venerdì 30 giugno 2017

Banche venete e il "comitato d'affari" della borghesia sulle spalle dei lavoratori

La "ciccia" a un euro alle banche, le ossa a pagamento ai lavoratori
MEDIOBANCA: «Intesa incassa opportunisticamente il premio della reputazione nazionale, con zero rischi. Avrà enorme potere di fissazione dei prezzi in Veneto».
CODACONS: «I cittadini si ritrovano doppiamente danneggiati dalla crisi di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza: una prima volta attraverso il crollo delle azioni delle due banche, già costato 19 miliardi di euro ai risparmiatori assieme agli aumenti di capitale e alle perdite degli ultimi anni, la seconda volta attraverso le risorse pubbliche che il Governo mette a disposizione del salvataggio, 17 miliardi di euro pari a 708 euro a famiglia.»
FEDERCONSUMATORI FVG: «Cedere per un euro gli asset redditizi prefigura un aiuto di Stato, ma non alle banche venete, bensì a Intesa Sanpaolo, che in un sol colpo ha eliminato due competitor radicati in un territorio molto produttivo acquisendo quasi mille sportelli e la totale egemonia nel Nordest».
I commenti sull'operazione che ha portato al "salvataggio" delle due banche venete non si sono fatti attendere, soprattutto da coloro che o non ci hanno guadagnato, o ci hanno perso.
Mai però il governo si poteva rivelare più sfacciatamente di così quale "comitato d'affari" della borghesia, e in particolare dei settori preminenti, a servizio della concentrazione monopolistica, mettendosi sotto i piedi le loro stesse regole nazionali ed europee tanto sbandierate fino a un istante prima, facendo dei "due pesi e due misure" la regola del gioco.
La crisi delle due banche venete dura da diversi anni e i governi e gli amministratori che si sono succeduti avevano cercato di temporeggiare. Quando a inizio anno le due banche avevano fatto domanda di "ricapitalizzazione preventiva", la Banca Centrale Europea le aveva dichiarate "solvibili". Quando però è stato chiaro che la ricapitalizzazione preventiva non avrebbe trovato nessun privato disposto a mettere i 1,2 miliardi necessari – come avrebbe richiesto una vera "operazione di mercato" gravida di rischi – e il 14 giugno 2017 i legali della banca hanno dato l'avvio dell'azione di responsabilità, che presenta un conto da 2,3 miliardi a titolo di danni «nei confronti di ex amministratori e sindaci alternatisi in carica fino al 26 aprile 2014», allora la BCE ha cambiato le carte in tavola e ha dichiarato che le due banche sono in realtà "fallite o sull'orlo del fallimento". Ciò consente al governo Gentiloni di liquidarle con le regole italiane, in quanto la BCE ha comunicato che non considera le due banche abbastanza grandi da essere "sistemiche" (cioè da generare conseguenze gravi sull'intero sistema bancario in caso di fallimento) e non era necessario quindi applicare la direttiva che prevede il cosiddetto bail-in, cioè il salvataggio delle banche usando prima di tutto i soldi di investitori e risparmiatori invece dei soldi pubblici.
Ciò ha aperto la strada per un affarone da parte della principale banca italiana, Banca Intesa. La soluzione "trovata" dal governo, invece che 1,2 miliardi per la ricapitalizzazione, prevede una spesa iniziale di ben 5 miliardi di euro per salvare i risparmiatori delle due banche e una spesa potenziale di altri 12 miliardi di garanzie. Banca Intesa "acquisterà" la parte sana delle banche, mentre lo Stato si farà carico della cosiddetta "bad bank". Banca d'Italia infatti ha ribadito che dal «perimetro della cessione, sono esclusi, tra l'altro, i crediti deteriorati (sofferenze, inadempienze probabili ed esposizioni scadute) e ulteriori attività e passività delle Banche in liquidazione, come specificate nel contratto di cessione». Ossia tutte quelle attività che comportano un rischio sono a carico dello stato. Banca Intesa stanzierà 60 milioni per rimborsare i piccoli risparmiatori, che detengono le obbligazioni subordinate delle due popolari, che saranno rimborsati integralmente, ma questa parte sarà solo pari al 20% del totale, mentre il rimanente 80% sarà a carico del Fondo Interbancario di tutela dei depositi, ossia delle altre banche italiane, che devono quindi pagare il conto del rafforzamento della concorrente maggiore. Per il momento lo Stato dà 4,7 miliardi di euro a Intesa San Paolo, più garanzie pubbliche, per un importo pari a 1,5 miliardi di euro, volto alla sterilizzazione di rischi. Altri 12 miliardi di euro per il momento sono garanzie di vario genere emesse sempre dallo Stato. Per capire quanto costerà effettivamente l'operazione, bisognerà vedere a quanto lo Stato riuscirà a vendere gli asset delle "bad bank" e quanto bene andrà l'integrazione tra Intesa e ciò che resta delle due banche venete.
Con buona probabilità quindi non si dovrebbe rivelare vero quanto hanno dichiarato il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, e la Banca d'Italia, scesa in campo a difesa del decreto, cioè che i fondi necessari «non impattano sul deficit» e sono «già previsti in bilancio» nei fondi stanziati a Natale per le ricapitalizzazioni precauzionali, come quella del Monte Paschi. Infatti questi fondi avrebbero dovuto costituire una specie di partita di giro, di prestito ponte, che poi le banche risanate avrebbero dovuto restituire, invece quello che si potrebbe ricavare dalla bad bank, dopo che essa è stata spolpata da Intesa, potrebbe essere davvero misera cosa.
Ulteriore beffa, la Commissione europea ha detto che questa operazione si configura come aiuto di Stato, ma ha comunque deciso di approvarla per via della particolare situazione in cui si trova il Veneto e per l'impatto positivo che potrebbe avere l'intervento sull'economia locale.
Fuori dall'orizzonte di Intesa restano i crediti deteriorati e gli «oneri di integrazione e razionalizzazione», cioè i costi legati alla gestione dei circa 4mila esuberi che sarebbero prodotti dall'intervento. Per questa ragione in cantiere c'è un rifinanziamento da oltre un miliardo per il fondo esuberi. Quindi anche la pantomima che l'operazione è finalizzata a salvare posti di lavoro è falsa. Infatti, spiega Intesa, «un ulteriore contributo pubblico cash a copertura degli oneri di integrazione e razionalizzazione connessi all'acquisizione, che riguardano tra gli altri la chiusura di circa 600 filiali e l'applicazione del Fondo di Solidarietà in relazione all'uscita, su base volontaria, di circa 3.900 persone del gruppo risultante dall'acquisizione, nonché altre misure a salvaguardia dei posti di lavoro, quali il ricorso alla mobilità territoriale e iniziative di formazione per la riqualificazione delle persone».
Per avere un'idea di chi vince e di chi perde, basta dare un'occhiata alla Borsa, dove Intesa lunedì 26 alle 13 guadagna oltre il 4%.
In tutto questo, resta senza risposta, anzi viene demonizzata come "impraticabile" – al pari della vicenda Alitalia – la rivendicazione dei comunisti di nazionalizzare le due banche ed affidarle ai lavoratori, salvando i loro posti di lavoro e i risparmi dei piccoli risparmiatori. Questa soluzione, che non è il socialismo, ma non è la soluzione dei padroni, sarebbe costata meno, soprattutto se si fosse fatta per tempo, prima che i precedenti amministratori non avessero finito di dilapidare le risorse delle due banche.
Cosa dimostra questa vicenda, ancora una volta:
- L'Italia non è una colonia dell'Unione Europea, anzi occupa una posizione di primaria importanza. Quando la sua principale banca vuole fare un affare a spese dei concorrenti più piccoli, dei piccoli risparmiatori e dei lavoratori, le regole che vigevano fino a un momento prima sono stravolte e il governo ottiene a Bruxelles quello che altri non riuscirebbero a ottenere.
- La concentrazione capitalistico-monopolistica non conosce sosta ed avviene nei modi più brutali a spese dei concorrenti minori.
- Tale guerra inter-capitalistica avviene con la partecipazione attiva del governo borghese, che prende partito per il più forte dei contendenti, dirottando ingenti risorse pubbliche, e difende le sue posizioni nei conglomerati imperialistici a cui partecipa, come in questo caso UE e BCE. La stessa Banca d'Italia, si rivela anch'essa per quello che è sempre stata, un ingranaggio del meccanismo del capitalismo italiano, da sempre bancarottiere e truffaldino, con buona pace dei tanti "sovranisti" che si illudono di poter cambiare le sorti della nazione riaffidando a quest'istituzione la moneta nazionale.
- Non ci possono essere soluzioni all'interno di questo quadro economico, politico e sociale, ossia all'interno del capitalismo. L'Unione Europea non è riformabile e chi pretende di "trattare" con essa svia solo l'obiettivo del proletariato italiano e delle classi popolari, che deve essere rivolto al rovesciamento di questo sistema.
- I comunisti si battono per unire i lavoratori per imporre soluzioni che non significhino sempre profitti privati con le risorse pubbliche, ma nazionalizzazione con affidamento ai lavoratori delle aziende a cominciare da quelle più grandi e strategiche.

giovedì 29 giugno 2017

La crisi in Qatar: ancora un altro goffo tentativo dei Tre Stati Canaglia di indebolire l’Iran

Probabilmente non scopriremo mai cosa sia stato veramente discusso fra Trump, i Sauditi e gli Israeliani, ma ci sono pochi dubbi che la recente mossa saudita contro il Qatar sia il risultato diretto di questi negoziati. Come lo so? Perché Trump stesso lo ha detto! [in inglese] Come ho già raccontato in un articolo recente, la catastrofica sottomissione di Trump ai neoconservatori [in italiano] e alle loro politiche lo ha lasciato in balìa dell’Arabia Saudita e di Israele [in italiano], altri due stati canaglia, la cui potenza e, ad essere franchi, la cui salute mentale stanno venendo meno ad ogni minuto.
Nonostante l’Arabia Saudita e il Qatar abbiano già avuto in passato le loro divergenze e i loro problemi, questa volta la magnitudo di questa crisi supera di gran lunga tutte quelle passate. Questo è un primo tentativo, necessariamente grossolano, di fare una lista di chi sostiene chi:

A sostegno dell'Arabia Saudita (secondo Wikipedia) A sostegno del Qatar (secondo me)
Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Egitto, Maldive, Yemen (intendono il miserabile regime pro-Sauditi in esilio), Mauritania, Comore, Libia (il governo di Tobruk), Giordania, Ciad, Gibuti, Senegal, Stati Uniti, Gabon. Turchia, Germania, Iran
I numeri sono dalla parte dei Sauditi, ma la qualità?
Domande, tante domande
La situazione è molto fluida e tutto potrebbe cambiare presto, ma non notate qualcosa di strano nella lista qua sopra? Turchia e Germania sostengono il Qatar nonostante gli USA sostengano l’Arabia Saudita. Cioè, due importanti stati della NATO prendono posizione contro gli USA.
Inoltre, date un’occhiata alla lista dei sostenitori dei Sauditi: eccetto che per gli USA e per l’Egitto, sono tutti irrilevanti dal punto di vista militare (e gli Egiziani non saranno in ogni modo coinvolti militarmente). Non è così per coloro che si oppongono ai Sauditi, in special modo Iran e Turchia. Dunque se i soldi sono dalla parte dei Sauditi, la potenza di fuoco in questa situazione è dalla parte del Qatar.
Poi, il Gabon? Il Senegal? Da quando in qua questi stati sono coinvolti nelle politiche del Golfo Persico? Perché partecipano ad un conflitto così lontano? Anche una rapida occhiata alle 10 condizioni che il Qatar deve soddisfare secondo i Sauditi [in inglese] non ci aiuta a capire il perché del loro coinvolgimento:
Interruzione immediata delle relazioni diplomatiche con l’Iran,
Espulsione di tutti i membri del movimento di resistenza Palestinese Hamas dal Qatar,
Congelamento di tutti i conti correnti bancari di membri di Hamas e cancellazione di tutti gli accordi,
Espulsione di tutti i membri della Fratellanza Musulmana dal Qatar,
Espulsione degli elementi contrari al (P)GCC [Consiglio di Cooperazione del Golfo (Persico)],
Fine del sostegno alle ‘organizzazioni terroriste’,
Fine dell’interferenza negli affari Egiziani,
Cessare le trasmissioni dei notiziari di Al Jazeera,
Scusarsi con tutti i governi del Golfo (Persico) per gli ‘abusi’ di Al Jazeera,
Impegnarsi affinché il Qatar non conduca alcuna azione che contraddica le politiche del (P)GCC e l’adesione al suo statuto.
I Sauditi hanno consegnato anche una lista di persone e organizzazioni che vogliono proibire (si veda qui) [in inglese].
Da un’occhiata a queste condizioni è abbastanza chiaro che l’Iran e i Palestinesi (Hamas in special modo) sono in alto nella lista delle richieste. Ma perché ciò dovrebbe interessare al Gabon o al Senegal?
Ancora più interessante è la domanda, perché ISRAELE non è nella lista dei paesi che sostengono l’Arabia Saudita?
Come sempre, gli stessi Israeliani sono molto più onesti riguardo al proprio ruolo in tutto ciò. Sebbene magari non affermino chiaramente “siamo stati noi”, scrivono articoli come questo “Cinque motivi per cui Israele dovrebbe occuparsi della crisi Qatariana” [in inglese] , che elenca tutte le ragioni per cui gli Israeliani ne sono felici:
Danneggia Hamas
Ravvicina Israele all’Arabia Saudita, all’Egitto e ai Paesi del Golfo
Dimostra nuovamente l’influenza degli USA nella regione
Delegittima il terrorismo
Sostiene Israele in generale e il suo governo in particolare
Questo genere di onestà è abbastanza ristoratrice, anche se è solo ad uso e consumo interno israeliano. Rapido controllo da fonte palestinese [in inglese]– sì, gli Israeliani sostengono l’Arabia Saudita. Ciò non sorprende affatto, non importa con quanta attenzione le corporation mediatiche occidentali facciano finta di non accorgersene.
E gli USA? Trarranno veramente beneficio da questa crisi?
Gli USA hanno quella che forse è la più grande base USAF del mondo in Qatar, la Base Aerea di Al Udeid [in inglese]. Inoltre, il quartier generale avanzato dello United States CENTCOM [in inglese] si trova in Qatar. Dire che queste sono infrastrutture cruciali per gli Stati Uniti, significa sottovalutarle – si può dire che queste sono le più importanti strutture militari americane del mondo al di fuori degli Stati Uniti. Pertanto si concluderebbe logicamente che l’ultima cosa che gli Stati Uniti vogliono è un qualunque genere di crisi o perfino di tensione in prossimità di queste strutture vitali; eppure è piuttosto chiaro che Sauditi ed Americani si muovano in sincrono contro il Qatar. Tutto ciò non ha senso, vero? Corretto. Ma adesso che gli Stati Uniti si sono imbarcati in una vana politica di escalation militare in Siria [in italiano] non dovrebbe sorprendere affatto che due importanti alleati nella regione facciano la stessa cosa.
Inoltre, c’è mai stata una volta in cui le politiche dell’Amministrazione Trump in Medio Oriente abbiano avuto un qualche senso logico? Durante la campagna elettorale erano, diciamo 50/50 (eccellenti sull’ISIS, assolutamente stupide sull’Iran). Ma sin dal colpo di mano contro Flynn a gennaio e la resa di Trump ai Neoconservatori, tutto quello che abbiamo visto è stata una ininterrotta sequenza di atti di delirante stupidità.
Obiettivamente, la crisi in Qatar, non è affatto un bene per gli USA. Ma ciò non significa che un’Amministrazione che è stata sequestrata da ideologi duri e puri intenda accettare questa realtà oggettiva. Quello che vediamo è un’Amministrazione molto debole, al governo di un paese sempre più debole che tenta di dimostrare che ha ancora tanto peso da giocarsi. E se è effettivamente così, il piano è pessimo e destinato a fallire, o a generare tante conseguenze indesiderate.
Ritorno al mondo reale
Tutto questo è solo uno specchietto per le allodole, e quello che sta accadendo in realtà è di nuovo un altro maldestro tentativo da parte dei Tre Stati Canaglia (USA, Arabia Saudita e Israele) di indebolire l’Iran.
Naturalmente, ci sono altri fattori che contribuiscono, ma la questione grossa, il nucleo del problema è quello che io definirei come la veloce crescita dell’” attrazione gravitazionale dell’Iran” e il corrispondente “decadimento orbitale” dell’intera regione sempre più vicino all’Iran. E, a peggiorare il tutto, i Tre Stati Canaglia stanno visibilmente e inesorabilmente perdendo la propria influenza sulla regione: gli USA in Iraq e in Siria, Israele in Libano, e l’Arabia Saudita in Yemen – tutti e tre si sono imbarcati in operazioni militari che hanno finito per dimostrarsi errori madornali e che, invece di dimostrare quanto questi paesi siano forti, ha svelato quanto in realtà siano deboli. Ancora peggiore è il fatto che i Sauditi stanno affrontando una grave crisi economica la cui fine non è in vista, mentre il Qatar è diventato lo stato più ricco del pianeta, principalmente grazie all’immenso giacimento di gas che condivide con l’Iran.
Dopotutto, potrebbe sembrare che il Qatar non sia questa grossa minaccia per l’Arabia Saudita, essendo – diversamente dall’Iran – un altro stato salafita, ma in realtà questo è parte del problema: negli ultimi vent’anni, i Qatariani hanno percepito come le nuove ricchezze abbiano procurato loro mezzi completamente sproporzionati alle loro dimensioni fisiche: non solo hanno creato il più influente impero mediatico del Medio oriente, Al-Jazeera, ma si sono addirittura imbarcati in una politica estera che ha reso il loro ruolo importante nelle crisi di Libia, Egitto e Siria. E sì, il Qatar è diventato uno dei principali sostenitori del terrorismo, ma lo stesso vale per Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, quindi questo è soltanto un vuoto pretesto. Il vero ‘crimine’ del Qatar è stato quello di rifiutare, sulla base di ragioni puramente pragmatiche, di prendere parte alla massiccia campagna anti-iraniana imposta alla regione da Arabia Saudita e Israele. Diversamente dalla lunga lista di stati che hanno dovuto esprimere il loro sostegno alla posizione saudita, i Qatariani potevano avere i mezzi per dire semplicemente “no” e tracciare la propria rotta.
Ciò in cui sperano adesso i Sauditi è che il Qatar si arrenda alle minacce, e che la coalizione a guida Saudita prevalga senza che ci sia una guerra “calda” contro il Qatar. Tutti si chiedono quale sia la probabilità che riescano ad ottenere questo risultato, ma io sono piuttosto dubbioso al riguardo (ne riparleremo più avanti).
E la Russia in tutto questo?
In tante occasioni Russi e Qatariani si sono presi a testate, specialmente su Siria e Libia, paesi in cui il Qatar ha avuto un ruolo estremamente tossico, essendo il primo finanziatore di vari gruppi di terroristi takfiri. Inoltre, il Qatar è il concorrente numero uno della Russia per il gas naturale in molti mercati. Ci sono state anche altre crisi tra i due stati, compresa quella che sembra essere un assassinio da parte russa del leader terrorista ceceno Zelimkhan Yandarbiyev [in inglese], e la seguente tortura e processo di due impiegati dell’ambasciata russa accusati di essere coinvolti nell’assassinio (erano stati condannati alla prigione a vita e infine rimandati in Russia). Eppure, i Russi e i Qatariani sono gente molto pragmatica, e i due paesi hanno mantenuto relazioni fondamentalmente cordiali, anche se caute, giungendo anche a delle cooperazioni economiche.
È estremamente improbabile che la Russia intervenga direttamente in questa crisi, a meno che naturalmente non sia attaccato direttamente l’Iran. La buona notizia è che quest’attacco diretto all’Iran è improbabile, dato che nessuno dei Tre Stati Canaglia ha davvero gli attributi per prendersela con l’Iran (ed Hezbollah). Quello che farà la Russia è usare il proprio soft power, politico ed economico, [entrambi in inglese] per tentare di attirare lentamente il Qatar nell’orbita Russa, secondo la strategia semi-ufficiale del Ministro degli Esteri Russo, che consiste nel “trasformare i nemici in neutrali, i neutrali in amici, gli amici in alleati”. Proprio come con la Turchia, i Russi forniranno volentieri il proprio aiuto, specialmente perché sanno che quest’aiuto guadagnerà loro un’influenza molto preziosa nella regione.
L’Iran, il vero bersaglio di tutto questo
Gli Iraniani dicono apertamente che i recenti attacchi terroristici a Tehran sarebbero stati ordinati dall’Arabia Saudita [in inglese]. Tecnicamente, ciò vorrebbe dire che adesso l’Iran è in guerra [in inglese]. In realtà, naturalmente, essendo l’Iran la vera superpotenza locale, sta agendo con calma e moderazione [in inglese]: gli Iraniani comprendono perfettamente che questi ultimi attacchi terroristi sono un segno di debolezza, e che la migliore reazione è comportarsi allo stesso modo dei Russi dopo le bombe di San Pietroburgo: restare concentrati, calmi e determinati. Proprio come i Russi, gli Iraniani hanno offerto di mandare cibo al Qatar, ma è difficile che intervengano militarmente, a meno che i Sauditi non impazziscano davvero. Inoltre, con le forze armate turche presto schierate in Qatar [in inglese], gli Iraniani non hanno davvero la necessità di dimostrare alcuna potenza militare. Direi che il semplice fatto che né gli USA, né Israele abbiano osato attaccare direttamente l’Iran sin dal 1988 (dall’abbattimento da parte della Marina USA dell’Airbus, volo 655 dell’Iran Air [in inglese]) sia la migliore prova della reale potenza militare iraniana.
Quindi a cosa andiamo incontro?
È davvero impossibile prevederlo, anche solo perché le azioni dei Tre Stati Canaglia difficilmente possono essere descritte come “razionali”. Eppure, supponendo che nessuno impazzisca, la mia personale sensazione è che a prevalere sarà il Qatar, e che quest’ultimo tentativo saudita di provare quanto sia potente il regno, fallirà di nuovo, proprio come tutti gli altri (in Bahrain nel 2011, in Siria nel 2012 o in Yemen nel 2015). Il tempo inoltre non gioca a favore dei Sauditi. I Qatariani hanno indicato chiaramente di non avere intenzione di arrendersi [in inglese] e che combatteranno [in inglese]. I Sauditi hanno già preso la scandalosa decisione di imporre un embargo ad un altro paese musulmano durante il mese sacro del Ramadan. Continueranno con l’escalation commettendo un atto di aggressione contro un altro paese musulmano durante questo mese? Potrebbero farlo, ma è difficile credere che possano ignorare a tal punto l’opinione pubblica musulmana. Ma se non lo fanno, la loro operazione perderà gran parte dello slancio, mentre ai Qatariani verrà lasciato il tempo di prepararsi politicamente, economicamente, socialmente e militarmente. Il Qatar sarà piccolo, e la sua popolazione poco numerosa, ma le loro immense tasche consentono loro di schierare rapidamente un enorme quantitativo di fornitori e di contractors lieti di aiutarli. Questo è un caso in cui le famose “forze dei mercati” agiranno in vantaggio del Qatar.
Il Ministro degli Esteri del Qatar è atteso a Mosca sabato [in inglese], ed è piuttosto ovvio di cosa si parlerà nel corso degli incontri: anche se la Russia non metterà tutto il proprio peso politico a sostegno dei Qatariani, il Cremlino potrebbe accettare un ruolo da mediatore tra Arabia Saudita e Qatar. Se succedesse questo, sarebbe l’ironia finale: il risultato principale dell’operazione saudita-israeliano-statunitense sarà l’assegnazione di un ruolo di influenza ancora maggiore nella regione alla Russia. Per quanto riguarda lo stesso Qatar, il risultato di questa crisi si declinerà secondo il famoso detto nicciano: “Quello che non ci uccide, ci rafforza.”
Conclusione
Questa crisi la vedo come un altro disperato tentativo da parte dei Tre Stati Canaglia di dimostrare che loro sono ancora il più grosso e il più cattivo del quartiere, ed esattamente come i precedenti, penso che fallirà. Per esempio, io non ce li vedo i Qatariani a chiudere Al-Jazeera, una delle loro “armi” più potenti. Né ce li vedo a rompere tutti i loro rapporti diplomatici con l’Iran, visto quanto i due stati sono [come gemelli siamesi] uniti all’anca per mezzo dell’immenso giacimento di gas liquido di South Pars [in inglese]. La sconfinata ricchezza dei Qatariani significa inoltre che loro avranno sostenitori molto potenti in tutto il mondo che proprio adesso, nel momento in cui io scrivo queste righe, probabilmente sono al telefono a chiamare gente molto influente per spiegare loro in termini assolutamente chiari, come non sia il caso di fare pasticci col Qatar.
Se non altro, questa crisi servirò soltanto a spingere il Qatar nel caldo abbraccio di altri paesi, tra cui Russia e Iran, e indebolirà ulteriormente i Sauditi.
I Tre Stati Canaglia hanno lo stesso problema: la loro capacità militare di minacciare, tiranneggiare o punire si sta rapidamente erodendo e sempre meno paesi lì fuori li temono. Il loro sbaglio più grosso è che invece di cercare di adattare le proprie politiche a questa nuova realtà, scelgono sempre di raddoppiare, ancora e ancora, nonostante falliscano ogni volta, facendoli apparire perfino più deboli e peggiorando ulteriormente la loro situazione rispetto a quella iniziale. Questa è una pericolosissima spirale verso il basso, e ancora i Tre Stati Canaglia non sembrano in grado di immaginare una qualunque altra politica.
Terminerò quest’articolo confrontando cosa i Presidenti Putin e Trump faranno in questi giorni, dato che trovo questo confronto altamente simbolico della nuova era in cui viviamo:
Trump, dopo aver bombardato qualche “tecnica” (camioncini 4×4 con una mitragliatrice) e qualche camion in Siria, si è messo a twittare che Comey è un bugiardo e un delatore.
Quanto a Putin, ha partecipato all’ultimo meeting della Shanghai Cooperation Organization (SCO) che ha salutato l’ingresso di Pakistan e India come membri a pieno titolo. La SCO adesso rappresenta oltre metà della popolazione che abita il nostro pianeta, e un quarto del PIL mondiale. La si può pensare come “l’altro G8”, oppure come “il G8 che conta”.

mercoledì 28 giugno 2017

Strategia NATO della tensione

Che cosa avverrebbe se l’aereo del segretario Usa alla Difesa Jim Mattis, in volo dalla California all’Alaska lungo un corridoio aereo sul Pacifico, venisse intercettato da un caccia russo dell’aeronautica cubana? La notizia occuperebbe le prime pagine, suscitando un’ondata di preoccupate reazioni politiche.
Non si è invece mossa foglia quando il 21 giugno l’aereo del ministro russo della Difesa Sergei Shoigu, in volo da Mosca all’enclave russa di Kaliningrad lungo l’apposito corridoio sul Mar Baltico, è stato intercettato da un caccia F-16 statunitense dell’aeronautica polacca che, dopo essersi minacciosamente avvicinato, si è dovuto allontanare per l’intervento di un caccia Sukhoi SU-27 russo. Una provocazione programmata, che rientra nella strategia Nato mirante ad accrescere in Europa, ogni giorno di più, la tensione con la Russia.
Dall’1 al 16 giugno si è svolta nel Mar Baltico, a ridosso del territorio russo ma con la motivazione ufficiale di difendere la regione dalla «minaccia russa», l’esercitazione Nato Baltops con la partecipazione di oltre 50 navi e 50 aerei da guerra di Stati uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Polonia e altri paesi tra cui Svezia e Finlandia, non membri ma partner della Alleanza.
Contemporaneamente, dal 12 al 23 giugno, si è svolta in Lituania l’esercitazione Iron Wolf che ha visti impegnati, per la prima volta insieme, due gruppi di battaglia Nato «a presenza avanzata potenziata»: quello in Lituania sotto comando tedesco, comprendente truppe belghe, olandesi e norvegesi e, dal 2018, anche francesi, croate e ceche; quello in Polonia sotto comando Usa, comprendente truppe britanniche e rumene.
Carrarmati Abrams della
3a Brigata corazzata Usa, trasferita in Polonia lo scorso gennaio, sono entrati in Lituania attraverso il Suwalki Gap, un tratto di terreno piatto lungo un centinaio di chilometri tra Kaliningrad e Bielorussia, unendosi ai carrarmati Leopard del battaglione tedesco 122 di fanteria meccanizzata. Il Suwalki Gap, avverte la Nato riesumando l’armamentario propagandistico della vecchia guerra fredda, «sarebbe un varco perfetto attraverso cui i carrarmati russi potrebbero invadere l’Europa».
In piena attività anche gli altri due gruppi di battaglia Nato: quello in Lettonia sotto comando canadese, comprendente truppe italiane, spagnole, polacche, slovene e albanesi; quello in Estonia sotto comando britannico, comprendente truppe francesi e dal 2018 anche danesi.
«Le nostre forze sono pronte e posizionate nel caso ce ne fosse bisogno per contrastare l’aggressione russa», assicura il generale Curtis Scaparrotti, capo del Comando europeo degli Stati uniti e allo stesso tempo Comandante supremo alleato in Europa.
Ad essere mobilitati non sono solo i gruppi di battaglia Nato «a presenza avanzata potenziata». Dal 12 al 29 giugno si svolge al Centro Nato di addestramento delle forze congiunte, in Polonia, l’esercitazione Coalition Warrior il cui scopo è sperimentare le più avanzate tecnologie per dare alla Nato la massima prontezza e interoperabilità, in particolare nel confronto con la Russia. Vi partecipano oltre 1000 scienziati e ingegneri di 26 paesi, tra cui quelli del Centro Nato per la ricerca marittima e la sperimentazione con sede a La Spezia.
Mosca, ovviamente, non sta con le mani in mano. Dopo che il presidente Trump sarà stato in visita in Polonia il 6 luglio, la Russia terrà nel Mar Baltico una grande esercitazione navale congiunta con la Cina. Chissà se a Washington conoscono l’antico proverbio «Chi semina vento, raccoglie tempesta».

martedì 27 giugno 2017

Sanzioni, l’Italia perde colpi nel mercato russo

L’Unione Europea estende nuovamente di altri sei mesi le sanzioni contro la Russia e la politica autolesionista europea continua. Fra la Russia e l’Italia sono numerosi i settori strategici di cooperazione, fra cui quello energetico, ma con le sanzioni l’Italia perde colpi nel mercato russo.
Il premier italiano Gentiloni in visita a Sochi ha definito eccellenti i rapporti fra l'Italia e la Russia, effettivamente la cooperazione fra i due Paesi nei più svariati settori dalla moda all'agroalimentare e all'energia ha raggiunto in passato ottimi livelli. Dal 2014 però l'Unione Europa impone sanzioni economiche alla Russia, una guerra commerciale pagata anche con le tasche italiane.
Nonostante Roma e Mosca siglino diversi importanti accordi, fra cui anche un contratto miliardario tra l'Eni e Rosneft, per gli imprenditori italiani condurre affari con la Russia è diventato sempre più complicato. A causa delle sanzioni l'Italia perde la grande occasione offerta dal mercato russo. Sputnik Italia ha raggiunto per una riflessione l'ingegnere Manfredi Mazziotti, proprietario di diverse aziende italiane del settore petrolifero.
— Ingegnere Mazziotti, in quale stato si trova oggi il settore petrolifero in Italia?
— Il settore petrolifero in Italia è indicato formalmente come un settore che dovrebbe essere abbandonato. L'Eni fa moltissimo ovviamente, ma tutto quello che si fa nel settore in generale è visto come un'attività non dico criminale, però pericolosa. Lavorare nel settore petrolifero significa essere considerati dei paria, anche se in realtà non è vero.
— Lei collabora con delle aziende russe?
— Ho collaborazioni importanti con l'azienda bielorussa Naftan, che in realtà è in mano ai russi. La Naftan è una raffineria enorme ed è una delle più importanti di tutta l'ex Unione Sovietica. Lavorando con la Naftan sembra come se io facessi qualcosa che alle banche non sta bene.
— Cioè? Quali sono le difficoltà in cui si è imbattuto?
— Si tratta di un buyer's credit che è concesso dal Monte dei Paschi di Siena su garanzia della SACE, il quale viene continuamente interrotto e bloccato. È un lavoro che va avanti dal 2011, procede tutto pianissimo, perché si ferma in continuazione la procedura.
— Secondo lei a che cosa sono dovuti questi ostacoli?
— Il problema è dovuto alla difficoltà di tutte le aziende italiane con il sistema bancario, che di fatto è come un nemico delle aziende. Questo sistema non collabora quando i clienti sono in difficoltà. Nel caso della Russia e della Bielorussia io non ho più supporto bancario. Ho firmato un accordo anche con una compagnia russa, ma non sono riuscito a farmi garantire nulla, perché le banche mi hanno negato il credito e mi hanno impedito di procedere, perciò il contratto è perso. Questo sta avvenendo con tutte le aziende del mondo russo.
— In che cosa consiste esattamente il problema?
— Le aziende russe chiedono garanzie a favore delle aziende italiane.
Quando si consegnano dei materiali o delle forniture, prima di pagarle i russi vogliono che vengano garantiti. È una cosa diventata ovvia per i russi, perché hanno preso talmente tante fregature dall'Italia, che quando ora si consegnano dei materiali, la parte russa vuole che siano garantiti. Ecco, queste garanzie le banche italiane non le danno.
— Qual è l'importanza del mercato russo per le imprese italiane?
“Perdere il mercato russo è stato come essere cacciati dal Paradiso per la UE”
— Il valore è enorme, le richieste del mercato russo nei confronti delle aziende italiane, aziende ottime in questo settore, sono numerosissime. Ci sono possibilità senza limiti, perché in Russia si fabbrica poco di quello che è necessario e da parte delle aziende italiane ci sarebbe la possibilità di fare molto lavoro, ma in questo momento ci sono difficoltà con le sanzioni, che solo formalmente non riguardano il settore del petrolio e del gas. Quando si parla di approcci con la Russia la mentalità del mondo italiano vede le sanzioni come un elemento negativo.
È un peccato che un settore grandissimo per la Russia e per l'Italia sia trattato in questo modo.
— In questo settore si potrebbe incrementare ancora di più la cooperazione fra Italia e Russia?
— Sono proprietario di un'azienda che lavora nell'ingegneria, nella progettazione e nella fornitura e quando devo affrontare un rapporto con la Russia mi scontro con dei problemi, mentre invece questo dovrebbe essere il Paese guida. La richiesta di forniture da parte della Russia è grandissima e l'Italia avrebbe un mare di lavoro e enormi possibilità. Noi sappiamo fare quello che i russi vogliono e mi sembra che con i russi ci sia un ottimo modo di lavorare. Con i russi ci si trova benissimo, l'approccio da parte dell'Italia e del governo italiano invece è che sarebbe meglio stare alla larga dai russi. La Russia viene considerata un pericolo.
In Europa noi siamo il maggiore fornitore petrolifero, i concorrenti sarebbero le aziende tedesche, le quali fanno in modo che passi il messaggio di non collaborare con la Russia. In realtà il vero problema è che le banche sono sotto il controllo della Germania. Il rapporto con la Russia sarebbe gigantesco e sarebbe molto gradito alle aziende italiane, perché conosciamo benissimo come lavorano i russi, ci abbiamo lavorato in passato, ma ci vengono create grandi difficoltà, soprattutto dal sistema bancario.
— Qual è il suo auspicio? Come vede in futuro la cooperazione fra Italia e Russia nel settore petrolifero?
— Il mio auspicio è che l'Italia esca dall'Unione Europea, perché l'Unione è controllata di fatto dalla Germania e questo Paese, come sappiamo, ha sempre avuto un rapporto delicatissimo con la Russia. Un partner come l'Italia che vuole aprirsi con la Russia, ecco, i tedeschi lo vedono come fumo negli occhi.

lunedì 26 giugno 2017

SPESA PUBBLICA: Opere incompiute ed opere inutili!

Se dovessi scegliere qual è il danno maggiore che normalmente e con sistematicità viene provocato alle “casse pubbliche” dalle “opere incompiute” ovvero dalle “opere inutili”, riconosco che mi troverei in difficoltà.
Le opere incompiute, almeno all’origine della loro progettazione sicuramente avevano un senso, una utilità, una finalità condivisa e attesa dalla popolazione e dal territorio cui erano allocate. Nel tempo a venire, magari in presenza di nuovi finanziamenti, nuove risorse, si nutre la speranza di vederla realizzata secondo le originarie aspettative.
Le opere inutili invece, da subito, rappresentano un danno per la collettività, sia sotto il profilo economico che sotto quello paesaggistico ed estetico delle nostre comunità.
Il comune denominatore caratterizzante ambedue queste scorciatoie della spesa pubblica a prescindere, è che nessuno paga pegno, sono orfane nel senso che non hanno mai una paternità ben individuabile, non ci sono responsabilità evidenti e circoscritte e bene farebbe la Corte dei Conti od anche l’Autorità giudiziaria ad accendere un faro anche su impulso di una stampa generalmente poco attenta.
In questa seconda fascia si annida a mio avviso ed in misura maggiore la cattiva politica che, nel tentativo di dimostrare la sua efficienza, la presenza costante sul territorio, rivendica con orgoglio di aver realizzato questo o quello, indicando molto spesso anche l’ingente onere sostenuto sempre a spese di “Pantalone”.
Conclusa l’inaugurazione della struttura – centri per anziani, asili nido, lotti autostradali etc. – sulla reale destinazione ed effettivo utilizzo dei beni da parte della popolazione o utenza in genere, non interessa a nessuno, potendo ragionevolmente concludere con il detto sempre attuale del grande Principe della risata Antonio De CURTIS, in arte Totò: “Ed io pago, ed io pago!”.
In epoca recente, parlando con un politico di lungo corso, nel lamentare le tante spese sostenute per la realizzazione di “opere inutili”, nel senso che a distanza di anni, pur essendo pronte e compiutamente arredate finanche di suppellettili, non risultano essere mai state utilizzate, la risposta è stata a dir poco sconcertante: “Trattavasi di soldi messi a disposizione dalla Regione attraverso i fondi europei che, se non spesi, andavano persi”.
Così funziona la Pubblica amministrazione, così funziona la “spesa pubblica”: un autentico colapasta!

venerdì 23 giugno 2017

G8 Genova, Strasburgo: "Alla Diaz fu tortura"

Nel raid alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del luglio 2001, la polizia italiana compì degli atti di tortura contro gli occupanti. E' quanto ha stabilito la Corte europea dei Diritti dell'Uomo, replicando il giudizio del 2015, pronunciato dopo il ricorso di Arnaldo Cestaro. Stavolta a ricorrere al giudizio della Corte sono stati 42 manifestanti, che la notte del blitz furono sia vittime che testimoni dell'uso "eccessivo, indiscriminato e chiaramente sproporzionato della forza" da parte degli agenti del VII Nucleo Antisommossa. Anche in questo caso la Corte ha riscontrato una violazione dell'Articolo 3 della Convenzione europea dei Diritti Umani, riguardante la proibizione della tortura e di trattamenti inumani o degradanti.
Quella maledetta notte alla Diaz
La Corte di Strasburgo ha inoltre stabilito che l'Italia dovrà risarcire somme che vanno dai 45mila ai 55mila euro ciascuno a 29 vittime del pestaggio. Nonostante non opposero alcuna resistenza alla polizia, gli occupanti della scuola, la notte del 21 luglio del 2001 furono "sistematicamente pestati" dagli agenti, compresi coloro che erano sdraiati a terra o seduti con le mani alzate.
La Corte ha anche affermato che i procedimenti legali condotti in Italia contro i poliziotti coinvolti nell'episodio sono stati inadeguati, stigmatizzando l'inadeguatezza del sistema legislativo italiano riguardo le sanzioni contro gli atti di tortura.

giovedì 22 giugno 2017

Carne e sangue della nostra gente. La chiamano spending review

Cosa ci racconta la relazione sulla Spending Review? Non lasciatevi ancora ingannare dal fascino rassicurante delle parole in inglese, armatevi di curiosità e seguiteci nella decostruzione di questa narrazione tossica dai risultati dolorosi.
Secondo la Banca d’Italia, al 31 dicembre del 2016 il debito pubblico italiano era pari a 2.217,7 miliardi. Lo certifica il Supplemento “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, in cui si evidenzia un aumento di 45 miliardi rispetto a fine 2015, quando il debito ammontava a 2.172,7 miliardi (132,3 per cento del Pil).
Nel 2014 il debito pubblico era di 2.134 miliardi (il 133,8% del Pil). In due anni è cresciuto di 83 miliardi (con relativo aumento degli interessi da pagarci sopra a vantaggio di banche, assicurazioni, fondi di investimento italiani e stranieri possessori dei titoli di debito) ma è aumentato anche il Pil consentendo una riduzione percentuale ma non quantitativa. Quando “tutto il male” (per mutuare i bellissimi romanzi di Stig Larsson) è cominciato, ossia nel 1992, il debito pubblico era “solo” il 105,2% del Pil. Ma da allora è entrato in vigore il Trattato di Maastricht e sono cominciati i governi delle misure “lacrime e sangue” (Amato, Ciampi, Prodi, Berlusconi) che dichiaravano come obiettivo strategico proprio la riduzione del debito pubblico. I risultati ci dicono che in venticinque anni di lacrime e sangue su pensioni, salari, salute, privatizzazioni che hanno impoverito il paese, il debito è aumentato del 27,5% sul Pil.
Ieri è stata diffusa la relazione sulla Spending Review, cioè i tagli della spesa pubblica affidati dopo aver cambiato mano tre volte, al consigliere economico di Renzi, l’israeliano Yoram Gutgeld.
La relazione ci dice che tra il 2014 e il 2016 la spesa pubblica è stata tagliata per 3,6 miliardi nel 2014, 18 miliardi nel 2015, 25 miliardi nel 2016 e si punta a 29,9 miliardi per il 2017. Tagli importanti dunque ma, paradossalmente, non sul piano della spesa controllata attraverso il”metodo Consip” oggi finito sotto processo per lo scandalo sull’assegnazione degli appalti. Qui infatti la spesa è aumentata del 27% (ne riferisce il Sole 24 Ore di oggi a pag.5).
Ma dove sono stati inferti i tagli? Qui viene fuori tutto il carattere di classe della spending review.
Leggiamo infatti dalla relazione che a farne le spese sono state soprattutto le amministrazioni locali e i lavoratori pubblici, diminuiti tra il 2013 e 2016 di ben 84mila unità. E anche in prospettiva, quando si parla di tagli alla spesa si punta come “spesa aggredibile” al personale (il 50% della spesa pubblica aggredibile pari a 164 miliardi) e solo dopo ci sono i 135,4 miliardi (41%) degli acquisti per beni e servizi pubblici (esattamente lì dove ha fallito il “metodo Consip”). Insomma si è tagliato dolorosamente nella carne e nel sangue della gente per poter avere a disposizione un tesoretto da spendere per salvare le banche e finanziare l’aumento delle spese militari.
Ricapitolando. Sono venticinque anni che ci massacrano su ogni aspetto del lavoro e del welfare in nome della riduzione del debito pubblico, ma questo invece di diminuire è aumentato. Il paese da decenni è in avanzo primario (cioè spende meno di quanto incassa) ma va in deficit a causa degli interessi da pagare sul debito (ben 66,3 miliardi solo nel 2016). Scomparso già dagli anni Novanta, il “Bot people”, questi interessi vanno ormai a rimborsare solo banche, fondi di investimento italiani e stranieri, società finanziarie e assicurazioni, cioè interessi meramente ed esclusivamente privati.
Lo Stato e le istituzioni locali (Regioni, Comuni etc.) si sono sempre più de-responsabilizzate dalla gestione dei servizi pubblici esternalizzando e privatizzando a man bassa, lasciando così degradare complesivamente le città e il paese, alimentando il razzismo e la guerra tra poveri per poter condurre più tranquillamente e duramente la “guerra contro i poveri”.
Risultati? Boom della disuguaglianza sociale, della disoccupazione, dell’impoverimento di massa, dello stato di polizia, dell’analfabetismo funzionale e crollo delle aspettative generali del paese (con una emigrazione di italiani all’estero che ormai ha quasi raggiunto quella dell’immigrazione di stranieri in Italia). Per fare cosa? Per compiere quale “destino” (quello di cui ha parlato la Merkel) se non quello di essere un paese subalterno alle oligarchie finanziarie e alle multinazionali che costruito l’Unione Europea, la gabbia dell’euro e spingono sulla militarizzazione e la guerra? Un destino comune agli paesi Pigs che stà perà producendo asimmetrie dolorose e visibili all’interno stesso del nostro paese tra il nucleo integrato con l’Unione Europea (Lombardia, Emilia, parte del Nordest dove c’è quel 20% di imprese che rappresenta l’80% dell’export e del valore aggiunto in Italia) e il resto del paese che sta andando alla malora.
E’ questo il meccanismo da spezzare per rimettere in modo un processo di cambiamento politico e sociale di segno almeno progressista prima ancora che comunista.
Per questo il 1 luglio ci si vede a Roma, per provare con Eurostop a rimettere in campo questo processo, lasciando andare alla deriva la “sinistra” esistente, residuale, ormai inservibile a tale scopo.

mercoledì 21 giugno 2017

Salvare la legge sul biotestamento

Questo finale di legislatura deve evitare di buttare all’aria i provvedimenti che attendono di essere varati da anni e che sono ormai vicinissimi alla meta. Soprattutto le leggi che riguardano i diritti dei cittadini, come quella sulla cittadinanza (Ius soli), ferma al Senato dalla fine del 2015, e quella sul biotestamento. Approvarle sarebbe un atto di responsabilità verso i cittadini, oltre che un segno di civiltà.
Dal 1996 ai giorni nostri sono passati in Parlamento 58 Disegni di Legge sul biotestamento senza che sia mai stata approvata una legge in merito. Dopo cinque legislature, finalmente, il 20 aprile 2017, la Camera dei Deputati ha approvato la Legge N. 2801 che stabilisce le “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
Questa legge rappresenta un’importante crescita culturale per tutti i cittadini del nostro Paese perché sancisce alcuni importanti principi, sanciti dalla nostra Costituzione, ma che per la prima volta affrontano il tema delle scelte alle quali ci possiamo trovare di fronte nell’ultima parte della nostra vita (vedi il post testamento biologico: vicini alla meta ). Tra questi va ricordata:
l’importanza dell’autodeterminazione nelle scelte di fine vita in analogia a quanto avviene per il consenso ad ogni altro atto sanitario;
l’importanza del principio della comunicazione tra medico e paziente, che rappresenta tempo di cura;
l’importanza della formazione di tutto il personale sanitario in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative;
il principio di dovere prendersi cura della persona ammalata fino al completamento della sua vita, anche quando sono esaurite le possibilità terapeutiche per la sua malattia e di potere ricorrere, In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, anche alla sedazione palliativa profonda continua in associazione alla terapia del dolore, se il paziente è consenziente;
l’importanza della desistenza terapeutica quando la cura della malattia rappresenta solo un prolungamento della sofferenza e della possibilità di rifiutare ogni forma di sostegno vitale compresa la nutrizione e l’idratazione artificiale se fonte di sofferenza, perché devono essere considerate anch’esse una forma di terapia.
Per prima volta è stata approvata una Legge che stabilisce che ogni cittadino maggiorenne capace di intendere e di volere, o se minore/incapace il suo rappresentante genitoriale/tutore, in previsione di non potere esprimere più la propria volontà, possa egualmente esprimere le proprie scelte con le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) che saranno rispettate dal medico quando se ne presenterà la necessità. Ancora la Legge stabilisce per la prima volta che, di fronte a una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, il cittadino possa sottoscrive la Pianificazione Condivisa delle Cure (PCC) alla quale il medico e l’equipe sanitaria dovrà attenersi quando lo stesso cittadino si venga a trovare in condizione di non poter esprimere più il proprio consenso.
Faccio quindi un appello al Presidente della Repubblica, al Presidente del Senato, al Presidente della Camera, e a tutto il mondo politico, che faccia di tutto affinché la Legge sulle “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, già passata da un ramo del Parlamento, possa essere definitivamente approvata prima del completamento della l’attuale legislatura, col rischio, altrimenti, che passino ancora anni prima che venga approvata una legge così importante e così attesa da tutta la cittadinanza, ed in particolare da quella più fragile e indifesa, e venga così colmato il vuoto legislativo in questa materia che si ha ancora nel nostro Paese come, ormai, avviene in soli pochi altri Paesi in Europa.

martedì 20 giugno 2017

La Cassazione: il superlavoro può portare alla morte

L’Asp di Enna è stata condannata a risarcire gli eredi di un dipendente dell’ospedale di Nicosia morto nel 1998 proprio a causa del superlavoro, come ha riconosciuto la sentenza. La Corte di Cassazione ha individuato nel «superlavoro» la causa di morte di un tecnico radiologo in servizio all’ospedale Basilotta di Nicosia, ritenendo responsabile l’Azienda sanitaria datrice di lavoro. Per la Cassazione, nel lavoro ospedaliero connotato da costanti carenze di organico, non è «accettabile riversare sui dipendenti tutto l’onere di garantire le prestazioni sanitarie ai pazienti». Devono essere il servizio sanitario e l’Asp di competenza ad organizzare il lavoro in modo da garantire l’utenza e l’integrità psico- fisica di medici e operatori sanitari. La Corte di Cassazione, dopo 10 anni di processi, riconosce che i turni eccessivi sostenuti negli ospedali dove l’organico è carente «possono uccidere» come nel caso del tecnico radiologo Giuseppe Ruberto di Nicosia, morto poco più che trentenne a causa di quello che per l’avvocato Giuseppe Agozzino, legale della vedova e della figlia, era superlavoro imposto dall’azienda.
La sentenza stabilisce che la morte è riconducibile a condizioni disagiate e al carico al quale per 7 anni fu sottoposto Ruberto. Per la Corte si riconosce la responsabilità del datore di lavoro, sebbene il dipendente non si sia mai lamentato formalmente del carico eccessivo al quale era sottoposto. In primo grado il tribunale di Nicosia aveva riconosciuto agli eredi che il decesso del loro congiunto era imputabile all’enorme carico di lavoro, condannando l’Azienda sanitaria ennese al pagamento dell’equo indennizzo e al risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale per la perdita della figura familiare. La Corte d’Appello di Caltanissetta aveva accolto il ricorso presentato dai legali dell’Asp di Enna, annullando la sentenza di primo grado e il legale della famiglia ha fatto ricorso in Cassazione che ha riconosciuto, con sentenza definitiva, il superlavoro come causa di morte del tecnico radiologo e il diritto degli eredi al risarcimento del danno. Per le croniche carenze di organico, ad oggi non risolte, i turni eccessivi sono spesso una regola e l’Asp di Enna è stata recentemente condannata a risarcire per diverse centinaia di migliaia di euro tre chirurghi per le reperibilità in numero superiore a quello che stabilisce la legge.
«L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» si legge nella sentenza, che sottolinea anche: è «irrilevante che il dipendente non si sia lamentato».
I giudici hanno anche ricordato le cifre del «superlavoro»: dal 1991 al 1998 (data del decesso del tecnico) i quattro tecnici di radiologia avevano effettuato 148.513 esami, una media di 18.564 annui, più quelli del servizio di tomografia computerizzata, 662 l’anno; lo svolgimento di turni di pronta disponibilità notturna e festiva e di pronta disponibilità diurna in eccesso rispetto ai limiti previsti dalla contrattazione collettiva vigente. E sulle cause del decesso la Cassazione scrive che «un’eventuale predisposizione costituzionale del soggetto», deceduto per una cardiopatia ischemica silente, «non possa elidere l’incidenza concausale, anche soltanto ingravescente, dei nocivi fattori esterni individuabili in un supermenage fisico e psichico, quale quello documento in atti».

lunedì 19 giugno 2017

L’Italia ha bisogno di lavoro, non di carri armati e missili

In questi giorni la Commissione Bilancio della Camera dei Deputati ha iniziato a occuparsi del decreto della presidenza del consiglio che deve decidere la ripartizione di 46 miliardi di un fondo di investimenti (previsti fino al 2032) che la scorsa legge di bilancio aveva stanziato per sostenere interventi in tanti ambiti: trasporti, ricerca, periferie, difesa del suolo, lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, bonifiche, informatizzazione dell’amministrazione giudiziaria, ecc. ecc.
Di Difesa e armi non si parlava. Invece nella tabella del decreto in distribuzione si legge che 9.988.550.001 (il 22% del totale) saranno destinati al ministero della Difesa. Un aumento di circa 800 milioni l’anno per il budget della Difesa.
Come ha ricordato Milex, l’osservatorio italiano sulle spese militari, 5,36 miliardi sono destinati ai programmi di armamento finanziati dal Ministero dello Sviluppo Economico. Sia quelli già approvati dal Parlamento: dai carri da combattimento Freccia e Centauro2 di Iveco (Fiat) e Oto Melara (Leonardo), agli elicotteri da attacco Mangusta2 di Leonardo, alle ultime fregate missilistiche Fremm di Fincantieri. Sia, secondo indiscrezioni raccolte da Rivista Italiana Difesa, nuovi programmi relativi agli elicotteri Chinook della Boeing per le forze speciali e ai nuovi missili contraerei Camm-er di Mbda (25% Leonardo) e Avio. Questo spiegherebbe il forte ritardo nella presnetazione del Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2017-2019, nel quale evidentemente si attende di poter inserire anche i nuovi programmi. I restanti 4,62 miliardi sono destinati alla realizzazione di nuove infrastrutture militari, in particolare alla realizzino del nuovo “Pentagono italiano” di Centocelle.
In parole povere si sacrificano gli investimenti civili, scuola e welfare ad esempio, a quelli militari. La solita schifezza politica. La lobby delle armi è così forte che anche in un momento di crisi, riesce a far infilare un bel po’ di miliardini in un provvedimento a loro favore.
Scelte quasi incostituzionali per un Paese, come il nostro, che ripudia la guerra e le dittature – “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri” art. 11 della Costituzione. Complimenti ministra Pinotti. Ottimo lavoro Renzi-Gentiloni.

venerdì 16 giugno 2017

Il governo stanzia 10 miliardi alla Difesa

Un decreto della presidenza del consiglio ripartisce 46 miliardi di investimenti nei prossimi anni. Ma il 22% del totale verranno destinati al Ministero della Difesa. Circa 10 miliardi di euro sottratti a investimenti e sviluppo infrastrutturale che verranno utilizzati per produrre carri da combattimento e elicotteri da attacco
Oggi, 16 giugno, se non fosse stata messa la fiducia sulla riforma del processo penale la Commissione Bilancio della Camera si sarebbe dovuta occupare di un decreto della presidenza del consiglio che ripartisce 46 miliardi di investimenti nei prossimi anni, di cui 10 ai sistemi d’arma e agli interventi militari. Se ne parlerà domani o la prossima settimana.
Di che si tratta? L’ultima legge di bilancio (al comma 140) stabiliva un piano di investimenti (46 miliardi) da qui al 2032 su vari assi: trasporti, ricerca, periferie, difesa del suolo, lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, bonifiche, informatizzazione dell’amministrazione giudiziaria, ecc. ecc. Di difesa e armi non si parlava nella legge di bilancio, anche se tra le priorità venivano citate le “attività industriali ad alta tecnologia e sostegno alle esportazioni”, che vuol dire tutto e niente.
Nella tabella del decreto in distribuzione scopriamo che 9.988.550.001 (in pratica 10 miliardi, il 22% del totale) saranno destinati al ministero della difesa. Ma le spese militari non erano inserite tra le priorità del comma 140 della legge di bilancio. Per cosa serviranno questi 10 miliardi? Come ricorda Milex saranno usati per circa la metà dell’importo (5,3 miliardi) per produrre carri da combattimento Freccia e Centauro 2, le fregate Fremm, gli elicotteri da attacco Mangusta e tanto altro ancora. Soldi che serviranno a realizzare (ben 2,6 miliardi) anche il “Pentagono de noantri” (un mega centro servizi e comandi) nel quartiere periferico di Centocelle, a Roma. L’aspetto ridicolo e paradossale è che questa spesa di 2,6 miliardi per il Pentagono nostrano viene inserita sotto il titolo del paragrafo del decreto: “edilizia pubblica, compresa quella scolastica”. Scolastica?
Due riflessioni. La prima: un fondo di 46 miliardi per “assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastruttale del paese” cede il 22% della sua dote al Ministero della Difesa per fare carri armati ed elicotteri di combattimento e centri comandi. Che c’entra? Una scorrettezza politica e formale grande come una casa. Secondo: si sacrificano gli investimenti civili a quelli militari. Mentre si destinano 10 miliardi alle armi, si concedono in questo piano pluriennale solo 500 milioni agli interventi in campo ambientale, meno di 600 ai beni culturali e 287 (sempre milioni) alla salute. E allo “sviluppo economico” (ci si aspetterebbe la fetta di torta più grande) vengono dati 3,5 miliardi di euro, appena poco più di 1/3 di quanto si destina a contraeree e fregate.
Nonostante le lamentele della ministra Pinotti e delle gerarchie militari, al ministero della Difesa arrivano sempre tanti, troppi soldi.
Ma il paese ha bisogno di lavoro, non di carri armati.

giovedì 15 giugno 2017

Banche e debito, cosa vuole Bruxelles

Autunno, inverno, primavera: è uguale. A Bruxelles non interessa che l’Italia vada alle elezioni prima o dopo, ma solo che faccia quello che deve per mettere in sicurezza banche e conti pubblici. Sul primo fronte, al Tesoro brucia ancora la magra figura rimediata nel confronto con la Spagna, che ha risolto con un salvataggio-lampo la crisi del Banco Popular.
È stato sufficiente l’intervento del Banco Santander, uno dei principali colossi finanziari europei, che ha acquisito l’istituto in crisi per la cifra simbolica di un euro e poi ha annunciato un aumento di capitale da sette miliardi (già interamente sottoscritto) per far fronte ai costi dell’operazione. Azioni e obbligazioni subordinate del Banco Popular sono state azzerate. Il tutto in pochi giorni.
Niente di paragonabile a quello che sta accadendo in Italia con gli psicodrammi su banche venete e Mps. Il dossier più preoccupante è quello che riguarda Veneto Banca e la Popolare di Vicenza. Regole alla mano, Bruxelles ha imposto ai due istituti di racimolare altri 1,2 miliardi da investitori privati prima di poter accedere agli aiuti di Stato che dovrebbero salvarle. Per settimane è sembrato impossibile trovare qualcuno disposto a gettare altri soldi nel calderone veneto e la prospettiva del bail in, almeno per uno dei due istituti, appariva più che concreta.
Poi, dopo giorni di chiusura totale, Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno cambiato registro, dicendosi disponibili a valutare un nuovo intervento, purché di sistema. Traduzione: l’onere non deve pesare solo sulle due big, ma essere ripartito su tutte le principali banche italiane (alla fine è probabile che la soluzione passerà ancora una volta attraverso il fondo Atlante).
Più che l’esempio spagnolo – che pure ha indotto il Tesoro ad aumentare il pressing su Intesa e Unicredit – a sbloccare la situazione è stata la prospettiva di quello che accadrebbe se Veneto Banca e Pop Vicenza fossero lasciate al proprio destino. In caso di liquidazione degli istituti, i costi per il sistema bancario lieviterebbero, perché il Fondo di tutela dei depositi dovrebbe sborsare 11 miliardi.
Nulla però è scontato. Massimo Doris, ad di Banca Mediolanum, si è attestato sulla stessa linea possibilista di Intesa e Unicredit, ma fra le ex Popolari i dubbi crescono. In particolare, Ubi è alle prese con un aumento di capitale da 400 milioni per ricapitalizzare le 3 good bank (Etruria, Marche e Carichieti) appena acquisite e non le sarebbe facile trovare altre risorse per venire in aiuto delle venete. Banco Bpm, invece, deve affrontare la fase d'avvio della fusione da cui ha preso vita, quella tra Banco Popolare e Bpm, un’operazione che la vigilanza della Bce tiene sotto la lente d’ingrandimento.
È difficile anche ipotizzare che Mps, la quarta banca italiana, sia in grado di fare la sua parte senza battere ciglio. L’istituto senese ha da poco tirato il fiato per l’accordo raggiunto con la Commissione europea e la Bce – che hanno dato il via libera preliminare alla ricapitalizzazione da parte dello Stato – ma ora è chiamata al delicato compito di tradurre i realtà quello che per il momento rimane sulla carta. La strada è ancora in salita, soprattutto perché i fondi interessati all’acquisto delle sofferenze premono per uno sconto sul prezzo di cessione (26miliardi).
Per quanto riguarda invece i conti pubblici, il capitolo più bollente riguarda l’Iva. Ad oggi sappiamo che il governo dovrebbe stanziare nella manovra del prossimo autunno 15-16 miliardi per evitare che nel 2018 scatti l’aumento automatico dell’imposta sul valore aggiunto (3,8 miliardi sono stati già disinnescati con la manovra-bis approvata da poco alla Camera). Si tratta di soldi difficili da trovare, anche perché lo scorso aprile il nostro Paese si è impegnato a operare un aggiustamento del deficit strutturale pari allo 0,8% del Pil, in modo da riportare il debito pubblico verso una traiettoria discendente.
È questa una delle principali ossessioni dell’Ue nei confronti dell’Italia. La Commissione europea non perde occasione di rimproverarci per “non aver fatto sufficienti progressi” sugli “obiettivi di riduzione” del debito previsti dal Patto di Stabilità.
Parole che si scontrano immancabilmente con le richieste di flessibilità da parte del nostro Paese. L’ultima è arrivata una decina di giorni fa, quando il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – credendo che le elezioni anticipate fossero ormai inevitabili – si è affrettato a domandare all’Europa di ridurre l’aggiustamento allo 0,3% del Pil. In altri termini, ha chiesto uno sconto di circa 8,5 miliardi sulla correzione del 2018, così da far scendere a circa 6-7 miliardi le risorse necessarie per la sterilizzazione della clausola di salvaguardia Iva.
La risposta di Bruxelles deve ancora arrivare ed è chiaro che, se sarà negativa, imporrà un prezzo salato da pagare con la prossima legge di bilancio. Anche per questo, al Nazareno come al Quirinale, hanno preferito che a occuparsene fosse un governo sul viale del tramonto, che non ha nulla da chiedere agli elettori.

mercoledì 14 giugno 2017

L’Italia ai raggi Istat

Il Rapporto annuale sulla situazione del paese, pubblicato recentemente dall’Istat, certifica la crescita delle disuguaglianze, con alcuni dati interessanti e qualche polemica sulla metodologia adottata
Da qualche edizione a questa parte l’Istituto nazionale di statistica ha deciso di scegliere, per (ri)dare vita al suo annuale Rapporto sulla situazione del Paese , un tema conduttore: due anni fa furono i territori, l’anno scorso le generazioni, quest’anno i gruppi sociali.
La scelta di quest’anno ha generato un discreto dibattito, non tanto su quello che il Rapporto 2017 ci racconta dei gruppi sociali, riportato senza nemmeno troppa contezza da un gran numero di testate nazionali, ma sul metodo attraverso il quale l’Istituto ha deciso di individuare questi gruppi. L’obiettivo è quello di raggruppare le famiglie in base non solo al reddito ma anche ad altre caratteristiche proprie della famiglia o della persona di riferimento.
Per fare questo l’Istat usa una tecnica inferenziale: ovvero una tecnica che fa emergere dai dati i gruppi in cui la società italiana si divide senza bisogno di attrezzarsi con una classificazione e quindi una teoria aprioristica. Long story short : dall’indagine Eu-Silc, l’Istat ha selezionato un certo numero, a dire il vero ridotto, di variabili in grado di dare conto delle differenze di reddito tra le famiglie.
Nello specifico le variabili scelte dall’Istat sono: il numero di componenti della famiglia, la professione svolta, il tipo di contratto di lavoro, la cittadinanza, il titolo di studio. Un albero di regressione di queste variabili sul reddito ha suddiviso le famiglie in gruppi il più possibile omogenei tra di loro.
Autorevoli voci della sociologia italiana non hanno apprezzato questo approccio, dispensando critiche soprattutto dal punto di vista epistemologico: “La debolezza concettuale dell’esercizio diventa metodologica con l’inversione del rapporto tra causa ed effetto. Laddove le classi sono state sempre intese come fattori generativi di disuguaglianza – e non come il suo risultato –, l’Istat procede in direzione contraria. Guarda alle diseguaglianze di reddito, di istruzione, di esposizione ai rischi di disoccupazione e di povertà non come effetti dell’appartenenza a un gruppo sociale, bensì come elementi costitutivi di quel gruppo” (Barbagli, Saraceno, Schizzerotto su lavoce.info del 23 maggio).
Un argomento che può sembrare a prima vista molto convincente, ma che si rileva altrettanto debole se osservato più da vicino. La debolezza nasce dal non riconoscere che l’esercizio condotto dall’Istat è un esercizio di inferenza: il fatto di farsi “suggerire” dai dati sulle differenze di reddito e di altre variabili l’appartenenza al gruppo non equivale affatto ad assumere che le diseguaglianze generino i gruppi.
In fondo, quello che i critici non sembrano accettare è il tentativo di provare, per una volta, a non partire da una teoria predefinita che, generalmente, stabilisce l’appartenenza a un gruppo/classe dal ruolo nel mercato del lavoro della persona e che, a quanto pare, richiede il bollino di una cattedra in sociologia (!).
Il Presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, ha ribadito il valore di questo tentativo in un articolo su neodemos.it “Applicare ai dati classificazioni esistenti è certamente utile e necessario […] Quest’anno si è applicato un approccio diverso, rinunciando ad assumere ex ante quelle classi come date, ed esplorando invece con uno strumento statistico e a partire dai microdati d’indagine se emergesse una classificazione diversa […] L’obiettivo è quindi differente; è perseguito con un approccio metodologico di carattere inferenziale, reso possibile dalla ricchezza del patrimonio informativo di cui l’Istat dispone . ”
Quello che l’Istat sembra reticente ad ammettere è che scegliere le variabili in grado di spiegare il reddito significa indirettamente avere una teoria su come si forma il flusso di risorse economiche nella famiglia. E la teoria che l’Istat mette in campo non solo non viene esplicitata, ma sembrerebbe per lo più dettata dalla disponibilità di variabili dell’indagine Eu-Silc e dalla necessità di replicare la costruzione dei gruppi con i dati di altre indagini e quindi di scegliere variabili che siano disponibili in indagini diverse.
Di fatto il numero e il tipo di variabili che l’Istat mette sul piatto per individuare i gruppi non sembra del tutto soddisfacente e non sembra in nessun modo riflettere “la ricchezza del patrimonio informativo” richiamata dal Presidente Alleva. E forse il ridotto numero di informazioni che concorrono a definire i gruppi è anche la causa di alcuni risultati bizzarri come il gruppo delle anziane sole e giovani disoccupati… Non è chiaro poi se siano state fatte delle prove con altri metodi al fine di verificare la robustezza dei risultati ottenuti. Rimane certamente di valore il tentativo di innovare in un campo di indagine estremamente attuale. Un tentativo, evidentemente, giudicato troppo sovversivo da taluni.
Una volta individuati i gruppi, l’Istat propone una descrizione di diversi aspetti che li caratterizzano: le condizioni di salute, la partecipazione sociale e culturale, la partecipazione al mercato del lavoro. I risultati, tuttavia, appaiono per lo più trainati dalle variabili che incidono nella costruzione dei gruppi stessi.
Così emerge che i gruppi costituiti da famiglie con redditi più elevati e persone più istruite sono quelli con condizioni di salute migliore, con stili di vita più salutari, più elevati livelli di partecipazione sociale e culturale, una presenza più stabile e proficua sul mercato del lavoro… Niente di sorprendente, dunque.
Ma nelle pieghe del rapporto, lì dove si abbandona il tema dei gruppi, si scovano delle informazioni interessanti. Come la questione demografica con un numero di nascite sempre più basso sintesi di un tasso di fecondità bassissimo e di un progressivo ridursi del numero di donne in età fertile. Un declino demografico che non sembra più compensato, come un tempo, dai fenomeni migratori: il tasso di fecondità delle donne straniere sta rallentando e rallenta anche la crescita del numero di stranieri residenti.
Oppure il fatto che la partecipazione culturale sia in una fase di allarmante declino: partendo dal 34% del 2008, nel 2016 ha raggiunto il e superato il 37% la quota di persone con più di 6 anni che non partecipa in nessun modo alla vita culturale (questa quota è del 50% nelle famiglie a basso reddito con stranieri). Oltre il 25% del tempo libero è dedicato a guardare la TV (anche qui con delle differenze che rispecchiano la disponibilità di risorse e il titolo di studio: non si arriva al 25 per la classe dirigente mentre si supera il 30 per le famiglie a basso reddito), mentre meno del 5% è dedicato alla lettura o ad altre attività culturali.
Un altro passaggio interessante del Rapporto annuale dell’Istat è il tentativo di sottolineare come la crescita degli ultimi anni nei livelli di diseguaglianza sia rintracciabile nella forte crescita delle diseguaglianze che si generano sul mercato del lavoro e del capitale. Un passaggio, questo, che sembra suggerire, anche se non in maniera esplicitata nel rapporto (forza! un po’ di coraggio!), la necessità di impostare politiche pubbliche orientate, come auspicato da molti analisti, alla cosiddetta pre-distribution.
Così come sembra interessante l’accenno di analisi sull’influenza delle caratteristiche di impresa sui differenziali salariali che evidenzia il ruolo positivo del capitale umano e dell’innovazione sulla compressione salariale.
Insomma, un Rapporto annuale coraggioso, a tratti un po’ ingenuo ma al quale vale la pena dare un’occhiata.

martedì 13 giugno 2017

Italiani tartassati: Il nostro sistema fiscale è il più complesso del mondo

L’Italia è ai primi posti della graduatoria mondiale per complessità del sistema fiscale. Il nostro Paese affoga nella burocrazia fiscale. Siamo addirittura peggio di Vietnam e India. Nel redigere il Financial Complexity Index 2017, redatto dal Tmf Group, gli esperti hanno passato in rassegna 94 ordinamenti fiscali di Paesi europei, mediorientali, africani, asiatici e americani.
Nella top 10 globale il Paese con giurisdizione fiscale più complessa in generale (facendo una media dei risultati sulla base di 4 parametri) è la Turchia, a seguire il Brasile e poi l’Italia. In quarta posizione la Grecia, poi il Vietnam, la Colombia, la Cina, il Belgio, l’Argentina e l’India. Il posto con il sistema fiscale più semplice del pianeta è, ironia della sorte, un paradiso off shore: le Isole Cayman.
Entrando nel dettaglio dei singoli parametri, la Grecia risulta al primo posto per complessità degli adempimenti; l’Argentina è il paese con il peggiore sistema ai fini delle dichiarazioni fiscali; il Messico quello con maggiori problemi di contabilità e l’Italia quello con le tasse più complesse.
Ma perché quello italiano è il sistema fiscale più complesso in Europa? Secondo la ricerca, un handicap è rappresentato dall’obbligo di tenere la contabilità solo in italiano. Un’impresa straniera che vuole redigerlo in inglese, ad esempio, è costretto a tradurre un bilancio prima di depositarlo. Allo stesso modo, per il conto economico e per lo stato patrimoniale bisogna attenersi ai format prescritti dal Codice civile e, secondo Tmf, uno svantaggio è rappresentato anche dall’obbligo di esporre i rendiconti esclusivamente in euro. E poi ancora i troppi livelli di riscossione nazionale, regionale e comunale che genera tutta una serie di imposte.
Juraj Gerzeni, esperto di Tmf sull’Italia ha dichiarato: “Nonostante le misure introdotte per ridurre la tassazione e allineare le misure contabili alle regole internazionali, il Paese presenta ancora degli aspetti specifici che contribuiscono ad assegnargli il primo posto in Ue e il terzo al mondo per complessità del sistema fiscale”.

lunedì 12 giugno 2017

Quando è il dipendente a licenziarsi: secondo la Cgia è boom. Ecco perché

L’Ufficio studi della CGIA segnala che nell’ultimo anno i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo nel settore privato hanno registrato una crescita percentuale del 26,5 per cento.
Le altre tipologie di licenziamento, invece, non hanno presentato trend di crescita così importanti.
Se i licenziamenti totali sono saliti del 3,5 per cento, quelli per giustificato motivo oggettivo sono aumentati del 4,6 per cento e quelli per esodo incentivato, invece, sono addirittura crollati del 19 per cento.
Stante la leggera ripresa economica e l’aumento dell’occupazione in atto, questo orientamento fatica a trovare una giustificazione legata alle normali dinamiche esistenti tra i datori di lavoro e le proprie maestranze.
“Ad averne innescato l’ascesa – denuncia il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – è stata una cattiva abitudine che si sta diffondendo tra i dipendenti. Seppur in forte crescita, questo fenomeno presenta delle dimensioni assolute ancora contenute. Nell’ultimo anno, infatti, lo stock ha interessato 74.600 lavoratori. Se, comunque, seguiterà questa tendenza, è evidente che nel giro di qualche anno ci ritroveremo con numeri molto importanti”.
In buona sostanza, cosa è successo? Con l’introduzione della riforma Fornero, dal 2013 chi viene licenziato ha diritto all’ ASpI (indennità mensile di disoccupazione): una misura di sostegno al reddito con una durata massima di 2 anni che costringe l’imprenditore che ha deciso di lasciare a casa il proprio dipendente al pagamento di una “tassa di licenziamento”.
Se si verifica questa situazione, infatti, il datore di lavoro deve versare all’Inps una somma pari al 41 per cento del massimale mensile della NASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale maturata negli ultimi 3 anni.
Per una persona con un’anzianità lavorativa di almeno 3 anni, la tassa a carico dell’azienda può sfiorare i 1.500 euro.
IL SOSPETTO DI UN RAGGIRO
“Se una impresa contribuisce ad aumentare il numero dei disoccupati – dichiara il segretario della CGIA Renato Mason – provoca dei costi sociali che in parte deve sostenere. Negli ultimi tempi, però, la questione ha assunto i contorni di un raggiro a carico di moltissime aziende e anche dello Stato, perché un numero sempre più crescente di dipendenti non rispetta la norma e costringe gli imprenditori al licenziamento e, di conseguenza, fa scattare la Nuova ASpI (NASpI) in maniera impropria”.
Anche nel primo trimestre di quest’anno si registra la medesima tendenza con un incremento considerevole del +14,7 per cento (sullo stesso trimestre del 2016) dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Come mai avviene tutto ciò ?
Per “inerzia” del dipendente che in caso di dimissioni vuole evitare incombenze burocratiche e ottenere la NASpI. Non sono pochi coloro che negli ultimi tempi hanno deciso di non recarsi più al lavoro senza dare alcuna comunicazione al proprio titolare.
Essendo stata introdotta nel marzo del 2016 l’obbligatorietà delle dimissioni on-line, se il dipendente “diserta” la presenza in cantiere o in ufficio e non comunica telematicamente la volontà di starsene definitivamente a casa, l’interruzione del rapporto di lavoro la deve “avviare” il datore di lavoro attraverso il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo.
Procedura che, grazie alla legge Fornero, consente al lavoratore “scorretto” di ricevere la NASpI, misura che non gli spetterebbe, invece, nel caso di dimissioni volontarie.
“Questo astuto espediente – conclude Zabeo – sta creando un danno economico non indifferente. Non solo perché costringe il titolare dell’azienda a versare la tassa di licenziamento che, come dicevamo, può arrivare fino a 1.500 euro, ma anche alla collettività che deve farsi carico del costo della NASpI. Se quest’ultima viene erogata per tutti i 2 anni previsti dalla legge Fornero, il costo complessivo per le casse dell’Inps può arrivare fino a 20.000 euro a lavoratore”.
In buona sostanza, lo stratagemma si sta diffondendo e a conferma di questa tesi ci aiutano i dati relativi alle dimissioni volontarie rassegnate dai lavoratori dipendenti assunti a tempo indeterminato: tra il 2015 e il 2016 la contrazione è stata del 13,5 per cento.

venerdì 9 giugno 2017

Elezioni britanniche: Theresa May perde la scommessa

Theresa May perde la scommessa. Può cantare vittoria il Labour Party guidato da Jeremy Corbyn. Questo in estrema sintesi il risultato delle elezioni britanniche. Il Partito Conservatore resta primo partito ma perde 12 seggi mentre i laburisti ne guadagnano 31. Una rimonta insperata per il partito guidato da Jeremy Corbyn, che evidentemente con il suo discorso di rottura, anti-austerità, ha fatto breccia nell’elettorato britannico.
Nelle intenzioni di Theresa May queste elezioni dovevano servire a dare una maggioranza ancora più larga al Partito Conservatore per presentarsi con maggiore forza contrattuale al tavolo del negoziato per la Brexit. Mentre adesso si ritrova con un 'hung parlamient', ossia un parlamento in bilico.
Altro grande sconfitto di queste elezioni è l’ex primo ministro inglese Tony Blair, che ha fortemente osteggiato la linea di sinistra rappresentata da Jeremy Corbyn. L’outsider riuscito a riportare speranza ed entusiasmo in un partito che sembrava avviarsi mestamente verso una ineluttabile sconfitta di vaste proporzioni.
Un’ulteriore prova che il neoliberismo, specialmente a sinistra, ha fatto il suo tempo.
Corbyn ha parlato agli elettori dopo aver vinto il suo seggio di Islington North. Ha evidenziato il chiaro messaggio emerso da queste elezioni, affermando che i britannici ne hanno «abbastanza dell’austerità».
Il leader laburista, attraverso un tweet, ha inoltre affermato che le elezioni hanno «cambiato in meglio la politica» britannica.

giovedì 8 giugno 2017

Ocse: Italia crei tassa sulla casa

Nel segnalare che nel 2018 la crescita economica italiana sarà più fiacca di quest’anno, l’Ocse raccomanda anche alla terza forza dell’area euro di “introdurre tasse sugli immobili residenziali basate su revisioni degli estimi catastali”, che assieme alla prosecuzione della lotta all’evasione fiscale “farebbero aumentare il gettito e renderebbero le tasse più eque”.
Al tempo stesso, nel capitolo sull’Italia del suo Economic Outlook l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico rileva che ridurre i contributi farebbe aumentare l’occupazione, specialmente sulle posizioni a reddito e qualifiche più basse.
Secondo l’ente parigino bisognerebbe ampliare la base contributiva e ridurre le aliquote sui bassi redditi, in modo da rafforzare l’incentivo al lavoro e aumentare la progressività del sistema fiscale.
In generale l’Ocse ha ritoccato al ribasso le previsioni di crescita economica dell’Italia sul prossimo anno, stimando ora un Pil 2018 al +0,8% a fronte del +1% indicato lo scorso 7 marzo.
Confermata invece al più 1% la previsione di crescita sul 2017, nell’Economic Outlook semestrale presentato oggi a Parigi. Il tasso di disoccupazione dovrebbe diminuire solo marginalmente, dall’11,7 per cento del 2016 all’11,5 per cento nel 2017 e all’11,2 per cento nel 2018.
Allo stesso tempo, l’Ocse ha rivisto al rialzo la crescita per il Pil globale nel 2017 dal 3,3% indicato a marzo al 3,5% e mantiene la stima del 3,6% per il 2018, dopo il 3% del 2016.

mercoledì 7 giugno 2017

Voucher da riscattare

Hanno reintrodotto i voucher. Abrogati a marzo scorso i buoni lavorativi orari da riscuotere al tabacchino sono stati reintrodotti proprio nei giorni in cui si sarebbe dovuto tenere il referendum abrogativo voluto dalla Cgil su questi scontrini della prestazione lavorativa.
Hanno fatto Presto – questo il nome dei voucher reloaded – anzi, prestissimo, neanche due mesi per reintrodurli. Giusto il tempo utile a Renzi per rimettersi in sella alla guida della segreteria del Partito Democratico e per distogliere l'attenzione da quel furbone di Poletti. C'è dunque una prima considerazione da fare rispetto a questo 'fattaccio' che ha frantumato le velleità più battagliere (sic) della Camusso: c'è un processo di stabilizzazione politica dopo il referendum del 4 dicembre che mira a restaurare gerarchie e traiettorie di ristrutturazione capitalistica nel paese dopo una parziale frenata. Ma è tutto qua? No, certo. Si tratta di un processo non liscio entro il quale le contraddizioni del No si possono amplificare dentro nuove possibili dimensioni sociali di rigetto dell'autocrazia democratica. Su come organizzare questo terreno va però osservato in primo luogo che un velo è caduto: la vendetta per questo raggiro non spetterà alla sinistra. La crociata contro i voucher della Cgil è stata dribblata sabotandone il referendum, questo basta per far scadere a rottoppo la mobilitazione indetta per il 17 giugno in piazza san Giovanni: #schiaffoallademocrazia. Ma è proprio il senso della democrazia che non può essere riscattato senza che venga trovata la forza per imporre la volontà popolare così come il senso del lavoro non può essere riconosciuto come rapporto antagonista di sfruttamento (chiediamo troppo?), se si continua a scambiarne la forma attuale per il suo simulacro. Insomma, non sarà rivendicando le tutele del lavoro subordinato contro la giungla deregolamentata dei nuovi ticket che si produrranno nuove garanzie. Non sarà la sinistra che difende il Lavoro che ci spiegherà come lottare contro questo lavoro straccione e il suo sfruttamento.
Le ragioni sono molteplici. C'è innanzitutto una conformazione del mercato del lavoro che di fatto non può fare a meno dei voucher. Gli idealisti (o gli ideologici?) ingoino il rospo. La questione di come sia più opportuno sottrarre al nero quote di lavoro occasionale, tramite voucher o meno, è un artificio retorico che distoglie l'attenzione dal vero nodo della questione: il 90% delle aziende del paese ha meno di cinque dipendenti e i nuovi ticket potranno essere usati da aziende fino a un massimo di cinque dipendenti assunti a tempo indeterminato. Il fatto che il sistema Italia non abbia potuto affrontare neanche una singola stagione turistica senza i ticket-lavoro dà la cifra di quanto questa forma di retribuzione iper-precaria corrisponda alla formalizzazione giuridica della liquefazione oggettiva del mercato del lavoro del nostro paese più che a un attacco a forme di garanzie ormai inaccessibili ai più. A questa fluidità del rapporto lavorativo naturalmente ricercato dal capitale corrisponde però, e qui il il segreto di pulcinella, anche una accettazione da parte nostra di questo strumento, o meglio l'adeguamento di comportamenti proletari ai rapporti di sfruttamento vigenti. Tutti proni e sconfitti? No, alienati ma non alieni. Abitiamo il presente, lo detestiamo ma vogliamo spremerlo nelle forme in cui ci si presenta per avere indietro quello che ci spetta. Non ci è concesso sognare altri mondi quando siamo condannati a vivere questo. Sarebbe interessante analizzare quanti giovani o quanti voucheristi abbiano effettivamente firmato per il referendum della CGIL, ma è facile immaginare che a sostenere la consultazione contro il jobs act sia stato chi ha conosciuto un’altra fase dei rapporti di lavoro. Mentre i parrucconi del sindacato festeggiavano la vittoria a tavolino, intorno a noi abbiamo visto tanti amici perdere semplicemente il lavoro a seguito dell’abolizione dei voucher e la fine (provvisoria) di questa forma contrattuale. Perché, a bocce ferme, alla fine dei voucher non corrisponde il contratto ma il nulla. In un sistema capitalistico non esiste l’oggettività esterna del capitale davanti alla soggettività proletaria. L’attuale precarizzazione del mercato del lavoro a cui si riferisce il PD per giustificare la reintroduzione di forme contrattuali iper-precarie descrive sicuramente più realtà del mondo delle favole sindacali. Ciò che non dicono è però che essa è il fedele riflesso del livello di subordinazione soggettiva raggiunta dal lavoro vivo. Come scriveva tempo fa un ormai senatore del Partito Democratico, prima viene la classe, poi il capitale.
Proprio da qui, dalla necessità di (ri-)creare dei livelli d’insubordinazione che si gioca la partita. Pensare che una scorciatoia giuridica possa cambiare anche di una virgola quel rapporto di subordinazione che si chiama lavoro salariato è prendere l’involucro del diritto per il contenuto effettivo del rapporto tra capitale e lavoro. Quel rapporto è sempre rapporto di forza e quindi, in quanto tale, oggi completamente sbilanciato a favore del nostro nemico che ci leva giornate intere, salute e vita per una miseria. Mettendo le cose nella giusta prospettiva la forma voucher ne è un mero riflesso e quindi, di per sé, ininfluente. In maniera spregiudicata, la voucherizzazione rappresenta, anzi, il livellamento formale di un rapporto di lavoro già oggettivamente precario. Si tratta di un potenziale campo di battaglia. Chissà, ad esempio, quanti giovani vorrebbero poter decidere cosa fare di quei 2,5€ dei 10€ di tasse destinati a pagare le pensioni di un’ipertrofica terza età che vive oggi sulle loro spalle senza che alcun tipo di futuro venga neanche più promesso loro?
Le nostre aspirazioni devono ambire a organizzare terreni di conflitto a questa altezza, ma non siamo ingenui sognatori. Una volta di più viviamo l'oggi prima di tutto, nella sua urgenza e nell'immediato la questione voucher rappresenta un simbolo. Quello della prepotenza e della provocazione politica che catalizza un orizzonte ampio di rivalsa. I simboli o si giocano nella loro politicità o scadono nella rappresentazione. Non è difficile vedere, da mesi, cosa ha scelto la CGIL. Invece di giocare di rilancio sull’onda del NO referendario, ha accolto con sollievo la bocciatura del quesito sull’articolo 18 prima e l’abolizione farlocca dei voucher poi, nella consapevolezza che, per garantire la co-gestione di un esistente che garantisce la sua stessa sopravvivenza, non bisognava evitare il risultato ma lo scontro. Oggi, a fronte di una provocazione sfacciata, convoca per il 17 giugno una piazza deprimente, una kermesse non contro i voucher ma in favore del referendum sui voucher, facendo dei buoni lavoro una questione di democrazia invece che un simbolo dello sfruttamento. C'è una generazione stanca di portare sulle spalle il '900 di questo sindacato, stanca degli affronti della politica, affamata di denaro e ambiziosa di futuro

lunedì 5 giugno 2017

Il patto faustiano dell’Europa con l’alta finanza

Hai esaminato attentamente come si è sviluppata in diverse parti del mondo la crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Che cosa ha in comune la crisi finanziaria in Europa con quella negli Stati Uniti?
Un fattore comune negli Stati Uniti e in Europa è stato il capitale finanziario non regolato, non disciplinato. All’inizio le banche europee, tra cui le banche tedesche, hanno acquistato enormi quantità di titoli tossici subprime e in conseguenza hanno visto gravemente compromessi i propri bilanci e, nel caso di molte, hanno dovuto essere salvate dai loro governi.
Secondo, le banche europee si sono date agli stessi incontrollati finanziamenti a imprese immobiliari, creando così una grande bolla in luoghi come il Regno Unito, l’Irlanda e la Spagna.
Un altro fattore comune è stato che i paesi europei avevano anche adottato una normativa della “mano leggera”, sotto l’influenza di Wall Street e di teorie neoliberiste come la cosiddetta “ipotesi del Mercato Efficiente”, che affermava che i mercati finanziari, lasciati a sé stessi, avrebbero condotto all’allocazione più efficiente del capitale. Persino le autorità tedesche sono state sotto l’incantesimo di tali dottrine cosicché sono state colte di sorpresa dalla grande esposizione delle loro banche a titoli tossici subprime e ad alti rischi di credito come la Grecia.
E che cosa è stato unico o particolare nella crisi europea che l’ha distinta da quella degli Stati Uniti?
La cosa principale che ha distinto la crisi in Europa da quella negli USA è stata la complicazione introdotta da 19 stati con una moneta comune senza un’unione fiscale o politica. D’altro canto l’euro ha dato ai prestatori l’illusione che il rischio di credito delle economie più deboli fosse praticamente lo stesso di quello delle economie più forti, incoraggiandoli a prestare alle prime senza la dovuta diligenza. D’altro canto essere nell’eurozona ha gravemente limitato le scelte di un paese di riprendersi poiché ha eliminato la svalutazione come mezzo per muovere un’economia da un deficit a un surplus commerciale. L’euro è diventato una gabbia dorata in cui le economie più deboli sono state condannate a una stagnazione a lungo termine.
Quale è stato il ruolo della Germania nella crisi finanziaria? Come hanno influenzato le politiche tedesche ciò che è accaduto, ad esempio, in Grecia?
La Germania ha avuto un ruolo centrale nella generazione della crisi. Innanzitutto le riforme neoliberiste chiamate Riforme Hartz, attuate dal governo socialdemocratico agli inizi del nuovo millennio, hanno reso il lavoro tedesco relativamente a basso costo rispetto ai vicini. Ciò ha trasformato molte altre nazioni europee in paesi a deficit nel loro rapporto commerciale con la Germania. Per coprire i loro deficit, così come per sostenere misure di sicurezza sociale per i rimossi dalle esportazioni tedesche, i governi di tali paesi, come la Grecia, si sono indebitati pesantemente con banche tedesche.
Secondo, non trattenute da istituzioni presunte serie del governo tedesco come la Bundesbank, le banche tedesche non si sono comportate con la dovuta diligenza nei confronti di debitori come la Grecia e hanno prestato avventatamente somme enormi. L’esposizione tedesca nei confronti della Grecia è arrivata a circa 25 miliardi di euro, inducendo Barry Eichengreen, un esperto finanziario di spicco, a commentare che ciò che era in gioco “non era solo la solvibilità del governo greco, bensì la stabilità del sistema finanziario tedesco”.
Terzo, rifiutando di riconoscere la responsabilità delle proprie banche e scaricando la colpa interamente sulla Grecia e su altri paesi debitori, la Germania ha ostinatamente dettato le politiche di austerità che la Grecia e altri paesi sono stati costretti ad adottare. Tali politiche sono intese a recuperare il grosso dei prestiti fatti da banche tedesche. Persino il FMI riconosce che queste politiche di austerità semplicemente condannano la Grecia e i paesi dell’Europa meridionale a una stagnazione a lungo termine, ma la Germania insiste per avere la sua libbra di carne e questo può solo finire col promuovere la diffusione di movimenti populisti di destra antieuropei.
Dunque che dire della narrazione convenzionale che afferma che la crisi greca è stata innescata dalla rivelazione nel 2009 che il governo aveva manipolato i conti?
Beh, va considerato che nel 2007, due anni prima dello scandalo delle statistiche, il tango dei frenetici prestiti di banche tedesche e francesi di indebitamento da tossicodipendenza da parte del governo e delle banche private greche aveva già spinto il debito greco a 290 miliardi di euro, che era il 107 per cento del PIL. Tuttavia la Grecia era ancora considerata un buon rischio creditizio.
Ciò che ha reso diversa la situazione nel 2009 è stata la diffusione della crisi finanziaria globale arrivata da Wall Street in Europa, con banche al collasso o salvate dai governi. La ricaduta di Wall Street ha fatto preoccupare i paesi creditori che i prenditori privati nei paesi debitori non fossero in grado di rimborsare i loro prestiti. Così hanno premuto su governi come la Grecia, il cui governo era già fortemente indebitato, perché assumessero anche la responsabilità del debito del settore privato o lo nazionalizzassero. Questa conversione del debito privato in un passivo statale ha trasformato la crisi finanziaria in Europa in una crisi del debito sovrano. La manipolazione statistica ha operato principalmente come scusa per i governi creditori per un giro di vite sugli stati debitori.
Tu citi l’affermazione di Joseph Stiglitz che l’euro è solo un esperimento durato diciassette anni, mal progettato e destinato a non funzionare. Significa che ritieni che l’euro non sopravvivrà?
Come ho detto in precedenza, il problema dell’eurozona è che è un’unione monetaria che non ha i requisiti necessari di un’unione fiscale e politica che fisserebbe le regole e i meccanismi per consentire alle autorità centrali di trasferire capitale da regioni in surplus a regioni in deficit. Oggi ci sono solo due modi per risolvere gli squilibri commerciali all’interno dell’eurozona. Uno è la svalutazione interna, cioè l’adozione di dure politiche di austerità che ridurrebbero il costo del lavoro e renderebbero competitive le esportazioni di un paese in deficit; questo comporta il rischio di sottoporre un paese a una stagnazione a lungo termine a causa della forte riduzione della domanda effettiva. L’altro modo consiste semplicemente nel prendersi su e andarsene, lasciare l’eurozona e adottare una nuova moneta il valore della quale sarebbe basso rispetto all’euro, rendendo così “competitive” le esportazioni di un paese. Non sorprendentemente questo comporterebbe anche il rischio di comprimere la domanda effettiva nell’economia debitrice. Tuttavia la seconda opzione consentirebbe molto maggiore spazio di manovra che l’essere intrappolati in un matrimonio senza amore, depresso, come l’eurozona.
Così, secondo me, i paesi dell’eurozona hanno di fronte la scelta o di passare a un’unione fiscale e politica completa, il che renderebbe i trasferimenti finanziari in larga misura una questione di fondi attivati automaticamente per fluire da aree in surplus ad aree in deficit in un’economia pienamente unificata, come negli Stati Uniti, oppure chiudere l’unione monetaria. La mia sensazione è che non esiste una via di mezzo.
Quale diresti sia stato il ruolo della socialdemocrazia nella crisi?
La socialdemocrazia è profondamente implicata nella crisi. Mentre Margaret Thatcher è divenuta il volto del neoliberismo, i socialdemocratici hanno avuto un ruolo molto centrale nel premere misure neoliberiste in tutta Europa. Il New Labour ha promosso la liberalizzazione della finanza e la mano leggera con le regole nel Regno Unito con Gordon Brown, dapprima come cancelliere e poi come primo ministro diventando in conseguenza, come ha scritto un giornalista, “mitizzato” dalla City.
Francois Mitterand e i socialisti francesi sono stati i principali campioni dell’euro, in quello che l’ex ministro greco delle finanze [ ‘degli esteri’ nell’originale – n.d.t.] Yanis Varoufakis descrive come un progetto francese per imbrigliare la potenza economica tedesca nell’integrazione europea sotto la guida politica e amministrativa francese.
E in Germania è stato sotto il governo socialdemocratico di Gerard Schroeder che sono state attuate le “riforme” del mercato del lavoro che hanno ridotto i salari e consolidato la posizione della Germania come paese in surplus e i suoi vicini come paesi in deficit, costringendoli a dipendere dalle banche tedesche per coprire i loro deficit commerciali. Il partito Cristiano Democratico non avrebbe potuto fare quello che hanno fatto i socialdemocratici, ma Angela Merkel e i conservatori hanno finito per mangiare quanto servito dal SPD.
La crisi finanziaria in Europa poteva essere evitata e, se sì, come?
Sì, avrebbe potuto essere evitata se ci fossero state regole stringenti di controllo della finanza poste in essere da governi che non considerassero il capitale finanziario come un partner, bensì come una forza da disciplinare. La finanza deve essere messa al proprio posto di meccanismo per ottenere capitale da quelli che lo detengono per quelli che possono applicarlo a un uso produttivo. Sempre più sembra come se solo un sistema bancario nazionalizzato possa adempiere appropriatamente questa funzione. Detto questo, io condiviso l’apprensione dell’economista statunitense Hyman Minsky che fintanto che regna il capitalismo il capitale finanziario troverà modi per adeguarsi a regole governative per darsi nuovamente a prestiti spericolati.
Siamo fuori pericolo ora oppure c’è una possibilità che possa accadere di nuovo?
No, non siamo fuori pericolo, perché la riforma del settore finanziario, spinta nel seguito immediato della crisi finanziaria, è stata inefficace o non attuate a causa dei riusciti sforzi di lobby delle imprese finanziarie.
Il capitale finanziario resta non disciplinato. Nel frattempo, a causa delle politiche di austerità, la maggior parte dell’economia reale dell’Europa è nella morsa di una stagnazione permanente. Ciò determina la tentazione per il capitale finanziario non regolato di dedicarsi nuovamente ad avventure speculative, in cui si spreme valore da valore già creato mediante la creazione di bolle che sono destinate a scoppiare, portando di nuovo caos nella loro scia.