi più potenti del
mondo, indebolisce ulteriormente il lavoro organizzato, deruba il mondo
in via di sviluppo di professionisti di cui ha disperato bisogno e mette
i lavoratori contro i lavoratori.
Ma la sinistra non ha bisogno di credermi sulla parola. Basta
chiedere a Karl Marx, la cui posizione sull’immigrazione lo farebbe
bandire dalla sinistra moderna. Anche se la velocità e le dimensioni
attuali dei fenomeni di migrazione sarebbero stati impensabili ai tempi
di Marx, egli espresse una visione estremamente critica degli effetti
della migrazione che si verificò nel diciannovesimo secolo. In una
lettera a due dei suoi compagni di viaggio americani, Marx sosteneva che
l’importazione di immigrati irlandesi poco pagati in Inghilterra li
costringeva a una concorrenza ostile con i lavoratori inglesi. Lo vedeva
come parte di un sistema di sfruttamento, che divideva la classe
operaia e che rappresentava un’estensione del sistema coloniale.
Scrisse:
A causa della concentrazione sempre
crescente delle locazioni, l’Irlanda invia costantemente il proprio
surplus umano al mercato del lavoro inglese, e quindi fa scendere i
salari e riduce la posizione materiale e morale della classe operaia
inglese.
E la cosa più importante di tutte! Ogni
centro industriale e commerciale in Inghilterra ora possiede una classe
operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e
proletari irlandesi. Il comune lavoratore inglese odia il lavoratore
irlandese come un concorrente che abbassa il suo tenore di
vita. Rispetto all’operaio irlandese, si considera membro della nazione dominante
e conseguentemente diventa uno strumento dell’aristocrazia e dei
capitalisti inglesi contro l’Irlanda, rafforzando così il loro dominio su se stesso.
Ama i pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore
irlandese. Il suo atteggiamento nei suoi confronti è molto simile a
quello dei “bianchi poveri” verso i negri negli ex stati schiavisti
degli Stati Uniti. L’irlandese lo ripaga con gli interessi nella propria
moneta. Vede nell’operaio inglese sia il complice che lo stupido
strumento dei governanti inglesi in Irlanda.
Questo antagonismo è artificialmente
tenuto in vita e intensificato dalla stampa, dal pulpito, dai fumetti,
in breve, da tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese,
nonostante la sua organizzazione. È il segreto con cui la classe
capitalista mantiene il suo potere. E quest’ultima è abbastanza
consapevole di questo [6].
Marx continuava dicendo che la priorità per l’organizzazione dei
lavoratori in Inghilterra era “far capire agli inglesi che per loro
l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è una questione di giustizia
astratta o di sentimento umanitario, ma la prima condizione della loro
emancipazione sociale”. Qui Marx ha indicato la strada per un approccio
che oggi difficilmente si trova. L’importazione di manodopera
sottopagata è uno strumento di oppressione che divide i lavoratori e
beneficia chi ha il potere. La risposta adeguata, quindi, non è un
moralismo astratto sull’accoglienza di tutti i migranti come un atto
immaginario di carità, ma piuttosto affrontare le cause profonde della
migrazione nel rapporto tra le economie grandi e potenti e le economie
più piccole o in via di sviluppo da cui le persone migrano.
IL COSTO UMANO DELLA GLOBALIZZAZIONE
I sostenitori delle frontiere aperte spesso trascurano i costi della
migrazione di massa per i paesi in via di sviluppo. In effetti, la
globalizzazione crea spesso un circolo vizioso: le politiche commerciali
liberalizzate distruggono l’economia di una regione, che a sua volta
porta all’emigrazione di massa da quella zona, erodendo ulteriormente il
potenziale del paese di origine e deprimendo i salari per i lavoratori
meno pagati nel paese di destinazione. Una delle principali cause della
migrazione di manodopera dal Messico agli Stati Uniti è stata la
devastazione economica e sociale causata dall’Accordo Nord Americano di
Libero Scambio (NAFTA). Il Nafta costrinse gli agricoltori messicani a
competere con l’agricoltura americana, con conseguenze disastrose per il
Messico. Le importazioni messicane sono raddoppiate e il Messico ha
perso migliaia di allevamenti di suini e coltivatori di mais a favore
della concorrenza statunitense. Quando i prezzi del caffè sono scesi al
di sotto del costo di produzione, il Nafta ha proibito l’intervento
statale per mantenere a galla i coltivatori. Inoltre, alle società
statunitensi è stato permesso di acquistare infrastrutture in Messico,
tra cui, ad esempio, la principale linea ferroviaria nord-sud del paese.
La ferrovia quindi interruppe il servizio passeggeri, determinando la
decimazione della forza lavoro ferroviaria dopo aver schiacciato uno
sciopero selvaggio. Nel 2002, i salari messicani erano diminuiti del
22%, anche se la produttività degli operai aumentava del 45% [7]. In
regioni come Oaxaca, l’emigrazione devastò le economie e le comunità
locali, mentre gli uomini emigrarono per lavorare nelle fattorie e nei
macelli dell’America, lasciandosi alle spalle donne, bambini e anziani.
E che dire della consistente forza lavoro qualificata e dei colletti
bianchi emigrati? Nonostante la retorica sui “paesi cesso” o sulle
nazioni “che non mandano i migliori”, il prezzo della fuga di
cervelli per le economie in via di sviluppo è stato enorme. Secondo le
cifre del Census Bureau per il 2017, circa il 45% dei migranti che sono
arrivati negli Stati Uniti dal 2010 ha un’istruzione superiore [8]. I
paesi in via di sviluppo stanno lottando per far restare i propri
cittadini qualificati e i professionisti, spesso istruiti con un costo
elevato per le finanze pubbliche, perché economie più ricche e più
grandi che dominano il mercato globale hanno la ricchezza per prenderli.
Oggi il Messico è anche uno dei maggiori esportatori al mondo di
professionisti istruiti, e la sua economia soffre di un persistente
“deficit di occupazione qualificata”. Questa ingiustizia nello sviluppo
non è certamente limitata al Messico. Secondo la rivista Foreign Policy,
“ci sono più medici etiopi che praticano a Chicago oggi che in tutta
l’Etiopia, un paese di 80 milioni di persone” [9]. Non è difficile
capire perché le élite politiche ed economiche dei paesi più ricchi del
mondo vorrebbero che il mondo “mandasse il suo meglio”,
indipendentemente dalle conseguenze per il resto del mondo. Ma perché la
sinistra moralista a favore dei confini aperti fornisce un
volto umanitario a questo puro e semplice egoismo?
Secondo le migliori analisi dei flussi di capitali e della ricchezza
globale di oggi, la globalizzazione sta arricchendo le persone più
ricche dei paesi più ricchi a spese dei più poveri, e non viceversa.
Alcuni lo hanno chiamato “aiuti al rovescio”. Miliardi di pagamenti di
interessi sul debito passano dall’Africa alle grandi banche di Londra e
New York. La grande ricchezza privata viene generata ogni anno in
industrie estrattive di materie prime e attraverso l’arbitraggio del
lavoro, e rimpatriata verso le nazioni ricche in cui sono basate le
multinazionali. Fughe di capitali di trilioni di dollari si verificano
perché le multinazionali approfittano dei paradisi fiscali e delle
giurisdizioni segrete, rese possibili dalla liberalizzazione per mano
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dei regolamenti sulla
fatturazione “inefficienti per il commercio” e di altra politiche [10].
La disuguaglianza della ricchezza globale è il principale fattore di
spinta che guida la migrazione di massa e la globalizzazione del
capitale non può essere separata da questa materia. C’è anche l’effetto
di richiamo dei datori di lavoro sfruttatori negli Stati Uniti, che
cercano di trarre profitto da lavoratori non sindacalizzati e con salari
bassi in settori come l’agricoltura, nonché attraverso l’importazione
di una grande forza lavoro impiegatizia già addestrata in altri paesi.
Il risultato netto è una popolazione stimata di undici milioni di
persone che vivono illegalmente negli Stati Uniti.