Autunno, inverno, primavera: è uguale. A Bruxelles non interessa che
l’Italia vada alle elezioni prima o dopo, ma solo che faccia quello che
deve per mettere in sicurezza banche e conti pubblici. Sul primo
fronte, al Tesoro brucia ancora la magra figura rimediata nel confronto
con la Spagna, che ha risolto con un salvataggio-lampo la crisi del
Banco Popular.
È stato sufficiente l’intervento del Banco Santander, uno dei principali colossi finanziari europei, che ha acquisito l’istituto in crisi per la cifra simbolica di un euro e poi ha annunciato un aumento di capitale da sette miliardi (già interamente sottoscritto) per far fronte ai costi dell’operazione. Azioni e obbligazioni subordinate del Banco Popular sono state azzerate. Il tutto in pochi giorni.
Niente di paragonabile a quello che sta accadendo in Italia con gli psicodrammi su banche venete e Mps. Il dossier più preoccupante è quello che riguarda Veneto Banca e la Popolare di Vicenza. Regole alla mano, Bruxelles ha imposto ai due istituti di racimolare altri 1,2 miliardi da investitori privati prima di poter accedere agli aiuti di Stato che dovrebbero salvarle. Per settimane è sembrato impossibile trovare qualcuno disposto a gettare altri soldi nel calderone veneto e la prospettiva del bail in, almeno per uno dei due istituti, appariva più che concreta.
Poi, dopo giorni di chiusura totale, Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno cambiato registro, dicendosi disponibili a valutare un nuovo intervento, purché di sistema. Traduzione: l’onere non deve pesare solo sulle due big, ma essere ripartito su tutte le principali banche italiane (alla fine è probabile che la soluzione passerà ancora una volta attraverso il fondo Atlante).
Più che l’esempio spagnolo – che pure ha indotto il Tesoro ad aumentare il pressing su Intesa e Unicredit – a sbloccare la situazione è stata la prospettiva di quello che accadrebbe se Veneto Banca e Pop Vicenza fossero lasciate al proprio destino. In caso di liquidazione degli istituti, i costi per il sistema bancario lieviterebbero, perché il Fondo di tutela dei depositi dovrebbe sborsare 11 miliardi.
Nulla però è scontato. Massimo Doris, ad di Banca Mediolanum, si è attestato sulla stessa linea possibilista di Intesa e Unicredit, ma fra le ex Popolari i dubbi crescono. In particolare, Ubi è alle prese con un aumento di capitale da 400 milioni per ricapitalizzare le 3 good bank (Etruria, Marche e Carichieti) appena acquisite e non le sarebbe facile trovare altre risorse per venire in aiuto delle venete. Banco Bpm, invece, deve affrontare la fase d'avvio della fusione da cui ha preso vita, quella tra Banco Popolare e Bpm, un’operazione che la vigilanza della Bce tiene sotto la lente d’ingrandimento.
È difficile anche ipotizzare che Mps, la quarta banca italiana, sia in grado di fare la sua parte senza battere ciglio. L’istituto senese ha da poco tirato il fiato per l’accordo raggiunto con la Commissione europea e la Bce – che hanno dato il via libera preliminare alla ricapitalizzazione da parte dello Stato – ma ora è chiamata al delicato compito di tradurre i realtà quello che per il momento rimane sulla carta. La strada è ancora in salita, soprattutto perché i fondi interessati all’acquisto delle sofferenze premono per uno sconto sul prezzo di cessione (26miliardi).
Per quanto riguarda invece i conti pubblici, il capitolo più bollente riguarda l’Iva. Ad oggi sappiamo che il governo dovrebbe stanziare nella manovra del prossimo autunno 15-16 miliardi per evitare che nel 2018 scatti l’aumento automatico dell’imposta sul valore aggiunto (3,8 miliardi sono stati già disinnescati con la manovra-bis approvata da poco alla Camera). Si tratta di soldi difficili da trovare, anche perché lo scorso aprile il nostro Paese si è impegnato a operare un aggiustamento del deficit strutturale pari allo 0,8% del Pil, in modo da riportare il debito pubblico verso una traiettoria discendente.
È questa una delle principali ossessioni dell’Ue nei confronti dell’Italia. La Commissione europea non perde occasione di rimproverarci per “non aver fatto sufficienti progressi” sugli “obiettivi di riduzione” del debito previsti dal Patto di Stabilità.
Parole che si scontrano immancabilmente con le richieste di flessibilità da parte del nostro Paese. L’ultima è arrivata una decina di giorni fa, quando il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – credendo che le elezioni anticipate fossero ormai inevitabili – si è affrettato a domandare all’Europa di ridurre l’aggiustamento allo 0,3% del Pil. In altri termini, ha chiesto uno sconto di circa 8,5 miliardi sulla correzione del 2018, così da far scendere a circa 6-7 miliardi le risorse necessarie per la sterilizzazione della clausola di salvaguardia Iva.
La risposta di Bruxelles deve ancora arrivare ed è chiaro che, se sarà negativa, imporrà un prezzo salato da pagare con la prossima legge di bilancio. Anche per questo, al Nazareno come al Quirinale, hanno preferito che a occuparsene fosse un governo sul viale del tramonto, che non ha nulla da chiedere agli elettori.
È stato sufficiente l’intervento del Banco Santander, uno dei principali colossi finanziari europei, che ha acquisito l’istituto in crisi per la cifra simbolica di un euro e poi ha annunciato un aumento di capitale da sette miliardi (già interamente sottoscritto) per far fronte ai costi dell’operazione. Azioni e obbligazioni subordinate del Banco Popular sono state azzerate. Il tutto in pochi giorni.
Niente di paragonabile a quello che sta accadendo in Italia con gli psicodrammi su banche venete e Mps. Il dossier più preoccupante è quello che riguarda Veneto Banca e la Popolare di Vicenza. Regole alla mano, Bruxelles ha imposto ai due istituti di racimolare altri 1,2 miliardi da investitori privati prima di poter accedere agli aiuti di Stato che dovrebbero salvarle. Per settimane è sembrato impossibile trovare qualcuno disposto a gettare altri soldi nel calderone veneto e la prospettiva del bail in, almeno per uno dei due istituti, appariva più che concreta.
Poi, dopo giorni di chiusura totale, Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno cambiato registro, dicendosi disponibili a valutare un nuovo intervento, purché di sistema. Traduzione: l’onere non deve pesare solo sulle due big, ma essere ripartito su tutte le principali banche italiane (alla fine è probabile che la soluzione passerà ancora una volta attraverso il fondo Atlante).
Più che l’esempio spagnolo – che pure ha indotto il Tesoro ad aumentare il pressing su Intesa e Unicredit – a sbloccare la situazione è stata la prospettiva di quello che accadrebbe se Veneto Banca e Pop Vicenza fossero lasciate al proprio destino. In caso di liquidazione degli istituti, i costi per il sistema bancario lieviterebbero, perché il Fondo di tutela dei depositi dovrebbe sborsare 11 miliardi.
Nulla però è scontato. Massimo Doris, ad di Banca Mediolanum, si è attestato sulla stessa linea possibilista di Intesa e Unicredit, ma fra le ex Popolari i dubbi crescono. In particolare, Ubi è alle prese con un aumento di capitale da 400 milioni per ricapitalizzare le 3 good bank (Etruria, Marche e Carichieti) appena acquisite e non le sarebbe facile trovare altre risorse per venire in aiuto delle venete. Banco Bpm, invece, deve affrontare la fase d'avvio della fusione da cui ha preso vita, quella tra Banco Popolare e Bpm, un’operazione che la vigilanza della Bce tiene sotto la lente d’ingrandimento.
È difficile anche ipotizzare che Mps, la quarta banca italiana, sia in grado di fare la sua parte senza battere ciglio. L’istituto senese ha da poco tirato il fiato per l’accordo raggiunto con la Commissione europea e la Bce – che hanno dato il via libera preliminare alla ricapitalizzazione da parte dello Stato – ma ora è chiamata al delicato compito di tradurre i realtà quello che per il momento rimane sulla carta. La strada è ancora in salita, soprattutto perché i fondi interessati all’acquisto delle sofferenze premono per uno sconto sul prezzo di cessione (26miliardi).
Per quanto riguarda invece i conti pubblici, il capitolo più bollente riguarda l’Iva. Ad oggi sappiamo che il governo dovrebbe stanziare nella manovra del prossimo autunno 15-16 miliardi per evitare che nel 2018 scatti l’aumento automatico dell’imposta sul valore aggiunto (3,8 miliardi sono stati già disinnescati con la manovra-bis approvata da poco alla Camera). Si tratta di soldi difficili da trovare, anche perché lo scorso aprile il nostro Paese si è impegnato a operare un aggiustamento del deficit strutturale pari allo 0,8% del Pil, in modo da riportare il debito pubblico verso una traiettoria discendente.
È questa una delle principali ossessioni dell’Ue nei confronti dell’Italia. La Commissione europea non perde occasione di rimproverarci per “non aver fatto sufficienti progressi” sugli “obiettivi di riduzione” del debito previsti dal Patto di Stabilità.
Parole che si scontrano immancabilmente con le richieste di flessibilità da parte del nostro Paese. L’ultima è arrivata una decina di giorni fa, quando il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – credendo che le elezioni anticipate fossero ormai inevitabili – si è affrettato a domandare all’Europa di ridurre l’aggiustamento allo 0,3% del Pil. In altri termini, ha chiesto uno sconto di circa 8,5 miliardi sulla correzione del 2018, così da far scendere a circa 6-7 miliardi le risorse necessarie per la sterilizzazione della clausola di salvaguardia Iva.
La risposta di Bruxelles deve ancora arrivare ed è chiaro che, se sarà negativa, imporrà un prezzo salato da pagare con la prossima legge di bilancio. Anche per questo, al Nazareno come al Quirinale, hanno preferito che a occuparsene fosse un governo sul viale del tramonto, che non ha nulla da chiedere agli elettori.
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