È difficile oggi considerare la sinistra
europea come qualcosa di diverso da un cumulo di macerie. Questo è vero
in tutta Europa (emblematico il caso della Germania, in cui a un crollo
senza precedenti della SPD - che secondo gli ultimi sondaggi
riceverebbe oggi appena il 16% dei voti - fa riscontro una Linke
incapace di beneficiare di questa situazione, restando intorno al 10%,
mentre l’AfD sarebbe diventata addirittura il secondo partito). Ma è
soprattutto nel nostro paese che la distruzione della sinistra ha
raggiunto livelli semplicemente inimmaginabili soltanto pochi anni fa –
per non parlare di quando l’Italia vedeva la presenza del più grande
partito comunista d’Occidente.
In molti si sono interrogati sulla genesi di questa situazione, che ovviamente ha più di una causa. Non però quella cara a una vulgata ormai in voga da decenni: quella, cioè, secondo cui i problemi della sinistra italiana nascerebbero da una presunta “incapacità di riformarsi”, e cioè – in concreto - dal rifiuto di far proprie parole d’ordine moderate e di adottare politiche di semplice gestione dell’esistente, abbandonando ogni velleità di trasformazione sociale.
Questa teoria appare platealmente smentita dai fatti: mai la sinistra italiana, nelle sue componenti numericamente più significative, è stata più “compatibile” e arrendevole all’ordine costituito - e mai è stata più vicina a un tracollo elettorale di portata storica. Si sarebbe tentati di essere più drastici, e dire che mai la sinistra è stata più lontana dalla realtà di quanto accada oggi. È una lontananza, però, che non nasce dall’ostinato tener fermo alla propria tradizione e alla propria cultura, ma proprio dall’atteggiamento opposto: dal cedimento totale e incondizionato alle parole d’ordine dell’avversario (un tempo si sarebbe aggiunto “di classe”), dall’assimilazione della sua ideologia, e – conseguentemente – dal perseguimento dei suoi interessi, anziché di quelli dei propri ceti di riferimento.
Con questo abbiamo a che fare quando ascoltiamo “esperti” o politici “di sinistra” affermare che i problemi di competitività delle imprese italiane si possono risolvere smantellando le tutele previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quando li udiamo vantarsi di quello che sono riusciti a privatizzare e ripromettersi di fare ancora di più e meglio al riguardo, o quando li vediamo votare in Parlamento l’innalzamento dell’età pensionabile o lo stravolgimento dell’art. 81 della Costituzione su proposta del “governo dei tecnici” (un governo - varrà la pena di ricordarlo – che, nato per ridurre il debito pubblico, si è rivelato talmente capace da lasciarci con il 13% di debito in più).
Ma cosa accomuna queste concretissime (e sbagliatissime) scelte politiche? Il fatto che esse sono state prescritte dalle autorità europee quali cure per risolvere i problemi del nostro paese. Con il risultato evidente di aggravarli, e in particolare di distruggere capacità produttiva, di raddoppiare il numero dei disoccupati e di impoverire chi un lavoro ancora ce l’ha. Ma non basta riferirsi a Schäuble e alla Troika, né al succedaneo di quest’ultima in Italia, Mario Monti, per intendere l’origine di quelle scelte politiche. Esse sono in effetti perfettamente coerenti con i Trattati europei - di chiara impronta liberista almeno dall’Atto Unico Europeo del 1986 in poi -, e ancor più con l’appartenenza del nostro Paese a una moneta unica entro la quale, grazie all’eliminazione di un meccanismo automatico di riequilibrio tra i differenziali di competitività quale quello rappresentato dai riaggiustamenti del cambio, è divenuta un percorso obbligato la strada della deflazione salariale (in un inseguimento impossibile del paese egemone dell’area, che da decenni fa di un mercantilismo monetario basato sulla “moderazione” salariale la sua bandiera).
Ora, quando si prova a osservare questo, a sinistra ci si trova di fronte a un muro. E non soltanto da parte della cosiddetta “sinistra moderata” (definizione in verità ormai pericolosamente prossima a quella di “fuoco bagnato”), ma anche da parte di molti esponenti della cosiddetta “sinistra radicale”. I quali, pur condividendo a parole la critica alle politiche degli ultimi anni, si fermano un passo prima di affrontare alle radici il problema: ossia di porre in discussione la moneta unica e l’Unione Europea. Anche molti di loro, infatti, invece di prendere atto che l’Unione Europea è irriformabile (e lo è letteralmente, visto che i Trattati possono essere cambiati soltanto all’unanimità), e che la moneta unica è in tutta evidenza quantomeno una parte significativa dei problemi che ci troviamo di fronte, preferiscono fuggire da un lato nel sogno radioso di un’“altra Europa” (senza mai riuscire a definirne né i contorni, né una strada concretamente percorribile per arrivarci), dall’altro in una cupa metafisica. Una metafisica dell’impossibilità (“uscire è impossibile”), dell’angoscia (“uscire sarebbe una catastrofe”) e della regressione (“uscire sarebbe storicamente regressivo”).
Smontare i tre pilastri di questa metafísica rappresenta un’assoluta priorità per chiunque oggi voglia fare un po’ di chiarezza a sinistra. Un libro appena uscito di Domenico Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra (Imprimatur), ha il grande merito di affrontare con solidi argomenti in particolare la metafisica della regressione. Che nel testo è sintetizzata così: “l’uscita dall’euro” sarebbe “politicamente e storicamente regressiva, perché rappresenterebbe il ritorno alla nazione” (concetto, quest’ultimo, a sua volta, osserva giustamente l’autore, “identificato con quello di nazionalismo”). A questa posizione Moro risponde in maniera molto articolata e convincente, non disdegnando tra le altre cose di operare una lettura critica del Manifesto di Ventotene (uno dei testi più citati e meno letti del XX secolo), nonché di ripercorrere la storia dell’idea di nazione dal Settecento in poi.
Sull’europeismo, la sua tesi di fondo è questa: “l’ideologia europeista è articolazione diretta, in Europa, dell’ideologia cosmopolita, che non va confusa nel modo più assoluto con quella internazionalista”. Ora, siccome questa falsa identificazione è parte importante dell’equivoco per cui l’europeismo sarebbe “progressivo” e “di sinistra”, varrà la pena di citare estesamente le affermazioni dell’autore al riguardo:
“L’internazionalismo, come parte del pensiero socialista del XIX e del XX secolo, non prescinde dall’esistenza delle nazioni e dagli Stati e ha un carattere collettivo e di classe. Infatti, si propone di superare le differenze e le rivalità nazionali e statali mediante la costruzione di una solidarietà e di una unità di intenti economici e politici tra classi subalterne e lavoratori salariati appartenenti a nazionalità differenti, nei confronti del capitale. L’internazionalismo tiene conto dell’esistenza delle nazionalità e sostiene il principio dell’autodeterminazione dei popoli, cioè il diritto alla separazione, come strumento di lotta contro l’oppressione dell’imperialismo e dei regimi autoritari e arretrati. Ma inquadra l’intera questione nazionale all’interno della difesa degli interessi generali del lavoro salariato e delle classi subalterne e lotta contro tutto quanto divida e metta in concorrenza i lavoratori, comprese le differenze nazionali.
Il cosmopolitismo, invece, prescinde dalle nazioni e ha un carattere individualistico. L’individuo si sente cittadino del mondo, invece che legato a una determinata comunità territoriale. Sul piano economico, il cosmopolitismo esprime l’aspetto della mobilità, una delle caratteristiche vitali del capitale, che richiede sia l’esistenza dello Stato territoriale, per le garanzie e le regole che questo può offrire, sia una ampia libertà di movimento al di sopra e attraverso i confini statali. Il cosmopolitismo nasce come ideologia nel periodo illuminista ed è fatto proprio dalla massoneria, organizzazione segreta che nasce con una impostazione universalistica, e in genere dalle élite capitalistiche legate a interessi globali e a reti di relazioni sovranazionali, piuttosto che soltanto a specifiche relazioni territoriali... Il carattere cosmopolita risulta accentuato in particolari momenti storici, ad esempio in quello attuale, quando si afferma la tendenza all’internazionalizzazione dei capitali. Le contemporanee élites transnazionali hanno un carattere marcatamente cosmopolita: studiano nelle stesse Università di prestigio mondiale, frequentano gli stessi circoli e gli stessi think tank internazionali (la Commissione Trilaterale, il Gruppo Bilderberg, l’Aspen Institute), hanno residenze nelle maggiori metropoli europee e statunitensi, ma soprattutto si incontrano nei consigli d’amministrazione di imprese e banche transnazionali. Il cosmopolitismo è alimentato da specifici meccanismi d’integrazione delle élites: gli interlocking directorates, che prevedono la partecipazione contemporanea a consigli d’amministrazione di imprese diverse, e il meccanismo delle “porte girevoli”, che si basa sulla alternanza di incarichi in imprese e banche, nell’amministrazione statale, negli organismi sovrastatali, e nelle istituzioni universitarie.”
Come collocare l’UE e l’Unione monetaria europea in questo contesto? Secondo Moro “l’Unione europea (Ue) e la Unione economica e monetaria (Uem) sono la manifestazione di una fase del capitalismo nella quale l’elemento cosmopolita ha maggiore peso sia rispetto alla fase classica dell’imperialismo territoriale degli anni tra il 1870 e il 1945, sia rispetto alla fase di decolonizzazione e di pre-globalizzazione tra il 1950 e il 1989, anno in cui con la dissoluzione dell’Urss si fa iniziare la cosiddetta globalizzazione, che poi non è altro che l’allargamento a livello mondiale del mercato capitalistico, mediante l’abbattimento o la restrizione delle barriere statali alla libera circolazione di capitale e merci. La Uem, infatti, favorendo e accentuando la fuoriuscita dei meccanismi dell’accumulazione dal perimetro di controllo dello Stato, asseconda lo spostamento del baricentro dell’accumulazione dal livello nazionale al livello sovranazionale.”
È in questa chiave che Moro legge il nesso tra l’unione monetaria e la teoria (e la pratica) del “vincolo esterno”, che ha accompagnato le diverse fasi dell’integrazione europea dell’Italia dagli anni Ottanta in poi: “L’euro è stato lo strumento principale di riorganizzazione dell’accumulazione nella fase capitalistica globale, nelle specifiche e particolari condizioni economiche e politiche dell’Europa occidentale... In Europa continentale, soprattutto in Italia, Spagna e Francia, a causa dei particolari rapporti di forza economici e politici esistenti tra le classi sociali, si è reso necessario far ricorso alla leva del vincolo esterno europeo. Questa leva ha consentito di bypassare parlamenti e sistemi elettorali che, esprimendo interessi variegati, non consentivano la tanto auspicata governabilità, cioè la capacità dei governi di mettere in pratica le controriforme del welfare e dei mercati dei capitali, delle merci e del lavoro, volute dal capitale e imposte per suo conto dalla Bce e dalla Commissione europea”. Ed è per queste ragioni - conclude Moro - che “l’ideologia dominante, cioè l’ideologia dei circoli economici egemoni, oggi non è quella nazionalista, bensì quella cosmopolita”. In effetti, l’ideologia nazionalista “non rappresenta, in questa fase storica, gli interessi di fondo del grande capitale europeo”. Questo, osserva Moro, si può capire considerando che “il concetto di nazione, e quelli di patria e di popolo a esso legati, sono mutati nel corso del processo storico e, in ogni periodo, hanno assunto significati diversi a seconda del punto di vista, cioè dell’orientamento politico e di classe.” Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, “i concetti di nazione e di patria divengono lo strumento ideologico delle potenze europee nuove e vecchie in competizione, in Francia e in Italia così come in Germania, per la creazione di consenso attorno alle politiche imperialiste e infine per la mobilitazione delle masse nella guerra mondiale. Dalla nazione si passa quindi al nazionalismo, cioè a una concezione di superiorità della propria nazione sulle altre. In contemporanea, però, si assiste allo sviluppo del concetto di nazione in senso progressivo, cioè come lotta contro l’oppressione imperialista dei popoli, in Europa e soprattutto nelle colonie.”
In Europa, dopo la prima guerra mondiale, “il concetto di nazione viene egemonizzato ed esasperato dal fascismo e dal nazismo. L’idea di nazione e di patria riprende linfa soprattutto a seguito dell’invasione nazi-fascista dei Paesi europei, soprattutto dopo l’invasione dell’Urss. Qui il partito comunista fa appello a tutto il popolo per la difesa della patria nella lotta contro l’invasione nazista, che, infatti, verrà definita Grande guerra patriottica. Anche in Occidente la Resistenza è non solo lotta contro il fascismo ma insieme anche lotta contro l’invasore straniero. Di conseguenza, assume, tra le altre connotazioni, quella di guerra patriottica. Le formazioni partigiane italiane, indipendentemente dalla loro coloritura politico-ideologica, scelgono spesso di chiamarsi con nomi che si riferiscono a patrioti risorgimentali: Mazzini, Pellico, Menotti, fratelli Bandiera, ecc. Le stesse formazioni partigiane del Partito comunista italiano, maggioritarie nella Resistenza italiana, fanno frequente richiamo alla tradizione risorgimentale, assumendo ad esempio la denominazione collettiva di brigate Garibaldi.” Dopo la guerra, il PCI di Togliatti come noto svilupperà, soprattutto dopo il 1956, la “via nazionale o italiana al socialismo”. Moro osserva - e con ragione - che “quella fu l’ultima vera strategia che i comunisti si diedero in Italia”.
Tornando a noi, qual è il significato da attribuire oggi alla nazione? Domenico Moro risponde così: “La nazione è un fatto oggettivo, cioè che esiste a tutt’oggi come individualità storica. Tuttavia, essa assume un significato politico e ideologico di segno diverso a seconda di chi ne egemonizza l’interpretazione e del contesto socio-economico storico”. E la situazione attuale è caratterizzata dal fatto che “l’élite capitalistica ha abbandonato il concetto di nazione o, per essere più precisi, l’ha messo in secondo piano e reso subalterno all’autoregolazione del mercato, alle istituzioni sovranazionali. Mentre fino a qualche tempo fa esistevano interessi comuni, tra l’élite economica e i settori subalterni, o almeno la possibilità che si potesse stabilire un patto sociale a livello nazionale, oggi tale patto è stato stracciato proprio da quell’élite sempre più internazionalizzata. In questo modo, la precedente unità della comunità nazionale, per quanto abbia sempre escluso una parte più meno grande dei subalterni, si è profondamente incrinata… Il capitale ha stracciato il patto sociale keynesiano, cioè la base materiale della Costituzione, e oggi i suoi interessi, specie in Italia e negli altri Paesi più penalizzati dall’integrazione europea, si contrappongono oggettivamente agli interessi popolari, cioè a quelli della maggioranza della popolazione. Per il pensiero dominante il concetto stesso di popolo è ora “politicamente scorretto”, fino al punto che dichiarare di perseguirne gli interessi acquista una accezione negativa, diventando populismo”.
Rispetto a tutto questo, l’autore rivendica il valore attuale e il carattere progressivo di un “patriottismo costituzionale, cioè dell’appartenenza a una comunità nazionale condizionata al rispetto e al rilancio della Costituzione. Una Costituzione, però, non stravolta dalle modifiche richieste dall’Europa come è adesso, bensì nel suo impianto originario e soprattutto unita alla critica al capitalismo. Soprattutto ciò che distingue una concezione progressiva e attuale di nazione da una reazionaria e arretrata è la questione del potere. La concezione progressiva, infatti, basandosi sul principio della volontà popolare, si deve porre in prospettiva la questione della conquista del potere da parte delle classi subalterne e, nell’immediato, quella dell’azione per la modifica dei rapporti di forza tra le classi. Proprio per queste ragioni, il recupero della volontà popolare e del patriottismo costituzionale, nel contesto fortemente cosmopolita e internazionalizzato, non può che configurarsi, se vogliamo stare nel concreto e non nelle astrazioni teoriche, in termini nazionali e internazionalisti insieme. Però, solamente il recupero della volontà popolare e il miglioramento dei rapporti di forza a livello nazionale, nelle condizioni specifiche dell’integrazione europea, può porre le fondamenta per lo sviluppo di una politica internazionalista, che sia in grado cioè di costruire una collaborazione e una unità di intenti tra i salariati e i subalterni d’Europa.”
Ma cosa significa in concreto “recupero della sovranità democratica e popolare”? Significa in primo luogo “il ristabilimento di un contesto di lotta in cui i subalterni non siano sconfitti in partenza, mediante la reintroduzione di meccanismi economico-istituzionali che consentano di ridefinire rapporti di forza più favorevoli al lavoro salariato. Questi meccanismi si concretizzano, innanzi tutto, nella ricollocazione al livello statale del controllo sulla valuta, al fine di manovrare sui cambi e di attribuire alla Banca centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza e di acquisto dei titoli di Stato.” Da questo punto di vista, osserva Moro, “l’uscita dall’euro... è una condizione certamente non sufficiente ma necessaria, sul piano politico, e non solo sul piano economico, per difendere gli interessi del lavoro salariato e soprattutto per ricostruire una strategia di cambiamento a livello europeo, cioè una strategia internazionalista. È una condicio sine qua non, senza la quale non si può né portare avanti una politica di bilancio pubblico espansiva, né un allargamento dell’intervento pubblico, mediante vere ripubblicizzazioni di banche o di aziende di carattere strategico, né tantomeno difendere efficacemente salari e welfare. All’interno dell’euro si può e si deve lottare per il lavoro, il salario e il welfare, ma non ci sono le condizioni per dispiegare fino in fondo e con efficacia tale lotta.”
Ecco perché, rispondendo al quesito che dà il titolo al libro, Moro afferma che uscire dalla gabbia dell’euro è “di sinistra”. Ma è anche “internazionalista”? La risposta di Moro è affermativa. Essa muove da un’analisi della situazione attuale, in cui “i meccanismi dell’integrazione valutaria creano o approfondiscono le divisioni tra le classi operaie dei singoli Paesi, mettendole in competizione le une contro le altre sul piano salariale e della riduzione del welfare e dividendo i popoli in “cicale” e spreconi, come i greci e gli italiani, e in “formiche” e probi, come i tedeschi. Ben altro, quindi, che lo sviluppo di solidarietà e valori comuni, ben altro che il superamento del nazionalismo e la ricomposizione di classe grazie alla globalizzazione e all’Europa”. Contro tutto questo, “solamente una elaborazione politica che metta al centro la pratica dell’obiettivo del superamento dell’euro e dei trattati europei, collegandola a una critica dei rapporti di produzione, alla crisi del capitale e al neoliberismo, può permettere di rilanciare una politica che sia insieme efficace a livello nazionale e internazionalista a livello europeo, permettendo alla sinistra di ricreare una forza politica che non sia vista come residuale e ormai destinata al cimitero della storia.”
Sarebbe gioco fin troppo facile misurare la distanza che corre tra queste parole e le posizioni di gran parte delle formazioni di sinistra presenti alle elezioni del 4 marzo. Ma è senz’altro più produttivo consegnare queste riflessioni al dopo elezioni. La ripresa di una sinistra politica in Italia non sarà cosa facile né di breve periodo. Essa dovrà ripartire da una riflessione molto seria sulla propria storia, sugli errori compiuti e sulle cose da fare. A questa riflessione difficilmente potranno essere estranei i temi trattati nel libro di Domenico Moro.
In molti si sono interrogati sulla genesi di questa situazione, che ovviamente ha più di una causa. Non però quella cara a una vulgata ormai in voga da decenni: quella, cioè, secondo cui i problemi della sinistra italiana nascerebbero da una presunta “incapacità di riformarsi”, e cioè – in concreto - dal rifiuto di far proprie parole d’ordine moderate e di adottare politiche di semplice gestione dell’esistente, abbandonando ogni velleità di trasformazione sociale.
Questa teoria appare platealmente smentita dai fatti: mai la sinistra italiana, nelle sue componenti numericamente più significative, è stata più “compatibile” e arrendevole all’ordine costituito - e mai è stata più vicina a un tracollo elettorale di portata storica. Si sarebbe tentati di essere più drastici, e dire che mai la sinistra è stata più lontana dalla realtà di quanto accada oggi. È una lontananza, però, che non nasce dall’ostinato tener fermo alla propria tradizione e alla propria cultura, ma proprio dall’atteggiamento opposto: dal cedimento totale e incondizionato alle parole d’ordine dell’avversario (un tempo si sarebbe aggiunto “di classe”), dall’assimilazione della sua ideologia, e – conseguentemente – dal perseguimento dei suoi interessi, anziché di quelli dei propri ceti di riferimento.
Con questo abbiamo a che fare quando ascoltiamo “esperti” o politici “di sinistra” affermare che i problemi di competitività delle imprese italiane si possono risolvere smantellando le tutele previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quando li udiamo vantarsi di quello che sono riusciti a privatizzare e ripromettersi di fare ancora di più e meglio al riguardo, o quando li vediamo votare in Parlamento l’innalzamento dell’età pensionabile o lo stravolgimento dell’art. 81 della Costituzione su proposta del “governo dei tecnici” (un governo - varrà la pena di ricordarlo – che, nato per ridurre il debito pubblico, si è rivelato talmente capace da lasciarci con il 13% di debito in più).
Ma cosa accomuna queste concretissime (e sbagliatissime) scelte politiche? Il fatto che esse sono state prescritte dalle autorità europee quali cure per risolvere i problemi del nostro paese. Con il risultato evidente di aggravarli, e in particolare di distruggere capacità produttiva, di raddoppiare il numero dei disoccupati e di impoverire chi un lavoro ancora ce l’ha. Ma non basta riferirsi a Schäuble e alla Troika, né al succedaneo di quest’ultima in Italia, Mario Monti, per intendere l’origine di quelle scelte politiche. Esse sono in effetti perfettamente coerenti con i Trattati europei - di chiara impronta liberista almeno dall’Atto Unico Europeo del 1986 in poi -, e ancor più con l’appartenenza del nostro Paese a una moneta unica entro la quale, grazie all’eliminazione di un meccanismo automatico di riequilibrio tra i differenziali di competitività quale quello rappresentato dai riaggiustamenti del cambio, è divenuta un percorso obbligato la strada della deflazione salariale (in un inseguimento impossibile del paese egemone dell’area, che da decenni fa di un mercantilismo monetario basato sulla “moderazione” salariale la sua bandiera).
Ora, quando si prova a osservare questo, a sinistra ci si trova di fronte a un muro. E non soltanto da parte della cosiddetta “sinistra moderata” (definizione in verità ormai pericolosamente prossima a quella di “fuoco bagnato”), ma anche da parte di molti esponenti della cosiddetta “sinistra radicale”. I quali, pur condividendo a parole la critica alle politiche degli ultimi anni, si fermano un passo prima di affrontare alle radici il problema: ossia di porre in discussione la moneta unica e l’Unione Europea. Anche molti di loro, infatti, invece di prendere atto che l’Unione Europea è irriformabile (e lo è letteralmente, visto che i Trattati possono essere cambiati soltanto all’unanimità), e che la moneta unica è in tutta evidenza quantomeno una parte significativa dei problemi che ci troviamo di fronte, preferiscono fuggire da un lato nel sogno radioso di un’“altra Europa” (senza mai riuscire a definirne né i contorni, né una strada concretamente percorribile per arrivarci), dall’altro in una cupa metafisica. Una metafisica dell’impossibilità (“uscire è impossibile”), dell’angoscia (“uscire sarebbe una catastrofe”) e della regressione (“uscire sarebbe storicamente regressivo”).
Smontare i tre pilastri di questa metafísica rappresenta un’assoluta priorità per chiunque oggi voglia fare un po’ di chiarezza a sinistra. Un libro appena uscito di Domenico Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra (Imprimatur), ha il grande merito di affrontare con solidi argomenti in particolare la metafisica della regressione. Che nel testo è sintetizzata così: “l’uscita dall’euro” sarebbe “politicamente e storicamente regressiva, perché rappresenterebbe il ritorno alla nazione” (concetto, quest’ultimo, a sua volta, osserva giustamente l’autore, “identificato con quello di nazionalismo”). A questa posizione Moro risponde in maniera molto articolata e convincente, non disdegnando tra le altre cose di operare una lettura critica del Manifesto di Ventotene (uno dei testi più citati e meno letti del XX secolo), nonché di ripercorrere la storia dell’idea di nazione dal Settecento in poi.
Sull’europeismo, la sua tesi di fondo è questa: “l’ideologia europeista è articolazione diretta, in Europa, dell’ideologia cosmopolita, che non va confusa nel modo più assoluto con quella internazionalista”. Ora, siccome questa falsa identificazione è parte importante dell’equivoco per cui l’europeismo sarebbe “progressivo” e “di sinistra”, varrà la pena di citare estesamente le affermazioni dell’autore al riguardo:
“L’internazionalismo, come parte del pensiero socialista del XIX e del XX secolo, non prescinde dall’esistenza delle nazioni e dagli Stati e ha un carattere collettivo e di classe. Infatti, si propone di superare le differenze e le rivalità nazionali e statali mediante la costruzione di una solidarietà e di una unità di intenti economici e politici tra classi subalterne e lavoratori salariati appartenenti a nazionalità differenti, nei confronti del capitale. L’internazionalismo tiene conto dell’esistenza delle nazionalità e sostiene il principio dell’autodeterminazione dei popoli, cioè il diritto alla separazione, come strumento di lotta contro l’oppressione dell’imperialismo e dei regimi autoritari e arretrati. Ma inquadra l’intera questione nazionale all’interno della difesa degli interessi generali del lavoro salariato e delle classi subalterne e lotta contro tutto quanto divida e metta in concorrenza i lavoratori, comprese le differenze nazionali.
Il cosmopolitismo, invece, prescinde dalle nazioni e ha un carattere individualistico. L’individuo si sente cittadino del mondo, invece che legato a una determinata comunità territoriale. Sul piano economico, il cosmopolitismo esprime l’aspetto della mobilità, una delle caratteristiche vitali del capitale, che richiede sia l’esistenza dello Stato territoriale, per le garanzie e le regole che questo può offrire, sia una ampia libertà di movimento al di sopra e attraverso i confini statali. Il cosmopolitismo nasce come ideologia nel periodo illuminista ed è fatto proprio dalla massoneria, organizzazione segreta che nasce con una impostazione universalistica, e in genere dalle élite capitalistiche legate a interessi globali e a reti di relazioni sovranazionali, piuttosto che soltanto a specifiche relazioni territoriali... Il carattere cosmopolita risulta accentuato in particolari momenti storici, ad esempio in quello attuale, quando si afferma la tendenza all’internazionalizzazione dei capitali. Le contemporanee élites transnazionali hanno un carattere marcatamente cosmopolita: studiano nelle stesse Università di prestigio mondiale, frequentano gli stessi circoli e gli stessi think tank internazionali (la Commissione Trilaterale, il Gruppo Bilderberg, l’Aspen Institute), hanno residenze nelle maggiori metropoli europee e statunitensi, ma soprattutto si incontrano nei consigli d’amministrazione di imprese e banche transnazionali. Il cosmopolitismo è alimentato da specifici meccanismi d’integrazione delle élites: gli interlocking directorates, che prevedono la partecipazione contemporanea a consigli d’amministrazione di imprese diverse, e il meccanismo delle “porte girevoli”, che si basa sulla alternanza di incarichi in imprese e banche, nell’amministrazione statale, negli organismi sovrastatali, e nelle istituzioni universitarie.”
Come collocare l’UE e l’Unione monetaria europea in questo contesto? Secondo Moro “l’Unione europea (Ue) e la Unione economica e monetaria (Uem) sono la manifestazione di una fase del capitalismo nella quale l’elemento cosmopolita ha maggiore peso sia rispetto alla fase classica dell’imperialismo territoriale degli anni tra il 1870 e il 1945, sia rispetto alla fase di decolonizzazione e di pre-globalizzazione tra il 1950 e il 1989, anno in cui con la dissoluzione dell’Urss si fa iniziare la cosiddetta globalizzazione, che poi non è altro che l’allargamento a livello mondiale del mercato capitalistico, mediante l’abbattimento o la restrizione delle barriere statali alla libera circolazione di capitale e merci. La Uem, infatti, favorendo e accentuando la fuoriuscita dei meccanismi dell’accumulazione dal perimetro di controllo dello Stato, asseconda lo spostamento del baricentro dell’accumulazione dal livello nazionale al livello sovranazionale.”
È in questa chiave che Moro legge il nesso tra l’unione monetaria e la teoria (e la pratica) del “vincolo esterno”, che ha accompagnato le diverse fasi dell’integrazione europea dell’Italia dagli anni Ottanta in poi: “L’euro è stato lo strumento principale di riorganizzazione dell’accumulazione nella fase capitalistica globale, nelle specifiche e particolari condizioni economiche e politiche dell’Europa occidentale... In Europa continentale, soprattutto in Italia, Spagna e Francia, a causa dei particolari rapporti di forza economici e politici esistenti tra le classi sociali, si è reso necessario far ricorso alla leva del vincolo esterno europeo. Questa leva ha consentito di bypassare parlamenti e sistemi elettorali che, esprimendo interessi variegati, non consentivano la tanto auspicata governabilità, cioè la capacità dei governi di mettere in pratica le controriforme del welfare e dei mercati dei capitali, delle merci e del lavoro, volute dal capitale e imposte per suo conto dalla Bce e dalla Commissione europea”. Ed è per queste ragioni - conclude Moro - che “l’ideologia dominante, cioè l’ideologia dei circoli economici egemoni, oggi non è quella nazionalista, bensì quella cosmopolita”. In effetti, l’ideologia nazionalista “non rappresenta, in questa fase storica, gli interessi di fondo del grande capitale europeo”. Questo, osserva Moro, si può capire considerando che “il concetto di nazione, e quelli di patria e di popolo a esso legati, sono mutati nel corso del processo storico e, in ogni periodo, hanno assunto significati diversi a seconda del punto di vista, cioè dell’orientamento politico e di classe.” Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, “i concetti di nazione e di patria divengono lo strumento ideologico delle potenze europee nuove e vecchie in competizione, in Francia e in Italia così come in Germania, per la creazione di consenso attorno alle politiche imperialiste e infine per la mobilitazione delle masse nella guerra mondiale. Dalla nazione si passa quindi al nazionalismo, cioè a una concezione di superiorità della propria nazione sulle altre. In contemporanea, però, si assiste allo sviluppo del concetto di nazione in senso progressivo, cioè come lotta contro l’oppressione imperialista dei popoli, in Europa e soprattutto nelle colonie.”
In Europa, dopo la prima guerra mondiale, “il concetto di nazione viene egemonizzato ed esasperato dal fascismo e dal nazismo. L’idea di nazione e di patria riprende linfa soprattutto a seguito dell’invasione nazi-fascista dei Paesi europei, soprattutto dopo l’invasione dell’Urss. Qui il partito comunista fa appello a tutto il popolo per la difesa della patria nella lotta contro l’invasione nazista, che, infatti, verrà definita Grande guerra patriottica. Anche in Occidente la Resistenza è non solo lotta contro il fascismo ma insieme anche lotta contro l’invasore straniero. Di conseguenza, assume, tra le altre connotazioni, quella di guerra patriottica. Le formazioni partigiane italiane, indipendentemente dalla loro coloritura politico-ideologica, scelgono spesso di chiamarsi con nomi che si riferiscono a patrioti risorgimentali: Mazzini, Pellico, Menotti, fratelli Bandiera, ecc. Le stesse formazioni partigiane del Partito comunista italiano, maggioritarie nella Resistenza italiana, fanno frequente richiamo alla tradizione risorgimentale, assumendo ad esempio la denominazione collettiva di brigate Garibaldi.” Dopo la guerra, il PCI di Togliatti come noto svilupperà, soprattutto dopo il 1956, la “via nazionale o italiana al socialismo”. Moro osserva - e con ragione - che “quella fu l’ultima vera strategia che i comunisti si diedero in Italia”.
Tornando a noi, qual è il significato da attribuire oggi alla nazione? Domenico Moro risponde così: “La nazione è un fatto oggettivo, cioè che esiste a tutt’oggi come individualità storica. Tuttavia, essa assume un significato politico e ideologico di segno diverso a seconda di chi ne egemonizza l’interpretazione e del contesto socio-economico storico”. E la situazione attuale è caratterizzata dal fatto che “l’élite capitalistica ha abbandonato il concetto di nazione o, per essere più precisi, l’ha messo in secondo piano e reso subalterno all’autoregolazione del mercato, alle istituzioni sovranazionali. Mentre fino a qualche tempo fa esistevano interessi comuni, tra l’élite economica e i settori subalterni, o almeno la possibilità che si potesse stabilire un patto sociale a livello nazionale, oggi tale patto è stato stracciato proprio da quell’élite sempre più internazionalizzata. In questo modo, la precedente unità della comunità nazionale, per quanto abbia sempre escluso una parte più meno grande dei subalterni, si è profondamente incrinata… Il capitale ha stracciato il patto sociale keynesiano, cioè la base materiale della Costituzione, e oggi i suoi interessi, specie in Italia e negli altri Paesi più penalizzati dall’integrazione europea, si contrappongono oggettivamente agli interessi popolari, cioè a quelli della maggioranza della popolazione. Per il pensiero dominante il concetto stesso di popolo è ora “politicamente scorretto”, fino al punto che dichiarare di perseguirne gli interessi acquista una accezione negativa, diventando populismo”.
Rispetto a tutto questo, l’autore rivendica il valore attuale e il carattere progressivo di un “patriottismo costituzionale, cioè dell’appartenenza a una comunità nazionale condizionata al rispetto e al rilancio della Costituzione. Una Costituzione, però, non stravolta dalle modifiche richieste dall’Europa come è adesso, bensì nel suo impianto originario e soprattutto unita alla critica al capitalismo. Soprattutto ciò che distingue una concezione progressiva e attuale di nazione da una reazionaria e arretrata è la questione del potere. La concezione progressiva, infatti, basandosi sul principio della volontà popolare, si deve porre in prospettiva la questione della conquista del potere da parte delle classi subalterne e, nell’immediato, quella dell’azione per la modifica dei rapporti di forza tra le classi. Proprio per queste ragioni, il recupero della volontà popolare e del patriottismo costituzionale, nel contesto fortemente cosmopolita e internazionalizzato, non può che configurarsi, se vogliamo stare nel concreto e non nelle astrazioni teoriche, in termini nazionali e internazionalisti insieme. Però, solamente il recupero della volontà popolare e il miglioramento dei rapporti di forza a livello nazionale, nelle condizioni specifiche dell’integrazione europea, può porre le fondamenta per lo sviluppo di una politica internazionalista, che sia in grado cioè di costruire una collaborazione e una unità di intenti tra i salariati e i subalterni d’Europa.”
Ma cosa significa in concreto “recupero della sovranità democratica e popolare”? Significa in primo luogo “il ristabilimento di un contesto di lotta in cui i subalterni non siano sconfitti in partenza, mediante la reintroduzione di meccanismi economico-istituzionali che consentano di ridefinire rapporti di forza più favorevoli al lavoro salariato. Questi meccanismi si concretizzano, innanzi tutto, nella ricollocazione al livello statale del controllo sulla valuta, al fine di manovrare sui cambi e di attribuire alla Banca centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza e di acquisto dei titoli di Stato.” Da questo punto di vista, osserva Moro, “l’uscita dall’euro... è una condizione certamente non sufficiente ma necessaria, sul piano politico, e non solo sul piano economico, per difendere gli interessi del lavoro salariato e soprattutto per ricostruire una strategia di cambiamento a livello europeo, cioè una strategia internazionalista. È una condicio sine qua non, senza la quale non si può né portare avanti una politica di bilancio pubblico espansiva, né un allargamento dell’intervento pubblico, mediante vere ripubblicizzazioni di banche o di aziende di carattere strategico, né tantomeno difendere efficacemente salari e welfare. All’interno dell’euro si può e si deve lottare per il lavoro, il salario e il welfare, ma non ci sono le condizioni per dispiegare fino in fondo e con efficacia tale lotta.”
Ecco perché, rispondendo al quesito che dà il titolo al libro, Moro afferma che uscire dalla gabbia dell’euro è “di sinistra”. Ma è anche “internazionalista”? La risposta di Moro è affermativa. Essa muove da un’analisi della situazione attuale, in cui “i meccanismi dell’integrazione valutaria creano o approfondiscono le divisioni tra le classi operaie dei singoli Paesi, mettendole in competizione le une contro le altre sul piano salariale e della riduzione del welfare e dividendo i popoli in “cicale” e spreconi, come i greci e gli italiani, e in “formiche” e probi, come i tedeschi. Ben altro, quindi, che lo sviluppo di solidarietà e valori comuni, ben altro che il superamento del nazionalismo e la ricomposizione di classe grazie alla globalizzazione e all’Europa”. Contro tutto questo, “solamente una elaborazione politica che metta al centro la pratica dell’obiettivo del superamento dell’euro e dei trattati europei, collegandola a una critica dei rapporti di produzione, alla crisi del capitale e al neoliberismo, può permettere di rilanciare una politica che sia insieme efficace a livello nazionale e internazionalista a livello europeo, permettendo alla sinistra di ricreare una forza politica che non sia vista come residuale e ormai destinata al cimitero della storia.”
Sarebbe gioco fin troppo facile misurare la distanza che corre tra queste parole e le posizioni di gran parte delle formazioni di sinistra presenti alle elezioni del 4 marzo. Ma è senz’altro più produttivo consegnare queste riflessioni al dopo elezioni. La ripresa di una sinistra politica in Italia non sarà cosa facile né di breve periodo. Essa dovrà ripartire da una riflessione molto seria sulla propria storia, sugli errori compiuti e sulle cose da fare. A questa riflessione difficilmente potranno essere estranei i temi trattati nel libro di Domenico Moro.