Secondo l'ultimo rapporto annuale dell'Istat – cui faremo ampio
riferimento in questa analisi - nel 2014 più di 6 giovani su 10 di età
compresa tra i 18 e 34 anni vive ancora in casa dei genitori, il 62.5%
del totale, in aumento rispetto agli anni precedenti. Vengono
generalmente definiti "bamboccioni". Un termine, questo, ormai divenuto
canonico nel linguaggio mediatico e tuttavia assai spregiativo, che ci
allontana dalla reale comprensione delle radici del fenomeno e che
denota soltanto una vergognosa arroganza padronale. Insomma, affermare
aprioristicamente che "i giovani d'oggi non hanno voglia di lavorare" o
che "in Italia e nei paesi mediterranei i vincoli familiari sono più
forti" non fornisce una spiegazione convincente ed esaustiva. Per averla
dobbiamo anzitutto analizzare il contesto sociale italiano nel quale la
classe lavoratrice è stritolata in una morsa sempre più violenta dalla
precarietà, dalla diminuzione dei salari, dalla povertà, dalla crescita
delle disuguaglianze e dalla disoccupazione.
Bisogna innanzitutto focalizzarsi sugli effetti che le dinamiche del mercato del lavoro, in pesante contrazione a partire dal 2008 nonostante una recente e assai stentata "ripresa", stanno avendo sulle famiglie, il nucleo sociale di base. Nelle famiglie con almeno un componente in età lavorativa e senza pensionati, i cui redditi generalmente forniscono un aiuto in più in caso di difficoltà, l'esposizione alla vulnerabilità economica è determinata dalla presenza o assenza di occupati e dalla loro numerosità. Ebbene, dai dati Istat emerge che i nuclei familiari italiani sono stati colpiti in maniera particolarmente dura e violenta dalle conseguenze della crisi. Infatti le famiglie jobless, quelle più fragili perché prive di redditi da lavoro, sia monocomponenti sia composte da più persone, sono aumentate passando dal 9.4% del 2004 al 14.2% del 2015. Stiamo parlando di oltre 2 milioni di famiglie senza lavoro. E tale incremento ha riguardato in misura maggiore le famiglie giovani rispetto a quelle adulte: mentre per queste ultime l'incidenza è aumentata dal 12.7 al 15.1%, per le prime è raddoppiata passando dal 6.7 al 13%. Sono i minori che vivono nelle famiglie in cui sono presenti disoccupati, precari o lavoratori part time a pagare le conseguenze più pesanti di tutto ciò: l'indice di povertà relativa tra i minori infatti è passato dall'11-12% del 2011 al 19% del 2014. La loro condizione dunque è in netto peggioramento. Come è facile intuire diminuiscono le famiglie pluricomponenti economicamente più solide, ovvero quelle in cui sono presenti due o più occupati, che passano dal 45.1% del 2004 al 37.3% del 2015, mentre quelle con un unico occupato nello stesso arco temporale scendono dal 31.4 al 29.3%. La situazione è differenziata a livello territoriale poiché nelle zone svantaggiate, il Mezzogiorno in particolare, gli effetti della crisi sono drammaticamente accentuati a causa delle difficoltà già presenti. Qui infatti, dove già nel 2004 erano assai più diffuse, le famiglie senza lavoro toccano nel 2015 il 24.5% del totale, contro l'8.2% delle regioni del Nord e l'11.2% del Centro. La riduzione delle famiglie con due o più componenti occupati, dati i valori di partenza molto più bassi, al Sud è più marcata: da una famiglia su tre ad appena una su quattro. La situazione qui descritta si ripresenta anche per quanto riguarda le famiglie single: alla riduzione degli occupati corrisponde un forte aumento di coloro che sono privi di redditi da lavoro. Permangono anche in questo caso le forti differenze geografiche, dal momento che al Sud la quota di single senza lavoro è il doppio rispetto a quella del Nord (rispettivamente 41.4 e 17.4%). Nel complesso si più dire che la crisi del 2008 ha accentuato quei processi, comunque già in atto, quali la riduzione delle famiglie con redditi "sicuri" e l'aumento di quelle caratterizzate da una più o meno forte vulnerabilità economica (2).
Nel mercato del lavoro italiano negli ultimi 2 decenni, a seguito di tutta una serie di riforme il cui culmine è rappresentato dal recente Jobs Act, è stata condotta una sistematica opera di precarizzazione dei contratti, che si fanno più instabili, meno pagati e meno protetti, accompagnata dalla progressiva riduzione delle tutele e da un sempre più violento attacco ai diritti dei lavoratori. Le maggiori conseguenze sono pagate sopratutto sopratutto dai giovani. In effetti, sempre secondo i dati Istat (3), sono sopratutto coloro che sono nati dopo il 1970 a risentire delle condizioni lavorative sempre più sfavorevoli: per essi l'occupazione standard diminuisce rapidamente (dall'84.3 al 75.4% tra 2004 e 2015), mentre la percentuale di contratti atipici è in crescita (dal 9.9 al 13% nello stesso periodo). Nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni i contratti a termine rappresentano addirittura il 60% del totale, triplicati rispetto al 20% del 1998 (4). Molto spesso tale condizione di precarietà e assoluta instabilità economica diviene permanente, intrappolando molti giovani lavoratori in un circolo vizioso senza fine: infatti solo il 55% di coloro che entrano nel mercato del lavoro con un contratto temporaneo riesce ad avere un occupazione stabile entro i dieci anni successivi. Si tratta di uno dei dati più bassi tra i paesi membri dell'Ocse. Secondo quest'ultima, ben il 40% degli under 25 mantiene il posto di lavoro per meno di dodici mesi (5). A questo infelice quadro va aggiunto il tasso di disoccupazione giovanile che a gennaio 2016 tocca quota 39.3%, una percentuale quasi raddoppiata rispetto al 2007, l'anno immediatamente precedente all'esplosione della grande crisi economica, quando toccava quota 20.4%. I neet, coloro che non studiano ne lavorano, raggiungono al di sotto dei 30 anni la quota record del 26% (6). Come era facilmente prevedibile, ne il Jobs Act ne la Garanzia Giovani, ovvero ulteriori manovre di svalorizzazione della forza lavoro, ulteriori attentati ai suoi diritti, hanno risolto questo grave problema.
Una delle principali cause di questo fenomeno è il disallineamento tra le competenze dei giovani lavoratori e le esigenze delle imprese, dunque tra offerta e domanda di lavoro. Di fatto il 31.6% dei giovani svolge mansioni che non necessitano di competenze specifiche. Uno su quattro è "sovraistruito" rispetto a quanto chiedono le aziende, e a tre anni dalla laurea solo il 53.2% ha trovato un lavoro "ottimale". Il comparto imprenditoriale italiano in effetti è da sempre, e in particolare in tempi di crisi, poco propenso ad investire in innovazioni tecnologiche nei processi produttivi, in quanto preferisce recuperare competitività e margini di profitto mediante l'abbattimento del costo del lavoro, puntando su manodopera a basso costo, dequalificata, flessibile e priva di tutele.
Andando poi ad analizzare brevemente la situazione salariale, il quadro complessivo resta drammatico. Bisogna anzitutto partire dalle dinamiche internazionali. Secondo il Rapporto sui Salari dell'ILO (International Labour Organization), la crescita globale dei salari è rallentata nel 2013, essendo cresciuti solo dello 2.0%, mentre nel 2012 l'aumento è stato del 2.2%.
In ogni caso i livelli pre-crisi non sono ancora stati raggiunti. In particolare nelle economie sviluppate si presenta una vera e propria condizione di stagnazione salariale: a partire dal 2008 i salari reali sono costantemente diminuiti o sono in stallo e in alcuni paesi, Italia compresa, nel 2013 la media è stata inferiore rispetto al 2007. Ricordiamo che i lavoratori italiani sono tra i meno pagati d'Europa; il nostro paese inoltre si piazza alle ultime posizioni a livello continentale per quanto riguarda i salari d'ingresso e risulta ultimo per le retribuzioni dei neolaureati (7). Va inoltre aggiunto che a partire dal 1999 in tutto il gruppo delle economie avanzate i salari nominali sono cresciuti più lentamente della produttività del lavoro (8). Questo distacco sempre più ampio riflette la tendenza iniziata negli anni '70 del declino della quota dei redditi da lavoro sul PIL, ovvero la parte del reddito nazionale assegnata ai lavoratori dipendenti nell'ottica della distribuzione del reddito stesso tra i vari fattori produttivi: lavoro, terra e capitale. Mentre nei decenni precedenti la quota dei salari era costantemente cresciuta, la sua caduta a partire dai primi anni '70 è contemporanea e generalizzata in tutti i paesi sviluppati. Tale quota in Italia è stata più bassa rispetto a quella degli altri paesi fin dall'inizio, e dopo essersi mostrata sostanzialmente stabile per due decenni, segna un crollo notevole (circa undici punti) a partire dalla metà degli anni novanta. La tendenza qui descritta, tanto in Italia quanto nelle altre nazioni considerate, non mostra alcun segno di recupero (9). Non è un caso poi che essa coincida con l'inizio dell'inceppamento del processo di accumulazione capitalistico, a seguito della caduta dei saggi di profitto. In effetti riduzione dei salari, accompagnata ad un più generale smantellamento dei diritti e delle tutele dei lavoratori, è uno dei principali strumenti di compensazione cui il capitale ricorre in tempi di crisi. Ovviamente ciò non significa che la compressione salariale sia una misura risolutiva, anzi non fa altro che aggravare il problema riducendo i consumi, peggiorando la produttività e contraendo ulteriormente la domanda.
Per completare il quadro va aggiunto che il nostro è uno dei paesi in cui le disuguaglianze di classe si allargano più profondamente e a ritmi più veloci (ne avevamo già parlato in una precedente analisi). Basterà solo dire che l'indice Gini, indicatore che misura la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, in Italia tra 1990 e 2010 è passato da 0.40 a 0.51. E' l'incremento più alto tra tutte le nazioni per cui sono disponibili i dati (10). Inoltre la fascia di età che comprende i giovani tra i 18 e i 25 anni è divenuta, dopo quella dei minori, la più colpita dalla povertà: l'incidenza ha raggiunto il 15%, ben al di sopra della media Ocse. Si tratta di una tendenza destinata a proseguire nei prossimi anni (11). Il sistema di protezione sociale del nostro paese è in termini di efficienza il peggiore in Europa dopo quello greco, essendo incapace di contrastare la povertà e di porre un freno alle disuguaglianze mediante azioni redistributive (12). In tale contesto sono i redditi pensionistici delle generazioni più anziane a svolgere quell'importante funzione di ammortizzatore sociale di ultima istanza, in particolare per i più giovani. Chi è nato dopo gli anni '80, come affermato dal presidente dell'INPS Tito Boeri, dovrà lavorare fino ai 75 anni, e molto probabilmente non percepirà la pensione o la avrà in forma estremamente ridotta, quindi non potrà sostituirsi all'inefficace Welfare statale per sostenere i propri figli (13). Il già tragico quadro sociale italiano è destinato dunque ad aggravarsi pesantemente nei prossimi anni.
La situazione fin qui descritta è eloquente. In un contesto in cui povertà e disoccupazione si fanno strada velocemente, in cui i salari calano in maniera drastica o nella migliore delle ipotesi stagnano, mentre il lavoro diviene sempre più ricattabile, sempre meno tutelato e il precariato si fa permanente, è difficile che un giovane lavoratore, sopratutto se parte già da una posizione di svantaggio, possa riuscire a trovare i mezzi economici sufficienti per sostenere la propria emancipazione. Per farlo sarebbe necessario un lavoro dignitoso, stabile e ben pagato, un lusso che sempre meno persone riescono a conquistare. Intere generazioni di lavoratori sono vittime di questo sistema che, stritolato dalle sue stesse intrinseche e insanabili contraddizioni, sta annientando il loro futuro e cancellando la loro identità.
Bisogna innanzitutto focalizzarsi sugli effetti che le dinamiche del mercato del lavoro, in pesante contrazione a partire dal 2008 nonostante una recente e assai stentata "ripresa", stanno avendo sulle famiglie, il nucleo sociale di base. Nelle famiglie con almeno un componente in età lavorativa e senza pensionati, i cui redditi generalmente forniscono un aiuto in più in caso di difficoltà, l'esposizione alla vulnerabilità economica è determinata dalla presenza o assenza di occupati e dalla loro numerosità. Ebbene, dai dati Istat emerge che i nuclei familiari italiani sono stati colpiti in maniera particolarmente dura e violenta dalle conseguenze della crisi. Infatti le famiglie jobless, quelle più fragili perché prive di redditi da lavoro, sia monocomponenti sia composte da più persone, sono aumentate passando dal 9.4% del 2004 al 14.2% del 2015. Stiamo parlando di oltre 2 milioni di famiglie senza lavoro. E tale incremento ha riguardato in misura maggiore le famiglie giovani rispetto a quelle adulte: mentre per queste ultime l'incidenza è aumentata dal 12.7 al 15.1%, per le prime è raddoppiata passando dal 6.7 al 13%. Sono i minori che vivono nelle famiglie in cui sono presenti disoccupati, precari o lavoratori part time a pagare le conseguenze più pesanti di tutto ciò: l'indice di povertà relativa tra i minori infatti è passato dall'11-12% del 2011 al 19% del 2014. La loro condizione dunque è in netto peggioramento. Come è facile intuire diminuiscono le famiglie pluricomponenti economicamente più solide, ovvero quelle in cui sono presenti due o più occupati, che passano dal 45.1% del 2004 al 37.3% del 2015, mentre quelle con un unico occupato nello stesso arco temporale scendono dal 31.4 al 29.3%. La situazione è differenziata a livello territoriale poiché nelle zone svantaggiate, il Mezzogiorno in particolare, gli effetti della crisi sono drammaticamente accentuati a causa delle difficoltà già presenti. Qui infatti, dove già nel 2004 erano assai più diffuse, le famiglie senza lavoro toccano nel 2015 il 24.5% del totale, contro l'8.2% delle regioni del Nord e l'11.2% del Centro. La riduzione delle famiglie con due o più componenti occupati, dati i valori di partenza molto più bassi, al Sud è più marcata: da una famiglia su tre ad appena una su quattro. La situazione qui descritta si ripresenta anche per quanto riguarda le famiglie single: alla riduzione degli occupati corrisponde un forte aumento di coloro che sono privi di redditi da lavoro. Permangono anche in questo caso le forti differenze geografiche, dal momento che al Sud la quota di single senza lavoro è il doppio rispetto a quella del Nord (rispettivamente 41.4 e 17.4%). Nel complesso si più dire che la crisi del 2008 ha accentuato quei processi, comunque già in atto, quali la riduzione delle famiglie con redditi "sicuri" e l'aumento di quelle caratterizzate da una più o meno forte vulnerabilità economica (2).
Nel mercato del lavoro italiano negli ultimi 2 decenni, a seguito di tutta una serie di riforme il cui culmine è rappresentato dal recente Jobs Act, è stata condotta una sistematica opera di precarizzazione dei contratti, che si fanno più instabili, meno pagati e meno protetti, accompagnata dalla progressiva riduzione delle tutele e da un sempre più violento attacco ai diritti dei lavoratori. Le maggiori conseguenze sono pagate sopratutto sopratutto dai giovani. In effetti, sempre secondo i dati Istat (3), sono sopratutto coloro che sono nati dopo il 1970 a risentire delle condizioni lavorative sempre più sfavorevoli: per essi l'occupazione standard diminuisce rapidamente (dall'84.3 al 75.4% tra 2004 e 2015), mentre la percentuale di contratti atipici è in crescita (dal 9.9 al 13% nello stesso periodo). Nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni i contratti a termine rappresentano addirittura il 60% del totale, triplicati rispetto al 20% del 1998 (4). Molto spesso tale condizione di precarietà e assoluta instabilità economica diviene permanente, intrappolando molti giovani lavoratori in un circolo vizioso senza fine: infatti solo il 55% di coloro che entrano nel mercato del lavoro con un contratto temporaneo riesce ad avere un occupazione stabile entro i dieci anni successivi. Si tratta di uno dei dati più bassi tra i paesi membri dell'Ocse. Secondo quest'ultima, ben il 40% degli under 25 mantiene il posto di lavoro per meno di dodici mesi (5). A questo infelice quadro va aggiunto il tasso di disoccupazione giovanile che a gennaio 2016 tocca quota 39.3%, una percentuale quasi raddoppiata rispetto al 2007, l'anno immediatamente precedente all'esplosione della grande crisi economica, quando toccava quota 20.4%. I neet, coloro che non studiano ne lavorano, raggiungono al di sotto dei 30 anni la quota record del 26% (6). Come era facilmente prevedibile, ne il Jobs Act ne la Garanzia Giovani, ovvero ulteriori manovre di svalorizzazione della forza lavoro, ulteriori attentati ai suoi diritti, hanno risolto questo grave problema.
Una delle principali cause di questo fenomeno è il disallineamento tra le competenze dei giovani lavoratori e le esigenze delle imprese, dunque tra offerta e domanda di lavoro. Di fatto il 31.6% dei giovani svolge mansioni che non necessitano di competenze specifiche. Uno su quattro è "sovraistruito" rispetto a quanto chiedono le aziende, e a tre anni dalla laurea solo il 53.2% ha trovato un lavoro "ottimale". Il comparto imprenditoriale italiano in effetti è da sempre, e in particolare in tempi di crisi, poco propenso ad investire in innovazioni tecnologiche nei processi produttivi, in quanto preferisce recuperare competitività e margini di profitto mediante l'abbattimento del costo del lavoro, puntando su manodopera a basso costo, dequalificata, flessibile e priva di tutele.
Andando poi ad analizzare brevemente la situazione salariale, il quadro complessivo resta drammatico. Bisogna anzitutto partire dalle dinamiche internazionali. Secondo il Rapporto sui Salari dell'ILO (International Labour Organization), la crescita globale dei salari è rallentata nel 2013, essendo cresciuti solo dello 2.0%, mentre nel 2012 l'aumento è stato del 2.2%.
In ogni caso i livelli pre-crisi non sono ancora stati raggiunti. In particolare nelle economie sviluppate si presenta una vera e propria condizione di stagnazione salariale: a partire dal 2008 i salari reali sono costantemente diminuiti o sono in stallo e in alcuni paesi, Italia compresa, nel 2013 la media è stata inferiore rispetto al 2007. Ricordiamo che i lavoratori italiani sono tra i meno pagati d'Europa; il nostro paese inoltre si piazza alle ultime posizioni a livello continentale per quanto riguarda i salari d'ingresso e risulta ultimo per le retribuzioni dei neolaureati (7). Va inoltre aggiunto che a partire dal 1999 in tutto il gruppo delle economie avanzate i salari nominali sono cresciuti più lentamente della produttività del lavoro (8). Questo distacco sempre più ampio riflette la tendenza iniziata negli anni '70 del declino della quota dei redditi da lavoro sul PIL, ovvero la parte del reddito nazionale assegnata ai lavoratori dipendenti nell'ottica della distribuzione del reddito stesso tra i vari fattori produttivi: lavoro, terra e capitale. Mentre nei decenni precedenti la quota dei salari era costantemente cresciuta, la sua caduta a partire dai primi anni '70 è contemporanea e generalizzata in tutti i paesi sviluppati. Tale quota in Italia è stata più bassa rispetto a quella degli altri paesi fin dall'inizio, e dopo essersi mostrata sostanzialmente stabile per due decenni, segna un crollo notevole (circa undici punti) a partire dalla metà degli anni novanta. La tendenza qui descritta, tanto in Italia quanto nelle altre nazioni considerate, non mostra alcun segno di recupero (9). Non è un caso poi che essa coincida con l'inizio dell'inceppamento del processo di accumulazione capitalistico, a seguito della caduta dei saggi di profitto. In effetti riduzione dei salari, accompagnata ad un più generale smantellamento dei diritti e delle tutele dei lavoratori, è uno dei principali strumenti di compensazione cui il capitale ricorre in tempi di crisi. Ovviamente ciò non significa che la compressione salariale sia una misura risolutiva, anzi non fa altro che aggravare il problema riducendo i consumi, peggiorando la produttività e contraendo ulteriormente la domanda.
Per completare il quadro va aggiunto che il nostro è uno dei paesi in cui le disuguaglianze di classe si allargano più profondamente e a ritmi più veloci (ne avevamo già parlato in una precedente analisi). Basterà solo dire che l'indice Gini, indicatore che misura la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, in Italia tra 1990 e 2010 è passato da 0.40 a 0.51. E' l'incremento più alto tra tutte le nazioni per cui sono disponibili i dati (10). Inoltre la fascia di età che comprende i giovani tra i 18 e i 25 anni è divenuta, dopo quella dei minori, la più colpita dalla povertà: l'incidenza ha raggiunto il 15%, ben al di sopra della media Ocse. Si tratta di una tendenza destinata a proseguire nei prossimi anni (11). Il sistema di protezione sociale del nostro paese è in termini di efficienza il peggiore in Europa dopo quello greco, essendo incapace di contrastare la povertà e di porre un freno alle disuguaglianze mediante azioni redistributive (12). In tale contesto sono i redditi pensionistici delle generazioni più anziane a svolgere quell'importante funzione di ammortizzatore sociale di ultima istanza, in particolare per i più giovani. Chi è nato dopo gli anni '80, come affermato dal presidente dell'INPS Tito Boeri, dovrà lavorare fino ai 75 anni, e molto probabilmente non percepirà la pensione o la avrà in forma estremamente ridotta, quindi non potrà sostituirsi all'inefficace Welfare statale per sostenere i propri figli (13). Il già tragico quadro sociale italiano è destinato dunque ad aggravarsi pesantemente nei prossimi anni.
La situazione fin qui descritta è eloquente. In un contesto in cui povertà e disoccupazione si fanno strada velocemente, in cui i salari calano in maniera drastica o nella migliore delle ipotesi stagnano, mentre il lavoro diviene sempre più ricattabile, sempre meno tutelato e il precariato si fa permanente, è difficile che un giovane lavoratore, sopratutto se parte già da una posizione di svantaggio, possa riuscire a trovare i mezzi economici sufficienti per sostenere la propria emancipazione. Per farlo sarebbe necessario un lavoro dignitoso, stabile e ben pagato, un lusso che sempre meno persone riescono a conquistare. Intere generazioni di lavoratori sono vittime di questo sistema che, stritolato dalle sue stesse intrinseche e insanabili contraddizioni, sta annientando il loro futuro e cancellando la loro identità.
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