Mentre il Partito Democratico alle ultime elezioni amministrative
sembra aver raccolto voti solo nei centri storici, la sua base storica,
quella meno salottiera, è sempre più lontana e lo sfondamento al centro
che aveva permesso di superare alle elezioni europee del 2014 la soglia
del 40% è ormai un ricordo sbiadito. Il consenso della prima fase si
sta sgretolando in modo lento ma costante ma è l’azione di governo nel
suo complesso, sia per l’inefficacia delle proposte che per una retorica
che inizia già ad essere stantia, ad aver perso energia e capacità
d’aggregazione.
Non può quindi stupire un certo nervosismo del nostro Premier stretto tra un partito che di questo passo presto avrà più aspiranti segretari che iscritti e la spada di Damocle del referendum costituzionale del prossimo autunno, improvvidamente trasformato dallo stesso Renzi in un referendum sulla sua persona, avendo questi annunciato che in caso di esito negativo non solo darà le sue dimissioni da capo del governo ma abbandonerà addirittura la vita politica. Consigliamo di non puntare grosse cifre su questa seconda ipotesi. Dubitiamo infatti che Renzi ci priverà della sua presenza nell’agone negli anni a venire ma i sondaggi e la situazione politica attuale rendono realistica l’ipotesi di una fine prematura della legislatura o quantomeno di questa esperienza di governo. Questa debolezza manifestata all’ultima tornata elettorale fa sì che le forze di opposizione vedano nel referendum il momento della resa dei conti con il governo, e lo stesso centro destra nave senza nocchier e in gran tempesta dopo aver tergiversato per molti mesi su posizioni benevolmente ambigue nei confronti del progetto di riforme, sembra indirizzato a un’opposizione non solo di facciata. D’altra parte gli amici, quelli veri, si vedono nel momento del bisogno e Renzi di questi tempi sembra averne ogni giorno di meno, con molti che ancora tacciono in attesa di vedere se la nave reggerà o se sarà il caso di salire su qualche scialuppa di salvataggio.
Tralasciando i soliti distinguo che si levano dall’opposizione interna al partito democratico e il no pronunciato in tempi non sospetti dall’ANPI, la stessa CGIL cautissima, come la flotta austriaca di buccariana memoria, in questi anni di smantellamento dello stato sociale e di asservimento a politiche di rigore, sembra rialzare la testa, sempre con la dovuta cautela s’intende, formulando un giudizio critico sulle modalità polarizzanti con cui è stato proposto il quesito referendario, nella sostanza una bocciatura pur senza esprimere una posizione ufficiale né dare indicazioni di voto ai suoi iscritti.
Ora che sembra alla mercé dell’avversa fortuna a correre in suo aiuto arriva la grande industria italiana, certo memore della sua dichiarazione d’affetto, quando ancora sindaco di Firenze disse: sto dalla parte di Marchionne senza se e senza ma…, per la quale oggi sembra valere la proprietà commutativa. A dare il la all’operazione di endorsment è Emma Marcegaglia, già presidente di Confindustria e ora alla guida dell’ENI nominata dallo stesso Renzi nel maggio 2014, che a conclusione di un convegno di giovani imprenditori dichiara d’essere “completamente favorevole alle riforme, un’occasione che non possiamo perdere”. L’autorevole parere della Marcegaglia è stato poi confermato dal consiglio generale di Confindustria che motiva il sì alle riforme in quattro punti:
il superamento del bicameralismo paritario, che significa più stabilità e governabilità. I Governi potranno assumere decisioni nell’interesse generale, senza guardare al consenso di brevissimo periodo, ma pensando al benessere dei cittadini;
il miglioramento della qualità dell’attività legislativa, che significa riduzione del time to market delle politiche pubbliche;
la semplificazione e la modernizzazione dei rapporti tra i diversi livelli di governo, che significa maggiore collaborazione tra Stato e autonomie e superamento della logica dei veti;
4. l’introduzione di misure di efficientamento della finanza pubblica, che significa soprattutto maggiore controllo sulla quantità e qualità della spesa degli enti regionali e locali.
A sostegno di queste valutazioni, il centro studi di Confindustria ha prodotto una serie di previsioni economiche sulle conseguenze della bocciatura del progetto di riforma costituzionale: paese in recessione dal 2017 con una perdita complessiva del PIL del 4%, 600.000 posti di lavoro in meno, 430.000 poveri in più, un sobrio -17% sugli investimenti e calate di lanzichenecchi sul patrio suolo. Numeri di questo tipo, considerando l’affidabilità delle previsioni economiche in questi anni, hanno lo stesso valore della lettura dei fondi di caffè, tra l’altro è noto che centro studi di Confindustria non azzecca una previsione sull’andamento del Pil dal 2008 per esempio, ma il loro utilizzo rimane necessario per nascondere posizioni di tipo ideologico giustificandole sotto il velo di un’illusoria razionalità quantitativa.
E’ interessante notare accanto a motivazioni di propaganda, controllo della spesa pubblica e semplificazione sono poste a sostegno di programmi di riforma dai tempi di Giolitti, altre che sono strutturali al pensiero confindustriale e a cui non possiamo che porre una ferma opposizione in quanto sostanzialmente antidemocratiche. Il primo punto nel momento in cui pone la stabilità a garanzia di decisioni che mirino al benessere dei cittadini senza essere influenzate dal consenso, nel migliore dei casi ha il sapore di un paternalismo peloso, sostenere che il popolo non sia in grado d’indirizzare il proprio voto la dove ci sia garanzia di un esercizio del potere nel suo interesse sottende alla convinzione che tale presunto interesse debba essere perseguito in sua vece, non avendo quest’ultimo sufficienti capacità di azione razionale per poterlo fare in proprio. Questo pensiero, molti sedicenti intellettuali hanno spudoratamente e pubblicamente espresso nel dibattito post-Brexit, è ribadito nel secondo punto: la qualità dell’attività legislativa coincide con una velocizzazione del iter procedurale. Velocizzazione per rispondere ovviamente alle esigenze del mercato che diventa il fine ultimo, trasformando la qualità in quantità e velocità, mentre il contenuto e il fine delle leggi passa in secondo piano proprio perché l’universo monodimensionale del capitale non è ideologicamente compatibile con iniziative legislative contrarie al suo dominio e alla sua razionalità. Rousseau diceva che la democrazia può esistere dove nessuno è così ricco da comprare un altro e nessuno così povero da vendersi, e questa è una verità necessariamente in contrasto con un sistema fautore di disuguaglianze. Rimane ironico e di sapore Orwelliano che sia proprio un partito che si definisce democratico ad essere il principale interlocutore di questo progetto.
Certo accanto a queste ragioni esplicite ce ne potrebbero essere altre ora nascoste, quello che possiamo concludere dopo un appoggio così palese, è che Confindustria ritiene il governo Renzi fondamentale e al momento insostituibile per il raggiungimento dei suoi fini politici ed economici. Questa apertura di credito è necessaria al Governo per mantenersi in linea di galleggiamento rendendo ancora possibile la vittoria referendaria, sia per il controllo sui mezzi di comunicazione tradizionale esercitato da questa tipologia di portatori d’interessi, sia per la capacità di parlare e d’influenzare quella parte di cosiddetti elettori di centro e di destra che potrebbero appoggiare il progetto di riforma costituzionale. Renzi si muove su un crinale sottile e scivoloso, se da un lato ha la necessità di ottenere voti e appoggi al di là del suo partito e dall’altra questo suo esplicitare la natura intrinsecamente organica al capitale della sinistra italiana, cosa che la rende strutturalmente indistinguibile dalla destra, sta sfaldando la falsa coscienza necessaria alla coesione a alla mobilitazione elettorale dei propri gruppi sociali di riferimento.
Da queste parti riteniamo probabile una vittoria del NO al referendum, seguita da una fase d’instabilità politica dagli esiti difficilmente prevedibili ma che è ragionevole pensare possano coincidere con un peggioramento della situazione economica complessiva. Eisenhower diceva che chi mette i propri privilegi davanti ai propri valori è presto destinato a perdere entrambi. Bene ricordarlo a chi, spinto da ragioni di realpolitk, fosse tentato di sbarrare il Sì sulla scheda elettorale.
Non può quindi stupire un certo nervosismo del nostro Premier stretto tra un partito che di questo passo presto avrà più aspiranti segretari che iscritti e la spada di Damocle del referendum costituzionale del prossimo autunno, improvvidamente trasformato dallo stesso Renzi in un referendum sulla sua persona, avendo questi annunciato che in caso di esito negativo non solo darà le sue dimissioni da capo del governo ma abbandonerà addirittura la vita politica. Consigliamo di non puntare grosse cifre su questa seconda ipotesi. Dubitiamo infatti che Renzi ci priverà della sua presenza nell’agone negli anni a venire ma i sondaggi e la situazione politica attuale rendono realistica l’ipotesi di una fine prematura della legislatura o quantomeno di questa esperienza di governo. Questa debolezza manifestata all’ultima tornata elettorale fa sì che le forze di opposizione vedano nel referendum il momento della resa dei conti con il governo, e lo stesso centro destra nave senza nocchier e in gran tempesta dopo aver tergiversato per molti mesi su posizioni benevolmente ambigue nei confronti del progetto di riforme, sembra indirizzato a un’opposizione non solo di facciata. D’altra parte gli amici, quelli veri, si vedono nel momento del bisogno e Renzi di questi tempi sembra averne ogni giorno di meno, con molti che ancora tacciono in attesa di vedere se la nave reggerà o se sarà il caso di salire su qualche scialuppa di salvataggio.
Tralasciando i soliti distinguo che si levano dall’opposizione interna al partito democratico e il no pronunciato in tempi non sospetti dall’ANPI, la stessa CGIL cautissima, come la flotta austriaca di buccariana memoria, in questi anni di smantellamento dello stato sociale e di asservimento a politiche di rigore, sembra rialzare la testa, sempre con la dovuta cautela s’intende, formulando un giudizio critico sulle modalità polarizzanti con cui è stato proposto il quesito referendario, nella sostanza una bocciatura pur senza esprimere una posizione ufficiale né dare indicazioni di voto ai suoi iscritti.
Ora che sembra alla mercé dell’avversa fortuna a correre in suo aiuto arriva la grande industria italiana, certo memore della sua dichiarazione d’affetto, quando ancora sindaco di Firenze disse: sto dalla parte di Marchionne senza se e senza ma…, per la quale oggi sembra valere la proprietà commutativa. A dare il la all’operazione di endorsment è Emma Marcegaglia, già presidente di Confindustria e ora alla guida dell’ENI nominata dallo stesso Renzi nel maggio 2014, che a conclusione di un convegno di giovani imprenditori dichiara d’essere “completamente favorevole alle riforme, un’occasione che non possiamo perdere”. L’autorevole parere della Marcegaglia è stato poi confermato dal consiglio generale di Confindustria che motiva il sì alle riforme in quattro punti:
il superamento del bicameralismo paritario, che significa più stabilità e governabilità. I Governi potranno assumere decisioni nell’interesse generale, senza guardare al consenso di brevissimo periodo, ma pensando al benessere dei cittadini;
il miglioramento della qualità dell’attività legislativa, che significa riduzione del time to market delle politiche pubbliche;
la semplificazione e la modernizzazione dei rapporti tra i diversi livelli di governo, che significa maggiore collaborazione tra Stato e autonomie e superamento della logica dei veti;
4. l’introduzione di misure di efficientamento della finanza pubblica, che significa soprattutto maggiore controllo sulla quantità e qualità della spesa degli enti regionali e locali.
A sostegno di queste valutazioni, il centro studi di Confindustria ha prodotto una serie di previsioni economiche sulle conseguenze della bocciatura del progetto di riforma costituzionale: paese in recessione dal 2017 con una perdita complessiva del PIL del 4%, 600.000 posti di lavoro in meno, 430.000 poveri in più, un sobrio -17% sugli investimenti e calate di lanzichenecchi sul patrio suolo. Numeri di questo tipo, considerando l’affidabilità delle previsioni economiche in questi anni, hanno lo stesso valore della lettura dei fondi di caffè, tra l’altro è noto che centro studi di Confindustria non azzecca una previsione sull’andamento del Pil dal 2008 per esempio, ma il loro utilizzo rimane necessario per nascondere posizioni di tipo ideologico giustificandole sotto il velo di un’illusoria razionalità quantitativa.
E’ interessante notare accanto a motivazioni di propaganda, controllo della spesa pubblica e semplificazione sono poste a sostegno di programmi di riforma dai tempi di Giolitti, altre che sono strutturali al pensiero confindustriale e a cui non possiamo che porre una ferma opposizione in quanto sostanzialmente antidemocratiche. Il primo punto nel momento in cui pone la stabilità a garanzia di decisioni che mirino al benessere dei cittadini senza essere influenzate dal consenso, nel migliore dei casi ha il sapore di un paternalismo peloso, sostenere che il popolo non sia in grado d’indirizzare il proprio voto la dove ci sia garanzia di un esercizio del potere nel suo interesse sottende alla convinzione che tale presunto interesse debba essere perseguito in sua vece, non avendo quest’ultimo sufficienti capacità di azione razionale per poterlo fare in proprio. Questo pensiero, molti sedicenti intellettuali hanno spudoratamente e pubblicamente espresso nel dibattito post-Brexit, è ribadito nel secondo punto: la qualità dell’attività legislativa coincide con una velocizzazione del iter procedurale. Velocizzazione per rispondere ovviamente alle esigenze del mercato che diventa il fine ultimo, trasformando la qualità in quantità e velocità, mentre il contenuto e il fine delle leggi passa in secondo piano proprio perché l’universo monodimensionale del capitale non è ideologicamente compatibile con iniziative legislative contrarie al suo dominio e alla sua razionalità. Rousseau diceva che la democrazia può esistere dove nessuno è così ricco da comprare un altro e nessuno così povero da vendersi, e questa è una verità necessariamente in contrasto con un sistema fautore di disuguaglianze. Rimane ironico e di sapore Orwelliano che sia proprio un partito che si definisce democratico ad essere il principale interlocutore di questo progetto.
Certo accanto a queste ragioni esplicite ce ne potrebbero essere altre ora nascoste, quello che possiamo concludere dopo un appoggio così palese, è che Confindustria ritiene il governo Renzi fondamentale e al momento insostituibile per il raggiungimento dei suoi fini politici ed economici. Questa apertura di credito è necessaria al Governo per mantenersi in linea di galleggiamento rendendo ancora possibile la vittoria referendaria, sia per il controllo sui mezzi di comunicazione tradizionale esercitato da questa tipologia di portatori d’interessi, sia per la capacità di parlare e d’influenzare quella parte di cosiddetti elettori di centro e di destra che potrebbero appoggiare il progetto di riforma costituzionale. Renzi si muove su un crinale sottile e scivoloso, se da un lato ha la necessità di ottenere voti e appoggi al di là del suo partito e dall’altra questo suo esplicitare la natura intrinsecamente organica al capitale della sinistra italiana, cosa che la rende strutturalmente indistinguibile dalla destra, sta sfaldando la falsa coscienza necessaria alla coesione a alla mobilitazione elettorale dei propri gruppi sociali di riferimento.
Da queste parti riteniamo probabile una vittoria del NO al referendum, seguita da una fase d’instabilità politica dagli esiti difficilmente prevedibili ma che è ragionevole pensare possano coincidere con un peggioramento della situazione economica complessiva. Eisenhower diceva che chi mette i propri privilegi davanti ai propri valori è presto destinato a perdere entrambi. Bene ricordarlo a chi, spinto da ragioni di realpolitk, fosse tentato di sbarrare il Sì sulla scheda elettorale.
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