giovedì 8 febbraio 2018

A settantatré anni dal diritto di voto qual è la condizione femminile in Italia?

Per gli appassionati di storia e di politica nostrane, il 1 febbraio è una data tutt’altro che ordinaria. Già, perché diversamente da quello che credono in molti, è esattamente in questo giorno di 73 anni fa che le donne acquistano, nel nostro Paese, il diritto di voto. Prima, quindi, del più famoso e ricordato referendum del 2 giugno dell’anno dopo. Il 1946.
Siamo nel 1945. Il secondo conflitto mondiale, seppur ormai deciso e a un passo dall’epilogo, non è ancora concluso, così come la resistenza partigiana. E con la guerra di liberazione ancora in corso, l’Italia getta le basi della sua futura vita democratica, allargando a tutti i cittadini il diritto a scegliersi i propri rappresentanti in Parlamento, e instaurando di fatto il suffragio universale, già adottato negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in diversi paesi del Nord Europa e dell’America Latina.
Accade, allora, che il Governo Bonomi III, formato da Democrazia Cristiana, Partito comunista, Partito liberale e Partito democratico del Lavoro, vara il Decreto legislativo n° 23/1945 che estende alle donne il diritto di voto. È il 1° febbraio, e il giorno dopo è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Il provvedimento nasceva su proposta dei leader dei due maggiori partiti: il comunista Palmiro Togliatti, vicepresidente del Consiglio dei Ministri, e il democristiano Alcide De Gasperi, ministro degli Esteri.
Per le urne, però, le donne devono attendere un anno, e accade in ben due occasioni. Le elezioni amministrative tra marzo e aprile, e il 2 giugno, dove tra l’altro è eletta anche l’Assemblea costituente. Passano altri 12 mesi, e acquistano un altro piccolo grande tassello verso l’uguaglianza con gli uomini. Il 1947 è l’anno della Costituzione, e in modo particolare dell’articolo 3 (“‘Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…”) e 51 (“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza…”). Chi se la ricorda la faccia della 25enne Teresa Mattei, la partigiana Chicchi, ebrea toscana, filosofa, per di più incinta, che indossava l’abito della mamma ed era in prima fila quando il presidente della Costituente Umberto Terracini consegna il testo della neonata Costituzione?
A parte l’amarcord storico, però, e gli altri diritti via via conquistati con fatica e grandi battaglie dei movimenti femministi o pseudo tali, c’è da chiedersi 73 anni dopo se l’effettiva uguaglianza sia ormai data per certa (onestamente, però, fa riflettere sentire ancora parlare di “quote rosa” nelle più disparate e cocciute leggi elettorali, più un contentino che altro), o è soltanto un fatto di mere parole incise sia pur sulla legge fondamentale dello Stato in una società per molti versi ancora basata sul maschilismo. E in cui ancora nessuna donna è mai diventata né presidente del Consiglio – quanto ci è andata vicino Nilde Iotti 30 anni fa – né presidente della Repubblica, e ve ne sono soltanto tre a formare la Corte Costituzionale, dove ve ne sono state soltanto cinque in totale. Ancora meno, tre, hanno guidato la Camera dei deputati. Nessuna ha mai guidato un’Authority, o un (serio) organismo economico.
Per capire, tutto, quindi, si parte proprio dall’articolo 51 della Costituzione, e dalla (non) effettiva attuazione. E dalla storia, nostra amica sempre. Le rappresentanti del gentil sesso nell’Assemblea costituente sono 21, che si riducono a cinque nella Commissione dei 75 che redige la Carta. Teresa Mattei, certo, ma poi Nilde Iotti, Maria Federici, Teresa Noce, Lina Merlin – quella della legge sulle case chiuse, per intenderci.
Eppure, fino al 1963 i principi costituzionali sono inattuati, anche perché le donne non possono accedere alla Magistratura. Un cambio deciso si ha nel 2003, quando l’articolo 51 è modificato introducendo il principio di parità formale. Anche qui, però, è solo la carta che parla, perché per l’altra parità, quella sostanziale, si è ancora alla disperata ricerca.
Nel Belpaese, infatti, c’è uno strano fenomeno. Quando si tratta di posti di comando che contano e che magari servono davvero e fanno rima con potere, i volti femminili evaporano. Ne troviamo tante in Parlamento (la legislatura che si è chiusa a dicembre contava 286 donne su 945, quasi il 30 per cento degli eletti, cifra che sale al 40 per quello europeo), molte anche nei Consigli regionali, seppur variegate diversamente, più della metà in Magistratura, ma c’è ancora qualcosa che non va. Sindaci donna sono 1.000 su oltre 8 mila Comuni, incommentabile il dato delle grandi città (e meno male che Roma e Torino hanno rotto il tabù nel 2016), soltanto due sono governatori di Regione, zero alle segreterie di un grande partito. E le senatrici a vita? Grazie a Liliana Segre, reduce di Auschwitz, e nominata il 18 gennaio, sono salite a quattro dal 1948.
Uscendo dalla politica le cose vanno certamente meglio, ma continuano le disparità tra i sessi nel mondo del Lavoro: tra i quadri dirigenziali la differenza tra uomini e donne si attesta nel 2017 attorno agli 11 mila euro lordi l’anno. Anche sul piano dei diritti nel mondo del lavoro la differenza tra i sessi si nota. Si attesta attorno al 25,2% il numero di lavoratrici sovraistruite, contro il 22,1% degli uomini. Anche nella precarietà le lavoratrici risultano svantaggiate: il 21,1% delle donne lavoratrici svolge un lavoro precario, contro il 18,1%. Tuttavia l’occupazione femminile durante la crisi ha tenuto meglio rispetto a quella maschile: Dal 2007 al 2016 le lavoratrici sono aumentate dal 46,9 al 48,1%, mentre il numero di lavoratori di sesso maschile è diminuito dal 70,7 al 66,5%.

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