lunedì 5 novembre 2018

La povertà in Italia. Ciò che deve preoccupare è quella “relativa

Il dibattito e le misure sulla povertà in Italia sono falsate da un dato che è diventato fisiologico ormai dagli anni ‘80. Era il 1983 quando come Radio Proletaria conducemmo una prima inchiesta sulla nuova povertà nel nostro paese, intuendo che si stava consolidando uno “zoccolo duro” di persone imbrigliate in una marginalità di cui non si intravedevano vie d’uscita senza un forte intervento pubblico, soprattutto nel Meridione e nelle realtà metropolitane più che nelle province.
Questo zoccolo duro è cresciuto con il manifestarsi dell’immigrazione alla fine degli anni ‘80 (prima era fenomeno limitatissimo relativo a immigrati filippini, maghrebini e capoverdiani) ma si è sostanzialmente mantenuto quantitativamente limitato, anche dentro una struttura sociale “a due/terzi” (con il corpaccione centrale rappresentato dai ceti medi) poi demolita dalla fortissima polarizzazione sociale avviata dagli anni ’90 con le misure liberiste e antipopolari imposte dal Trattato di Maastricht.

L’Istat ha diffuso pochi mesi fa una nota nella quale di conferma come la povertà assoluta coinvolga cinque milioni di persone su una popolazione di sessanta milioni. Ma, giustamente, nella stessa nota si segnala come la povertà relativa sia cresciuta molto di più di quella assoluta coinvolgendo 9milioni e 368mila persone. La prima (quella assoluta) è aumentata dello 0,6% nel 2017 rispetto al 2016; la seconda è aumentata dell’1,7% -tre volte tanto – rispetto al 2016, e tra questi “poveri” ci sono soprattutto “operai ed assimilati” e disoccupati (tra cui si assiste ad un aumento del 6% della povertà rispetto al 2016). Il dato comune a tutte le penalizzazioni sono i nuclei familiari numerosi.
E’ evidente il nesso tra l’aumento della povertà relativa e, ad esempio, i bassi e bassissimi salari dovuti alla sterminata platea di contratti di lavoro precari. Si lavora ma si percepisca una retribuzione talmente bassa che tiene anche i lavoratori e le lavoratrici inchiodate dentro la fascia di povertà.
Qualche settimana in televisione, una giornalista anche brava, segnalava come l’eventuale reddito di cittadinanza sarebbe stato di poco inferiore allo stipendio di una cassiere o di un banchista della grande distribuzione. Purtroppo non ha colto che lo scandalo doveva essere gridato non sulla quantità del reddito di cittadinanza quanto sull’infamia delle vergognose e bassissime retribuzioni di chi già lavora. Introdurre infatti un reddito sociale minimo per i disoccupati (cosa diversa dal reddito di cittadinanza messo in cantiere dal governo), indubbiamente sarebbe uno strumento di pressione e di cessazione del ricatto dei padroni sui bassissimi salari con cui oggi retribuiscono le loro lavoratrici e lavoratori. Ed è sulla rottura di questo meccanismo di ricatto che va ragionata una seria proposta di reddito sociale minimo da introdurre nel paese.
Il dato che dunque va preso di petto, è sì la povertà assoluta rispetto al quale le prestazioni sociali messe in campo non offrono alcuna possibilità di fuoriuscita, ma al centro dello scontro politico va messo l’aumento della povertà relativa, perché questo è l’indicatore più netto e drammatico del boom delle disuguaglianze sociali, dell’aumento dei working poor e di una polarizzazione sociale che sta producendo danni sociali enormi. E su questo terreno non è solo un problema di welfare, è un cambio di rotta sui meccanismi della totale deregulation del mercato del lavoro realizzati dal 1998 a oggi (dal pacchetto Treu alla Legge Biagi al Jobs Act).


Qui di seguito ripubblichiamo il report diffuso a giugno dall’Istat sulla povertà in Italia:
Le stime diffuse in questo report si riferiscono a due distinte misure della povertà: assoluta e relativa, che derivano da due diverse definizioni e sono elaborate con metodologie diverse, utilizzando i dati dell’indagine campionaria sulle spese per consumi delle famiglie.
Nel 2017 si stimano in povertà assoluta 1 milione e 778 mila famiglie residenti in cui vivono 5 milioni e 58 mila individui; rispetto al 2016 la povertà assoluta cresce in termini sia di famiglie sia di individui.
L’incidenza di povertà assoluta è pari al 6,9% per le famiglie (da 6,3% nel 2016) e all’8,4% per gli individui (da 7,9%). Due decimi di punto della crescita rispetto al 2016 sia per le famiglie sia per gli individui si devono all’inflazione registrata nel 2017. Entrambi i valori sono i più alti della serie storica, che prende avvio dal 2005.
Nel 2017 l’incidenza della povertà assoluta fra i minori permane elevata e pari al 12,1% (1 milione 208 mila, 12,5% nel 2016); si attesta quindi al 10,5% tra le famiglie dove è presente almeno un figlio minore, rimanendo molto diffusa tra quelle con tre o più figli minori (20,9%).
L’incidenza della povertà assoluta aumenta prevalentemente nel Mezzogiorno sia per le famiglie (da 8,5% del 2016 al 10,3%) sia per gli individui (da 9,8% a 11,4%), soprattutto per il peggioramento registrato nei comuni Centro di area metropolitana (da 5,8% a 10,1%) e nei comuni più piccoli fino a 50mila abitanti (da 7,8% del 2016 a 9,8%). La povertà aumenta anche nei centri e nelle periferie delle aree metropolitane del Nord.
L’incidenza della povertà assoluta diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento. Il valore minimo, pari a 4,6%, si registra infatti tra le famiglie con persona di riferimento ultra sessantaquattrenne, quello massimo tra le famiglie con persona di riferimento sotto i 35 anni (9,6%).
A testimonianza del ruolo centrale del lavoro e della posizione professionale, la povertà assoluta diminuisce tra gli occupati (sia dipendenti sia indipendenti) e aumenta tra i non occupati; nelle famiglie con persona di riferimento operaio, l’incidenza della povertà assoluta (11,8%) è più che doppia rispetto a quella delle famiglie con persona di riferimento ritirata dal lavoro (4,2%).
Cresce rispetto al 2016 l’incidenza della povertà assoluta per le famiglie con persona di riferimento che ha conseguito al massimo la licenza elementare: dall’8,2% del 2016 si porta al 10,7%. Le famiglie con persona di riferimento almeno diplomata, mostrano valori dell’incidenza molto più contenuti, pari al 3,6%.
Anche la povertà relativa cresce rispetto al 2016. Nel 2017 riguarda 3 milioni 171 mila famiglie residenti (12,3%, contro 10,6% nel 2016), e 9 milioni 368 mila individui (15,6% contro 14,0% dell’anno precedente).
Come la povertà assoluta, la povertà relativa è più diffusa tra le famiglie con 4 componenti (19,8%) o 5 componenti e più (30,2%), soprattutto tra quelle giovani: raggiunge il 16,3% se la persona di riferimento è un under35, mentre scende al 10,0% nel caso di un ultra sessantaquattrenne.
L’incidenza di povertà relativa si mantiene elevata per le famiglie di operai e assimilati (19,5%) e per quelle con persona di riferimento in cerca di occupazione (37,0%), queste ultime in peggioramento rispetto al 31,0% del 2016.
Si confermano le difficoltà per le famiglie di soli stranieri: l’incidenza raggiunge il 34,5%, con forti differenziazioni sul territorio (29,3% al Centro, 59,6% nel Mezzogiorno).

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