mercoledì 27 luglio 2016

Basta comprare petrolio dall’Isis e vendergli armi

Come fermare l’Isis? Bisogna smettere di comprare il suo petrolio e basso prezzo e smettere di vendergli le armi. Monsignor Maroun Elias Nimeh Lahham, già arcivescovo di Tunisi e oggi vicario patriarcale per la Giordania, è a Rovigo per partecipare a una tavola rotonda sulla misericordia nell’ambito del Festival Biblico. In questo colloquio con Vatican Insider racconta il dramma dei profughi in Giordania, che hanno raddoppiato la popolazione del Paese. E spiega perché sia un fallimento l’idea di «esportare la democrazia».
Qual è la situazione dei profughi in Giordania?
«La Giordania, Paese di sei milioni di abitanti, ne accoglie tre di profughi: vuol dire il 50 per cento della sua popolazione. Questo è dovuto prima di tutto alla sua ospitalità, che è un valore della cultura araba e poi al fatto che questi profughi provengono dall’Iraq e dalla Siria cioè da Paesi confinanti. Adesso speriamo che questa situazione non si trasformi come quella dei profughi palestinesi sessant’anni fa, perché la Giordania non può sopportare numeri come questo».
Come vivono queste persone? E la Chiesa che cosa fa?
«Dipende. Per i siriani c’è un collaborazione molto stretta tra il Governo giordano e la Caritas giordana. Una piccola parte dei siriani vive nei campi profughi. Ce ne sono tre, il più importante è quello di Zaatari: a un certo punto erano arrivati a 140 mila ma adesso sono diminuiti perché poco a poco tornano nei loro villaggi che sono stati liberati. E poi vivono nelle città della Giordania, con una situazione mai vissuta prima da noi. Faccio un esempio: Mafraq, una città al nord del paese, ha 50mila abitanti e 70mila profughi siriani. Una trasformazione a tutti i livelli e anche qualche problema. Mentre per gli iracheni bisogna distinguere. La Giordania ha avuto quattro ondate di profughi dall’Iraq: 1991, 1993, 2003 e 2014. L’ultima è quella dopo la caduta di Mosul e della piana di Ninive. Questi sono tutti cristiani, cattolici. E lì quello che ha fatto il governo è stato solo di permettere loro di venire, anche senza passaporti, perché avevano perso tutto. Poi li ha affidati alla Caritas che pensa a tutto: cibo, casa, cure mediche, istruzione. Ultimamente la Conferenza episcopale italiana ha adottato un progetto di scolarizzazione per 1500 ragazzi, con il costo di un milione e mezzo all’anno. La Cei lo ha adottato per due anni. Speriamo che fra due anni i profughi iracheni siano tornati nel loro paese e che la Giordania torni ad avere una vita più normale».
Il vicario per la Giordania: “Basta comprare il petrolio dell’Is e vendergli armi!”

I profughi vogliono tornare nei loro paesi?
«I siriani più che gli iracheni. Perché i primi hanno le loro terre e le loro case, mentre gli iracheni sono arrivati da Mosul e dalla piana di Ninive, dicono di non voler tornare, anche se il Paese fosse pacificato. Affermano di essere stati derubati dai loro vicini musulmani, dopo la loro partenza. Io credo che lo dicano perché hanno davanti ai loro occhi una terza opzione, quella di partire per gli Usa e il Canada. Quando vedranno che le opzioni sono soltanto due, quella di tornare nel loro Paese pacificato o rimanere in Giordania senza diritto di lavoro, penso che qualcuno tornerà. Anzi, ho letto ultimamente che qualche iracheno cristiano che era già arrivato in Europa è tornato in Iraq perché non si è adattato».
Che cosa si può fare per fermare l’Isis?
«Questa è una guerra mondiale a pezzi, come dice il Papa. La guerra non è solo in Siria e per la Siria, ci sono tante parti coinvolte: l’America, la Russia, l’Europa, la Turchia, l’Arabia Saudita, il Qatar. C’è un’ipocrisia gigantesca da parte degli occidentali, specialmente degli americani, che comprano il petrolio di Daesh, dello Stato Islamico, a un prezzo bassissimo. Daesh ha preso dei pozzi di petrolio e lo vende a prezzi bassissimi pur di avere soldi. Ma non solo: comprano petrolio e vendono loro armi. Se non chiudete questi rubinetti...».
Il Papa, quando si riferisce alla guerra e al terrorismo, parla sempre anche del traffico di armi. Chi le dà all’Isis?
«Ma certo! Durante la sua visita in Giordania, al sito del battesimo, ha detto che quelli che vendono le armi sono dei criminali. E lo sono!».
Nell’intervista a La Croix il Papa ha detto che anche l’Occidente deve riconsiderare molto della sua politica, ad esempio nell’«esportare la democrazia»...
«L’esempio più chiaro è l’Iraq. Appena arrivati gli americani hanno sciolto l’esercito iracheno, e da quel giorno l’Iraq non è più un Paese, è tornato a dimensioni apocalittiche. La democrazia non si esporta, la democrazia non si dà, la democrazia si raggiunge, passo dopo passo. L’Occidente ha conosciuto una sola forma di democrazia. Non è detto che la democrazia europea o occidentale sia quella da applicare in Cina o in Medio Oriente. Papa Francesco parla sempre della Chiesa che non deve essere centrata su se stessa. Mi sembra che l’Europa sia così: vuole applicare i suoi criteri a tutto il mondo e questo è sbagliatissimo, socialmente e anche politicamente».
Noi in Europa viviamo un periodo in cui spesso, a motivo dei fatti che accadono, siamo soliti usare molte semplificazioni. Come vivete il rapporto con l’Islam nella vostra regione?
«Nelle nostre terre il rapporto con l’islam è diversissimo dal rapporto che esiste in Occidente. Per un motivo molto semplice: nelle nostre terre l’Islam è maggioritario, noi siamo il tre per cento della popolazione e dunque dobbiamo fare delle concessioni. L’Islam quando è maggioritario non si mette in discussione. Però in Europa l’Islam sarà sempre minoritario, è inutile pensare che l’Europa sarà musulmana. È una paura che non è fondata. L’islam in Europa si deve forgiare una giurisprudenza fatta per un Islam minoritario. Finora la giurisprudenza musulmana è fatta per un Islam che comanda, e gli altri si devono sottomettere. I nostri rapporti, nel dialogo a livello di vita normale, di studi, di intellettuali, sono ottimi. Ma tutto questo si ferma davanti al matrimonio: quando si arriva a quello, il cristiano dice io sono cristiano, il musulmano dice io sono musulmano. E questo è accettato da ambedue le parti, anche perché se qualcuno trasgredisce questa situazione di statu quo, il 99 per cento di matrimoni misti tra cristiani e musulmani falliscono. Il concetto di matrimonio non è lo stesso, il ruolo della donna, dei figli, non è lo stesso».
Esiste un unico Islam o ci sono tanti Islam?
«Esistono tanti modelli di musulmani. L’Islam è come il cristianesimo, è uno. Dipende da come tu lo vivi, quali versetti del Corano tu prendi. In effetti, i problemi non sono tra le fedi, ma tra la gente che crede in queste fedi. C’è il cristiano fanatico, c’è l’ebreo fanatico, e c’è il musulmano fanatico. È vero che la proporzione dei musulmani fanatici è molto più grande rispetto a quella dei cristiani, anche perché la matrice del Vangelo è l’amore e la pace».

martedì 26 luglio 2016

"Il 64% degli italiani sono favorevoli alla coltivazione libera". Diecimila i nuovi posti di lavoro

"Quasi due italiani su tre (64%) sono favorevoli alla coltivazione della cannabis ad uso terapeutico in Italia, per motivi di salute, ma anche economici e occupazionali" infatti realizzerebbe "una opportunita' che potrebbe generare un giro di affari di 1,4 miliardi e garantire almeno 10mila posti di lavoro". E' quanto emerge dall'ultima Coldiretti/Ixe' elaborata nell'ambito dello studio Coldiretti sulle potenzialita' economiche e occupazionali della coltivazione, trasformazione e distribuzione della cannabis ad uso terapeutico.
"Una comprensione che - sottolinea la Coldiretti - risponde ai bisogni di pazienti con patologie gravi come Sla, la sindrome di
Tourette, l'Alzheimer, il Parkinson e diversi tipi di sclerosi come la sclerosi multipla, contro le quali farmaci con il principio attivo della cannabis si sono dimostrati utili". In Italia secondo la Coldiretti "sono da subito disponibili almeno mille ettari di serre in disuso per la coltivazione in ambiente controllato per soddisfare i bisogni dei pazienti in Italia e all'estero".
Una opportunita' "che potrebbe generare un giro di affari di 1,4 miliardi e garantire almeno 10mila posti di lavoro e che - sostiene la Coldiretti - va attentamente valutata per uscire dalla dipendenza dall'estero e avviare un progetto sperimentale di filiera italiana al 100% che unisce l'agricoltura all'industria farmaceutica".
Un primo passo che "potrebbe aprire potenzialita' enormi se si dovesse decidere di estendere la produzione nei terreni adatti: negli anni 40 con ben 100mila gli ettari coltivati l'Italia era il secondo produttore mondiale della cannabis sativa, che dal punto di vista botanico e' simile alla varieta' indica utilizzata a fini terapeutici".

lunedì 25 luglio 2016

Dacci oggi la nostra violenza quotidiana

La condanna della violenza è, sotto il profilo squisitamente politico, l’attività per la quale molti personaggi sgomitano ambendo a un posto in prima fila: in fondo fa “figo” e impegna “poco”, come si diceva una volta.
Siamo circondati dalla violenza comunicata dai media al punto da stupirci se non riceviamo una dose quotidiana di drammaticità che susciti in noi disgusto, paura e rassegnazione verso un mondo sempre più incomprensibile e feroce.
Alcune testate giornalistiche sono specializzate nella ricerca ed elencazione di fatti drammatici di cronaca e non parlano d’altro, confondendo l’informazione con il voyerismo macabro. Non ci facciamo mancare più nulla in termini di tragedie, senza però mai avere un’analisi ragionata e utile sulle origini di queste violenze.
La violenza sulle donne, che esalta un distorto concetto d’amore che implica possesso assoluto e rivendica un “diritto naturale” sulla cosa posseduta.
La violenza della guerra, lontana, vista con le immagini filtrate per non urtare la nostra “sensibilità” mentre infiliamo la forchetta dentro il piatto di fettuccine e guardiamo immagini dove i cadaveri e le sofferenze reali sono soffuse; un eco vago, un racconto noir dell’inviato.
La violenza del Terrorismo dentro i nostri confini, figlia della nostra indifferenza per i problemi generati dalla guerra; parto spontaneo dell’ipocrisia con cui deleghiamo incondizionatamente ai “nostri” politici di entrare a “gamba tesa” nella storia e nella evoluzione di altri popoli per piegare i loro interessi ai nostri.
La violenza di chi contesta rabbiosamente, stanco di non essere ascoltato, che si mescola inopportunamente con quella delle Forze dell’Ordine che dovrebbero tutelare il popolo ma troppo spesso diventano arma impropria di interessi politici e criminali del potere che li comanda.
La violenza della pazzia di personaggi frustrati, ai margini della società, esclusi dal sistema che gettano la propria vita e quella altrui per vendetta, condita da un attimo di notorietà concessa loro dal circo mediatico della televisione.
La “condanna” non serve a niente, i proclami delle buone intenzioni ancora meno. È necessario capire i motivi che alimentano la violenza. Il terreno di coltura su cui germoglia e prospera.
L’occhio, e il cuore, devono puntare alle menzogne, alle ipocrisie della politica, dell’economia e dei pregiudizi che fertilizzano la terra.
La democrazia si svuota dal di dentro armeggiando con la violenza per creare, opportunamente, ora un sentimento di paura, ora lo sdegno, ora una necessità di maggior “severità” e controllo, limitando le nostre libertà.
In un modello di società globale dove il 10% della popolazione detiene il 90% delle ricchezze del pianeta (più o meno, poco importa) e dove una parte altamente minoritaria consuma la maggior parte delle risorse, l’esclusione dei molti dal “benessere” regna sovrana e genera sentimenti di rivalsa e di vendetta.
Non è la violenza in sé a doverci far paura, ma l’uso strumentale che ne viene fatto per renderci insicuri e impauriti; diffidenti e sospettosi; intolleranti e aggressivi verso tutti i nostri simili.

venerdì 22 luglio 2016

Comincia l’era del Terrorismo punto 2

Nizza non è solo il luogo dell’ultima strage, ma anche lo sfondo di una nuova scuola di pensiero, ancora in nuce, attraverso il quale le oligarchie e il sistema mediatico mainstream cercano di aggiustare il tiro e di incollare i cocci di narrazioni contraddittorie e ormai equivoche: è la rivoluzione copernicana del Terrorismo punto 2, con la quale si cerca di mantenere intatto l’effetto paura sui cittadini, di rafforzare un ambiguo e futile spirito identitario nel quale annegare le responsabilità del globalismo e allo stesso tempo sgravare dalle responsabilità un ceto politico che affida ormai gran parte della propria legittimazione e del proprio essere garante della disuguaglianza sociale alla tutela della sicurezza. Come dimostra l’inattesa contestazione al primo ministro Valls e la denuncia che i familiari delle vittime italiane vogliono proporre contro lo Stato francese, la creazione di un potente mostro dalle mille teste cui attribuire tutte le colpe può diventare controproducente nel momento in cui le difese appaiono insufficienti fino al ridicolo, così come può legittimamente stimolare la domanda se non siano le sciagurate avventure in medio oriente a creare le condizioni per la strage di cittadini inermi.
Così adesso sulla base di ciò che è avvenuto a Nizza si gioca anche su un nuovo campo: quello del terrorismo fai da te, artigianale, singolo non più strettamente legato a cellule implacabili formate da reduci del Medioriente, organizzate, armate e dirette dall’Isis o da altri, ma prodotto da iniziative individuali o di gruppi di conoscenti ancorché ispirate dai veleni jihadisti, dai cattivi predicatori, insomma dal terrorismo come maligna istanza dello spirito islamico. Intendiamoci siamo ancora in uno stadio di passaggio tra la ipostatizzazione del male assoluto in alcune sigle, oggi l’Isis, ieri Al Quaeda che adesso invece è buona, ma la situazione ambivalente del governo francese che si trova a giustificare insieme il suo ruolo in medio oriente o in Africa e il fallimento di una sicurezza liberticida, come lo stesso Hollande ha ammesso, apre le porte al cambiamento di paradigma, immediatamente e cronometricamente avvalorato dal triste e poco chiaro episodio di Wurzburg.
E’ una tesi rischiosa perché se i cittadini europei avessero conservato un po’ di cervello e non fossero ridotti a rincretiniti che vanno alla caccia di Pokemon armati di cellulare, si domanderebbero come mai gente nata sul suolo europeo, con passaporti europei non sia stata folgorata dalla superiorità occidentale, perché si ostini ad essere mussulmana e si lasci sedurre dal fondamentalismo, perché sia piena di risentimento per l’inferno che l’impero sta creando nelle loro terre di origine. Ma è anche necessaria come cominciano a spiegare i soliti analisti americani al servizio di Washington, immediatamente richiamati in servizio attivo: se il terrorismo diventa bricolage di morte non organizzato benché ispirato dai movimenti jihadisti, allora è chiaro che non basterà sconfiggere l’Isis e il suo Califfo ( anche ammesso che lo si voglia fare davvero), ma occorrerà rimanere in Iraq e in Siria a tempo indeterminato per isolare il focolaio infettivo cogliendo due piccioni con una fava sola: ovvero la continuazione della paura e la ricolonizzazione del medioriente.
La nuova tesi benché in gran parte artificiosa visto che a quanto sembra organizzazione terroristica e iniziative individuali (fino a ieri fortissimamente negate) si siano sempre intrecciate, se non sovrapposte, è gravida di conseguenze perché alla fine trova le sue fondamenta nella xenofobia di base e nella guerra di civiltà, ad onta del fatto che l’occidente sia in perfetto accordo con i regimi fondamentalisti più retrivi, come quello dell’Arabia Saudita, tanto per fare un esempio di scuola. E’ interessante vedere come la maggior parte dei francesi rifiuti l’idea che la follia di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, lo stragista di Nizza possa derivare più che da intenzioni terroristiche non avvalorate da conoscenze particolari e nemmeno dalla religiosità peraltro inesistente nel personaggio, da situazioni del tutto personali, come i debiti e il divorzio. S’intende al fondo che un mediorientale non sia così evoluto da soffrire per queste cose, non comunque come un pilota tedesco che si è suicidato portandosi dietro 150 persone senza che sia stato accusato nemmeno alla lontana di terrorismo. Non sto mettendo in piedi una tesi, sto mostrando su quale terreno psicologico nascerà la nuova pianta del terrorismo diffuso che semmai ha una qualche consistenza è il frutto di scelte precise dei governi francesi, tedeschi e occidentali in genere i quali hanno sempre barattato l’applicazione ufficiosa della sharia tra l’immigrazione musulmana con l’emarginazione in quanto cittadini e detentori di diritti: una sorta di laboratorio per un futuro in cui tutti saranno immigrati, aspettando il paradiso nell’altra vita. Dunque raccolgono quel che hanno seminato. Anche se qualche patetico tenutario di posta rosa, un Lialo di Prevert improvvidamente eletto a guru politico, per la gioia dei pochemonisti con cellulare di cui è il coté perfetto, è subito saltato sulle barricate della nuova teoria del terrorismo invitando con amichevole tu il mussulmano della porta accanto a denunciare “gli invasati che si sentono invasori e dagli imam che li fomentano”, a “sbugiardarli, controbattere punto su punto le loro idee distorte”.
Certo forse è un po’ distorto ritenere che la morte di 500. 000 bambini sia un prezzo equo per l’invasione dell’Iraq come affermò a suo tempo Madeleine Allbright e di cui il nostro non si dà pensiero, lavorando in un giornale di fatto americano e per giunta con la K, ma non importa, non occorrono nemmeno tre fiammiferi per vedere di che pasta è fatto. E che è proprio a gente di questo tipo, fondamentalista del nulla di giornata, che dobbiamo quello che stiamo vivendo.

giovedì 21 luglio 2016

Il gigante invisibile delle grandi opere

«Terzo Valico. Una lunga e controversa storia. il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati,ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato». Il manifesto, 20 luglio 2016 (c.m.c.)
Il Terzo Valico è il gigante invisibile delle grandi opere. Grande per impatto ambientale, per la spesa pubblica (6,2 miliardi di euro) e per la lunga e controversa storia, ma sconosciuto alla maggioranza delle persone. Una sorta di Golem, potente ma fragile.
Costellato da tantissimi stop and go, proclami, bocciature e travagli giudiziari, il suo sfumato racconto iniziò nel 1991, l’anno in cui venne presentato dal governo dell’epoca – era uno degli innumerevoli esecutivi Andreotti – il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati, in primis le famiglie del capitalismo italiano, ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato.
Dal primo tavolo dell’Alta velocità, apparecchiato per Fiat, Eni e Iri nell’estate del 1991, erano rimasti fuori i Ferruzzi e i Ligresti. Proprio a loro, in extremis (a dicembre), venne affidato il progetto del Supertreno Milano/Genova, che, dopo tre bocciature della commissione di Via (Valutazione d’impatto ambientale), grazie al salvataggio della legge obiettivo (considerata criminogena da Raffaele Cantone), diventerà successivamente Terzo Valico dei Giovi: dalla città della Lanterna fino alla piccola Rivalta Scrivia, frazione di Tortona.
Meno chilometri ma costi esponenzialmente lievitati. Si tratta di un tragitto ferroviario di 53 chilometri ad alta velocità, di cui 37 in galleria, che iniziano dal nodo ferroviario di Genova (Bivio Fegino) e arrivano nella Piana di Novi per poi ripiombare in una linea tradizionale. In questi anni, i proponenti e i favorevoli, al di là degli slogan («ce lo chiede l’Europa» e «senza Genova morirebbe»), hanno sempre eluso la domanda principale: serve davvero? Solo una seria e indipendente analisi costi-benefici avrebbe potuto dirlo, ma non è stata fatta.
L’11 novembre del 2011, l’ultimo giorno prima della caduta dell’esecutivo Berlusconi, con la firma del contratto per i lavori della linea, il gigante diventò visibile. Ma non senza problemi. D’altronde i guai giudiziari erano iniziati nella seconda metà degli anni Novanta, quando si avviarono i lavori per tre «fori pilota», cunicoli esplorativi per sondaggi geodiagnostici. Due di essi, nella Val Lemme, in provincia di Alessandria, da semplici rilievi esplorativi diventarono gallerie lunghe un chilometro.
Scattò la denuncia degli ambientalisti, con il Wwf in testa. E il 24 febbraio 1998 i cantieri furono chiusi dai carabinieri in seguito a un’inchiesta promossa dalla Procura di Milano con l’incriminazione del senatore di Forza Italia, Luigi Grillo, e dell’ingegner Ercole Incalza, accusati di avere speso soldi dello Stato senza alcun progetto approvato e per opere che non erano affatto «fori pilota».
Il processo per truffa aggravata ai danni dello Stato terminò anni dopo con la prescrizione dei reati grazie alla legge Cirielli. Il Sistema Incalza, così denominato successivamente, era già lampante nel 1998: un mix di burocrazia pubblica, privato affarista e cattiva politica che gestiva appalti sempre più cari.
Ed ora la ’ndrangheta.
Ma non è una sorpresa, la presenza della criminalità organizzata nei cantieri del Terzo Valico è stata documentata dai No Tav, in particolare nel settore del movimento terra, parallelamente alle procure. La presenza della ’ndrangheta è accertata sia in provincia di Alessandria sia in quella di Genova. Delle infiltrazioni se ne parlò, per esempio, a proposito del traffico illecito di rifiuti nelle cave del tortonese, quando fu comminata un’interdittiva antimafia all’imprenditore Francesco Ruberto, e se ne discusse quando fu arrestato per camorra il capo della Lande, Marco Cascella, subappaltatore nei cantieri della grande opera.
Con l’attuale indagine della procura di Reggia Calabria è stata accertata l’infiltrazione degli appartenenti alla cosca Raso-Gullace-Albanese in sub-appalti già aggiudicati per la realizzazione dell’infrastruttura. Alcuni affiliati avrebbero anche sovvenzionato i comitati «Sì Tav» per agevolare l’inizio dei lavori.
Contro tutto questo si è battuto anche ieri il movimento No Tav. A Pozzolo Formigaro, provincia di Alessandria, un centinaio di attivisti si è radunato per opporsi all’esproprio degli ultimi due lotti del cantiere.

mercoledì 20 luglio 2016

''Speriamo che cambi il vento'': via d'Amelio 24 anni dopo

Sul palco di via d'Amelio sono saliti gli agenti di scorta, quelli sopravvissuti alle stragi del 23 maggio e del 19 luglio '92. "Dopo la morte di Falcone andammo da Borsellino e gli proponemmo di scortarlo - ha raccontato Giuseppe Sammarco, ex caposcorta di Falcone - lui piangendo ci disse di lasciare stare perchè dopo Falcone sarebbe toccato a lui. Ma quando insistemmo ci disse di fare come credevamo. Solo che rientrai in servizio il lunedì 20 luglio 1992. Domenica, il giorno della strage, dovevi stare attento a dove mettevi i piedi, per i resti umani".
Giuseppe Costanza era nella macchina di Falcone e della moglie Francesca Morvillo quel 23 maggio. "Il rischio era grosso - ha ricordato - ma vedevo quest'uomo che si impegnava realmente, che ha dato la sua vita e non solo. Giovanni Falcone" faceva la vita di "un carcerato, rispettava la regola della protezione, stava a casa, in ufficio o altrove a svolgere un'attività. E nemmeno io me la sentii di mollare".
Chi invece è miracolosamente sopravvissuto alla strage di via d'Amelio è Antonio Vullo: "Abbiamo messo la nostra vita nelle mani dello Stato, ma il nostro cuore andava a Paolo - ha detto - credevamo che sarebbe riuscito a liberarci da questo male che attanaglia la nostra città" ma "purtroppo da 24 anni sentiamo dire dallo Stato 'sconfiggiamo la mafia'. Non hanno mai dato un senso a questa frase" e invece, ha concluso, è importante "che ci diano un segno e una verità. Abbiamo bisogno di sapere cosa è successo".
Antonella Catalano, nipote di Agostino Catalano ha letto uno scritto in onore delle vittime di Via D’Amelio, delle altre vittime di mafia, dell’incidente ferroviario accaduto in Puglia e del terrorismo, dove invita ogni adulto ad essere cosciente della responsabilità di “educare e crescere i propri figli ad essere persone libere”. Intervenuto anche Pippo Giordano che ha invitato e spronato i concittadini palermitani a partecipare e far sentire la propria presenza in manifestazioni come queste.
Il fratello di Claudio Traina, Luciano, dal palco ha voluto innanzitutto ringraziare tutte le persone presenti che ogni anno giungono da tutta Italia e addirittura da oltre oceano per far sentite il proprio appoggio e sostegno ai famigliari delle vittime di mafia e a chi dopo oltre 24 anni ancora non ha avuto giustizia. Traina ha invitato tutti i presenti ha gridare i nomi di chi 24 anni fa in questa via perse la vita “Dobbiamo gridare tutti assieme, in modo che sentano fino a Roma che da 24 anni fa orecchio da mercante, questo grido di dolore”.
“Noi oggi stiamo piangendo i nostri morti ma abbiamo molti colleghi che vanno in servizio senza auto specializzate - ha ricordato Luigi Lombardo, segretario nazionale del Siap - dobbiamo dare sicurezza a chi sta raccogliendo questa eredità altrimenti ci incontreremo fra vent’anni in un’altra via a piangere altri morti”.
Salvatore Borsellino prima del minuto di silenzio: "Saremo il vento che vuole cambiare le cose"
Appena prima del minuto di silenzio che ricorda l'esplosione della bomba in via d'Amelio il 19 luglio '92, è stato Dario, uno dei bambini della Casa di Paolo voluta un anno fa da Salvatore Borsellino (lì dove era la casa e la farmacia di famiglia) a scandire i nomi di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina. Poco prima delle 16.58 Salvatore Borsellino è salito sul palco di fronte al pubblico presente nella via. "Noi non siamo qui per piangere - ha affermato - anche se hanno smembrato il corpo di Paolo Borsellino mio fratello è vivo insieme ad Agostino, Claudio, Emanuela, Vincenzo ed Eddie. Li hanno uccisi ma così facendo li hanno resi invincibili, un pezzo di ciascuno di loro è dentro di noi". Poi ha parlato del pm Nino Di Matteo: "Sta subendo il trattamento riservato a chi combatte per la giustizia e la verità. Ma saremo noi il vento che vuole cambiare le cose. Non aspetteremo che il vento cambi da solo".
"Quel giorno di luglio di 24 anni fa ci fu un'esplosione che colorò il cielo di nero. Oggi in questa piazza c'è un'esplosione di colori" ha detto Luigi Lombardo, rappresentante del Siap di Palermo (Sindacato Italiano Appartenenti Polizia) sul palco di via d'Amelio. "Oggi noi siamo qui perchè abbiamo uno scopo comune, quello di ricercare la verità e la giustizia. E quel giorno in via d'Amelio abbiamo vinto noi, la società civile se sarà unita riuscirà a sconfiggere quella malapianta che è la mafia, e che purtroppo è ancora viva". E poi riferendosi agli agenti di scorta: "Lavorano ogni giorno rischiando la loro vita e spesso vengono dimenticati". Per loro l'attrice Annalisa Insardà ha recitato il testo dedicato alle Scorte.

martedì 19 luglio 2016

L’ultima della Boschi: la Costituzione è terrorista

Non sono mica meno fascisti solo perché sono “piccoli”: balilla o figlie della lupa. La “piccola italiana” più influente ci ha fatto sapere che se non diamo una mano al loro golpe, c’è il pericolo che i palazzi delle istituzioni, i luoghi della democrazia e le nostre strade e piazze vengano occupati non da esuberanti e fieri manipoli, ma da fanatici terroristi, che vanno contrastati in una guerra che impone misure eccezionali, leggi speciali e poteri straordinari, in una parola, i loro.
Il patriot act all’italiana, l’état d’urgence alla pappa col pomodoro impone qualche piccola rinuncia, ma in fondo dovremmo esserci abituati: un po’ meno libertà in cambio di un po’ più sicurezza, è l’imperativo morale che presiede la strategia del terrore occidentale e che ispira ogni misura in ogni settore. Un po’ meno salute e un po’ meno garanzie in cambio di un posto di lavoro, per giunta precario, un po’ meno libertà di espressione in cambio di circensens televisivi, anche un po’ mare in cambio di un po’ più petrolio, e così via.
Il ricatto come sistema di governo è tutto esemplarmente rappresentato dalla intimidazione della pulzella d’Etruria: “Abbiamo bisogno di un’Europa più forte e in grado di rispondere insieme, unita, al terrorismo internazionale, e all’instabilità. E per riuscirci abbiamo bisogno anche di un’Italia più forte verso l’Europa, più credibile: quindi di una Costituzione che ci consenta maggiore stabilità”.
E si capisce, le carte costituzionali nate dalla resistenza all’antifascismo, intrise di contenuti ribellisti, di slogan insurrezionalisti innervati della pericolosa retorica rivoluzionaria: libertà, uguaglianza, solidarietà, sono davvero una spina nel fianco di un governo sovranazionale che, manu militari, intende per “democrazia” un simulacro, un’immagine, sacra quanto offesa, da portare in giro e esportare per giustificare campagne di guerra imperiale, per legittimare la fine della sovranità popolare e degli stati nazionali “egoisti”, per ribadire la superiorità della nostra civiltà rispetto a credo, valori, usi barbari e incompatibili col nostro modello di vita. Come d’altra parte sostenne Blair commentando pacatamente gli abusi compiuti in Iraq: sono stati commessi atti criticabili, ma almeno adesso la gente può lamentarsi.
Certo quel Blair, madonna pellegrina della Leopolda, finisce per sembrare un po’ troppo liberale all’accoppiata dei neo costituzionalisti di Rignano, che le lagnanze di una plebe piagnona proprio non le sopportano, in presenza delle magnifiche sorti e progressive dell’occupazione, della governabilità modello P2, delle elargizioni di munifiche mancette, della tenacia con la quale viene garantita la permanenza nella compagine dei Grandi, sia pure al tavolo bambini, sia pure ingoiando qualsiasi boccone amaro, sbertucciati come piccoli e notori cialtroni, tollerati solo quando si dimostra ubbidienza cieca.
Perché è evidente che la riduzione di democrazia non è necessaria tanto per combattere fanatici, lupi solitari, cellule perverse, terroristi in nome di Allah che fanno certamente più danni a Baghdad che da noi, e che, anzi, le leggi speciali in Francia hanno dimostrato la loro inefficacia e il scarso potenziale di deterrenza, tanto che il grido levatosi contro il Ministro Valls alla cerimonia per le vittime di Nizza è stato: vattene, andate a casa, cambiate lavoro. No, la lotta al terrorismo diventa lo strumento privilegiato di autorizzazione alla cancellazione di diritti e partecipazione. I governi che partecipano alla politica di lotta al terrorismo sono considerati naturalmente democratici; al contrario qualsiasi movimento politico radicale che si oppone a un governo aderente al programma di lotta al terrorismo può essere criminalizzato, come è dimostrato dalla lista di organizzazioni terroristiche redatte dal Consiglio Europeo che comprende il Pkk, il partito curdo, impegnato in difesa dei territori contro l’avanzata dell’Isis, finanziata da poco oscuri investitori e “armatori” occidentali, per consolidarne l’immagine di Nemico Pubblico del sultano fino a oggi invitato con tutti gli onori a far parte della famiglia europea.
Ridurre a carta straccia le Carte costituzionali è il primo passo, fortemente simbolico, perché dimostra l’irriducibile volontà di esautorare i parlamenti retrocessi a notai obbligati alla conferma delle imposizioni dell’esecutivo, la tenace determinazione a espropriare il popolo di qualsiasi potere e accesso al processo decisionale.
Ma rivela anche l’odio per ideali e principi che riguardano la difesa delle prerogative, la tutela delle garanzie, il rispetto dell’ambiente, la salvaguardia del territorio, la supremazia dell’interesse generale su quello privato.
Da là, via via, subirà una formidabile accelerazione la trasformazione dei codici penali e di procedura penale che era in corso da molti anni, desiderata favorita dalla svolta privatistica impressa dalle leggi ad personam e dal permanere del conflitto di interesse, con una rivoltante messa in discussione dell’esistenza stessa dello Stato di diritto, tutti atti giustificati dell’emergenza, ma si iscrivono in un disegno che vuole sostituire il regno dell’ordine al “popolo sovrano”.

lunedì 18 luglio 2016

IL MITO DEL COSMOPOLITISMO

Ora che delle ribellioni populiste stanno portando la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea e il partito repubblicano fuori dai giochi per la presidenza, forse dovremmo parlare non più di destra e sinistra, liberali e conservatori. D’ora in poi le grandi battaglie politiche saranno combattute tra nazionalisti e internazionalisti, nativisti e globalisti. D’ora in poi le lealtà che contano saranno strettamente tribali – rendere l’America “Great Again”, questo campo benedetto, questa terra, questo regno, questa Inghilterra – o multiculturale e cosmopolita.
Beh forse. Ma descrivere la divisione in questo modo ha un grande difetto. Dà al punto di vista dell’elite nel dibattito (il lato che ne discute di più) troppa importanza per essere veramente cosmopolita.
Il cosmopolitismo genuino è una cosa rara. Richiede essere ben disposti verso la vera differenza, con i modi di vita che sono veramente esotici rispetto al proprio. Prende spunto dal verso di un drammaturgo romano che “nulla di umano mi è estraneo”, e va verso l’esterno pronto per essere trasformato da ciò che trova.
Le persone che si considerano “cosmopolite” nell’occidente di oggi, al contrario, fanno parte di un ordine meritocratico che trasforma la differenza in similitudine, selezionando i migliori e i più brillanti da tutto il mondo e omogeneizzandoli nella peculiare specie che noi chiamiamo “cittadini globali”.
Questa specie è multirazziale (entro certi limiti) e desiderosa di assimilare i pezzetti che sembrano divertenti delle culture straniere – cibo, un tocco di spiritualità esotico. Ma non meno degli gli abitanti della Cornovaglia che hanno votato per il brexit, i nostri cittadini globali pensano ed agiscono come membri di una tribù.
Hanno la loro specifica visione del mondo (fondamentalmente, un cristianesimo liberale senza Cristo), la propria esperienza educativa comune, i propri valori e le ipotesi condivise (gli psicologi sociali li chiamano WEIRD : per Western -occidentale-, Educated -educato-, Industrialized -industrializzato-, Rich -ricco- and Democratic -democratico-), e, naturalmente, i propri gruppi nemesi (evangelici, “piccoli inglesi”) da temere, compatire e disprezzare. E come ogni coorte tribale, cercano comfort e cose familiari: da Londra a Parigi a New York, ogni “città globale” occidentale (come ogni “università globale”) è sempre più intercambiabile, in modo che ovunque il cittadino del mondo viaggia si sente già a casa.
Infatti, il tribalismo d’elite è attivamente incoraggiato dalle tecnologie della globalizzazione e dalla facilità del viaggiare e della comunicazione. La distanza e la separazione costrincono all’incontro e all’immersione (nelle culture aliene, ndt), che è il motivo per cui l’età dell’impero creò cosmopoliti e sciovinisti – a volte delle stesse persone. (C’è più cosmopolitismo genuino in Rudyard Kipling e Thomas Edward Lawrence e Richard Francis Burton che in un centinaio di sessioni di Davos.)
E ancora possibile scomparire nella cultura di qualcun altro, abbandonare questa finzione di cittadino-globale. Ma nella mia esperienza le persone che lo fanno sono eccezionali o eccentrici o che naturalmente vivono ai margini già dall’inizio – come un giovane scrittore che conoscevo che aveva viaggiato in Africa e in Asia, più o meno a piedi per anni, non per un libro, ma solo perché gli andava, o la figlia di missionari evangelici che è cresciuta in Asia meridionale e vissuto a Washington, DC, come una tappa prima di trasferire la propria famiglia in Medio Oriente. Queste non sono le persone che salgono al potere, che diventano quelli all’interno del sistema contro i quali i populisti si rivoltano.
Nel mio caso – di parlare come uno all’interno del sistema per un momento – il mio cosmopolitismo probabilmente ha raggiunto il picco quando avevo circa 11 anni, quando, allo stesso tempo, frequentavo servizi di culto pentecostali dove si usava la glossolalia, giocavo nella Little League in un quartiere operaio, mangiavo insieme a vecchi hippies nei ristoranti macrobiotici durante il fine settimana, mentre nel frattempo frequentavo una scuola parrocchiale Episcopale liberale. (È una lunga storia.)
Una volta che ho cominciato a frequentare una università globale, vivendo in città globali, lavorando e viaggiando e socializzando con i miei concittadini a livello mondiale, la mia esperienza di vera e propria differenza culturale è diventato molto più superficiale.
Non che ci sia necessariamente qualcosa di sbagliato in questo. Gli esseri umani cercano una comunità, e l’apertura permanente è difficilmente sostenibile.
Ma è un problema che la nostra tribù di cosmopoliti sedicenti non si vede chiaramente come una tribù: perché significa che i nostri leader non riescono a vedere se stessi nel modo in cui gli elettori a favore di del Brexit e quelli a favore di Trump e Marine Le Pen li vedono.
Non riescono a capire che quella che si sente diversa al suo interno può ancora essere vista come un’aristocrazia agli esclusi, che guardano alle città come Londra e vedono, come Peter Mandler ha scritto per la testata “Dissent” dopo il voto Brexit “, un casta professionale quasi ereditaria di avvocati , giornalisti, pubblicisti e intellettuali, una casta sempre più ereditaria di politici, cenacoli ristretti di agitatori culturali riccamente sponsorizzati dalle multinazionali.”
Non possono capire che i peana per l’apertura multiculturale possono suonare come egoistici luoghi comuni proveniendo da londinesi a favore di frontiere aperte a cui piacciono i ristoranti afghani, ma non vivrebbero mai neanche vicino a un progetto di edilizia abitativa per immigrati, o da parte di liberali americani che salutano la fine della supremazia bianca mentre fanno tutto il possibile per tener lonatno i loro figli dalle scuole dove le minoranze sono in maggioranza.
Non possono capire che la loro visione della storia come di una traiettoria che inesorabilmente si allontana da tribù e religione e stato-nazione sembra a quelli fuori dal sistema come qualcosa di familiare che viene da epoche passate: una egoistica spiegazione da parte di una casta potente del perchè solo lei merita di governare il mondo.

venerdì 15 luglio 2016

FMI: LA RECESSIONE IN ITALIA DURERÀ VENT’ANNI

Secondo la relazione annuale del Fondo, la terza più grande economia della zona euro potrebbe non avere una ripresa fino alla metà del 2020.
Nel difficile clima finanziario del post-Brexit, il Fondo Monetario Internazionale ha segnalato la fragilità delle banche italiane, lanciando l’allarme sul fatto che la terza più grande economia della zona euro dovrà soffrire per quasi due decenni prima di poter cominciare a recuperare il terreno perduto dal crollo finanziario del 2008.
Questo lunedì le banche italiane hanno subito pesanti perdite, quando l’Unione europea insisteva che il governo di centro-sinistra di Matteo Renzi deve rispettare le regole sugli aiuti di Stato, regole che limitano la possibilità di Roma di fornire aiuto alle banche gravate dai crediti in sofferenza (NPLs) causati dalla stagnazione dell’economia.
Il FMI ha detto che l’Italia si sta “riprendendo gradualmente da una profonda e prolungata recessione“, ma ha anche detto che il processo di ripresa probabilmente sarà “lungo e soggetto a rischi”. Ai sensi del suo Article IV – che prevede un controllo annuale sulla salute economica e finanziaria dei paesi membri – il FMI ha sottolineato che l’Italia rimane vulnerabile ad un insieme di rischi e minacce che potrebbero provocare effetti a catena sul resto dell’Europa e del mondo.
Il FMI prevede che l’economia italiana non tornerà ai livelli pre-2007 prima della metà degli anni 2020. Durante questo periodo di lenta ripresa, il paese avrà una crescita relativamente più modesta rispetto ad altri paesi della zona euro, mentre le sue banche continueranno ad essere fortemente esposte agli shock.
“I rischi hanno origine nei ritardi nell’affrontare la qualità degli attivi del sistema bancario, nella accresciuta volatilità sui mercati finanziari mondiali – sia per il Brexit, che per il rallentamento del commercio mondiale che pesa sulle esportazioni, che per l’afflusso dei rifugiati e le minacce alla sicurezza che potrebbero complicare ulteriormente gli interventi di politica economica” si dice nel report del Fondo monetario internazionale.
“Se i rischi dovessero materializzarsi, le ricadute regionali e globali potrebbero essere significative, dato il peso sistemico dell’Italia.“
Il voto della Gran Bretagna per l’uscita dall’Unione Europea ha portato l’attenzione degli investitori sui problemi del settore bancario italiano, nel timore che le rinnovate turbolenze nella zona euro porteranno ad una minore crescita, a una nuova ondata di fallimenti, e a un aumento delle sofferenze. Unicredit, la più grande banca italiana, dal 23 giugno ha perso un terzo del suo valore, e lunedì le sue azioni hanno subito un calo di quasi il 4%.
Il FMI ha dichiarato: “Con l’economia in recessione, i crediti in sofferenza sembrano stabilizzarsi a circa il 18% dei prestiti, uno dei livelli più alti della zona euro.” Questi crediti inesigibili, ha aggiunto, hanno fatto sì che i margini di profitto delle banche italiane siano stati tra i più bassi in Europa e hanno anche alterato la loro capacità di concedere prestiti.
Gli istituti di credito italiani hanno lottato per mesi per scaricare € 360 miliardi di sofferenze – circa un terzo del totale della zona euro. Questi sono cresciuti costantemente dall’inizio della crisi finanziaria globale nove anni fa, con il Pil italiano che ha subito un calo del 10%.
Il FMI ha detto che le banche italiane avevano aumentato la loro raccolta nel corso del 2015 per incrementare la ripresa finanziaria, ma i loro coefficienti patrimoniali erano ancora al di sotto della media della zona euro. Ha rilevato che, nonostante ulteriori misure imposte su alcune banche specifiche, le preoccupazioni per le sofferenze e la scarsa redditività in un periodo di bassi tassi di interesse quest’anno hanno sottoposto le banche italiane “a una intensa pressione del mercato, con perdite di oltre il 40% del loro valore di mercato“.
Il rapporto ha evidenziato altre debolezze, tra cui la bassa produttività e la scarsa crescita degli investimenti, un tasso di disoccupazione dell’11%, e un debito pubblico salito al 133% del PIL, che limita le possibilità di governo di Renzi di usare i tagli della pressione fiscale o l’aumento della spesa pubblica per stimolare la crescita.
L’Italia è in trattative con la Commissione europea per consentire il sostegno pubblico ai suoi istituti di credito più deboli, tra cui Monte dei Paschi di Siena. Gli aiuti di Stato alle banche sono consentiti dalla normativa dell’Unione Europea solo in casi eccezionali, di “gravi turbamenti” dell’economia.
Roma ha cercato di fare pressioni durante l’ondata di vendite che ha colpito il settore bancario dopo il Brexit, con Ignazio Visco, governatore della banca centrale d’Italia, che ha sottolineando come il governo italiano non possa escludere l’aiuto dello Stato. Ma questa idea è stata accolta freddamente a Bruxelles; il leader dei ministri delle Finanze della zona euro ha detto che i problemi delle banche italiane non sono ancora abbastanza gravi da consentire a Renzi di ignorare le regole sugli aiuti di Stato.
Solo in circostanze eccezionali un governo dell’Unione europea può fornire sostegno pubblico a una singola impresa o a un settore dell’economia, nel timore che i salvataggi sarebbero utilizzati per falsare la concorrenza. Il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha detto di non vedere alcuna “crisi acuta“: “Ci sono questioni di crediti in sofferenza delle banche italiane, ma non è un problema nuovo,” ha detto. “Le regole sono chiare e rigorose“.
Vi sono tuttavia dei segnali che l’Italia potrebbe andare a un confronto con l’Unione europea, in quanto il ministro delle finanze del paese, Pier Carlo Padoan, ha dichiarato che Roma avrebbe salvaguardato gli interessi dei risparmiatori. Entro la fine dell’anno il governo si trova ad affrontare un referendum molto combattuto sulle riforme costituzionali, dal quale dipende il destino politico di Renzi, che vuole dunque evitare l’ira dei piccoli investitori.

giovedì 14 luglio 2016

Chi fa la guerra al terrorismo dell’Isis?

Si susseguono, quasi indisturbati, gli attentati terroristici dell’Isis, e senza badare ai confini, da Dakka a Baghdad fino all’Arabia Saudita; questi atti criminali in pochi giorni hanno causato la morte di centinaia di persone innocenti: si parla di 300 morti in un mese, compresi anche i morti di Turchia e Usa, e non parliamo delle vittime della crisi siriana o di quelle dello Yemen. Terroristi che si muovano liberamente, in Europa, negli Usa, nel mondo arabo e nel sud-est asiatico, a dispetto di tutti i controlli e apparati di sicurezza dispiegati ovunque: possibile!?
In Occidente da due anni si parla molto dell’Isis, o Daesh, ovvero lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, ma si dimentica di parlare della sua origine, della sua provenienza e dei finanziamenti di cui gode.
Inizialmente, l'obiettivo della "creazione" di Al Qaeda era quello di combattere i comunisti nella guerra sovietico-afghana, con l'appoggio degli Stati Uniti, che guardavano al conflitto in corso in Afghanistan, tra i comunisti afghani alleati delle forze sovietiche da un lato, ed i mujaheddin afghani dall'altro, come a una pericolosa possibilità di espansione sovietica nella regione.
Gli Stati Uniti, seguendo il piano della CIA chiamato "Operazione Ciclone", hanno finanziato i mujaheddin afghani e pakistani che combattevano l'occupazione sovietica.
Allo stesso tempo, un numero crescente di mujaheddin arabi si è unito ad Al Qaeda (venivano chiamati "afghani arabi"), in nome della jihad contro il regime marxista in Afghanistan, con l'appoggio finanziario delle organizzazioni islamiche internazionali, in particolare l'Ufficio dei Servizi dei Mujaheddin Arabi, che ha forniti loro circa $ 600.000.000 all'anno, dono del governo del Regno dell’Arabia Saudita e di altri benestanti musulmani, soprattutto ricchi sauditi e stretti collaboratori di Osama bin Laden.
Finita la guerra, l'Unione Sovietica si è ritirata dall'Afghanistan nel 1989, e il governo comunista afghano di Mohammad Najibullah ha resistito per altri tre anni dopo la guerra, prima di cadere per mano dei Taleban. Questi, per incapacità di governare e per lotte intestine, hanno portato il paese nel caos totale.
Al Qaeda fu creata da gruppi di mujaheddin al seguito di Bin Laden, con il pretesto di liberare le terre dell’Islam; si trattò in realtà di un'alleanza di Bin Laden con il gruppo egiziano di Al Zawahiri, avvenuta nel 1988, cioè due anni prima dell’invasione irachena del Kuwait. Questo gruppo si è reso responsabile di diversi attentati, e in particolare dell'attentato alle Torri gemelle (dell'11 settembre 2001) che ha scatenato la guerra globale al terrorismo.
Una parte di Al Qaeda, che mirava alla costituzione del Califfato islamico, si è staccata ed ha dato vita allo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante.
Approfittando del caos generatosi dopo la fine del regime di Saddam e del fallimento del tentativo americano di portare la democrazia in quel paese, l’Isis ha potuto estendere il suo potere territoriale fino a
100 km dalla capitale Baghdad, e controllare così una parte del confine con la Siria.Tutto ciò rientrava perfettamente nel piano dell’amministrazione americana conosciuto come “il nuovo grande Medio Oriente”, o strategia del "caos creativo", che si è palesato con la cosiddetta primavera araba.
L’Occidente non avrebbe mosso neanche un dito per fermare i movimenti radicali dei fondamentalisti dell’Isis se non fossero stati divulgati gli atti di criminalità inaudita compiuti contro i malcapitati nelle mani dell’Isis (le brutali decapitazioni che tutti ricordiamo), compresi alcuni prigionieri occidentali.
E’ stata la reazione/pressione dell’opinione pubblica mondiale a spingere i riluttanti governi occidentali, che, seppur a parole, hanno dichiarato guerra al terrorismo dell’Isis, ma non hanno smesso di comprare il petrolio, di contrabbando e a buon prezzo, in cambio di armi e sostegno logistico ai terroristi dell’Isis. Infatti, quando l’Isis annuncia spostamenti da una parte all'altra con carovane di carri e blindati carichi d’armi, sotto gli occhi di tutti, e in piena "guerra al terrore", non c'è nessun intervento da parte “dell’alleanza mondiale” che dovrebbe portare avanti la guerra.
I vari gruppi fondamentalisti che combattono in Siria contro il regime di Assad, dall’Isis ad al Nusra, hanno in comune, con le dovute differenze, l’appartenenza al movimento mondiale dei Fratelli musulmani, che ha base in Egitto ma è presente anche in Turchia e in Qatar, e gode da parte di questi Stati di un sostegno economico e militare enorme. Schierato a suo favore troviamo anche il Wahabismo che governa in Arabia Saudita, che, pur in disaccordo con i Fratelli musulmani, li sostiene in Siria contro Assad, ma li combatte in Egitto, tanto da condizionare la politica economica egiziana. Guarda caso, sono tutti paesi alleati con gli Stati Uniti e l’Europa.
La signora Clinton, candidata alla presidenza americana, dichiara pubblicamente, senza pudore, che “siamo stati noi a creare l’Isis; poi è sfuggito al nostro controllo”, così come Tony Blair, ex primo ministro inglese, riconosce che la guerra all’Iraq di Saddam, che ha provocato la morte di un milione di iracheni, era sbagliata. E non c'è nessuno che lo accusi di crimini di guerra e lo porti davanti a un tribunale internazionale per essere processato per i suoi crimini, insieme a tanti altri presidenti e capi di governo, che hanno partecipato a questa maledetta guerra!
Per combattere il terrorismo in tutti le sue varie forme, dal terrorismo di Stato al terrorismo religioso, culturale e mediatico, abbiamo necessità di una cultura diversa, una cultura basata sui diritti e sul rispetto delle diversità, culturali, religiose e etniche, senza discriminazione razziale; chi crede in questi valori ha il dovere di lavorare per essi, a cominciare dal basso, dalla scuola, e di lottare a favore di un mondo più giusto e più equo.

mercoledì 13 luglio 2016

Investimenti pubblici, il clamoroso caso ferrovie: 98,8% di fondi al Nord

La Leopolda è un’ex stazione ferroviaria. Lì ieri Debora Serracchiani, che coordina il tavolo trasporti, ha detto che in Italia bisogna investire soprattutto in ferrovie e «soprattutto al Sud». In effetti tra Sblocca Italia e legge di Stabilità ci sono quasi 5 miliardi di risorse fresche per le ferrovie (4.859 milioni), però con questa ripartizione territoriale: 4.799 da Firenze in su e 60 milioni a Sud di Firenze. Per chi ama le percentuali, il rapporto è 98,8% a 1,2%. È possibile immaginare qualcosa di più squilibrato? Forse la Serracchiani, che vive a Udine, per Sud intende il vicino Sud Tirolo perché di Mezzogiorno, negli ultimi provvedimenti del governo, ce ne è davvero poco, mentre per due volte a distanza di un mese si è finanziato per il Tunnel ferroviario del Brennero.
Per l'esattezza, sommando gli stanziamenti dello Sblocca Italia e quelli della legge di Stabilità, al Mezzogiorno è destinato il 19% dei nuovi finanziamenti complessivi e l'1,2% se si considerano soltanto quelli ferroviari.
L'1,2% è incommentabile, ma anche il 19% è poco rispetto a qualsiasi parametro oggettivo: è meno del 33% che rappresenta in rapporto all'Italia la popolazione delle otto regioni del Sud; è meno del 40% della superficie del territorio; è persino meno del 24% di tasse che nonostante la crisi versano i contribuenti meridionali, i quali quindi contribuiscono per quasi un quarto alla cassa comune e sono considerati meno di un quinto quando c'è da ripartire gli investimenti e poco più di un centesimo quando l'obiettivo è ammodernare le ferrovie o realizzarne di nuove. In altre parole, i meridionali si potrebbero permettere da soli quel 19% di investimenti in strade e binari e addirittura - con la quota del 5% in eccesso - partecipano a opere come il quadruplicamento della linea ferroviaria Lucca-Pistoia (poco a Nordovest di Firenze) la quale da sola assorbe il triplo di tutte le risorse assegnate in questa tornata alle ferrovie del Mezzogiorno.

martedì 12 luglio 2016

Come la crisi del capitalismo sta cancellando il futuro di un'intera generazione

Secondo l'ultimo rapporto annuale dell'Istat – cui faremo ampio riferimento in questa analisi - nel 2014 più di 6 giovani su 10 di età compresa tra i 18 e 34 anni vive ancora in casa dei genitori, il 62.5% del totale, in aumento rispetto agli anni precedenti. Vengono generalmente definiti "bamboccioni". Un termine, questo, ormai divenuto canonico nel linguaggio mediatico e tuttavia assai spregiativo, che ci allontana dalla reale comprensione delle radici del fenomeno e che denota soltanto una vergognosa arroganza padronale. Insomma, affermare aprioristicamente che "i giovani d'oggi non hanno voglia di lavorare" o che "in Italia e nei paesi mediterranei i vincoli familiari sono più forti" non fornisce una spiegazione convincente ed esaustiva. Per averla dobbiamo anzitutto analizzare il contesto sociale italiano nel quale la classe lavoratrice è stritolata in una morsa sempre più violenta dalla precarietà, dalla diminuzione dei salari, dalla povertà, dalla crescita delle disuguaglianze e dalla disoccupazione.
Bisogna innanzitutto focalizzarsi sugli effetti che le dinamiche del mercato del lavoro, in pesante contrazione a partire dal 2008 nonostante una recente e assai stentata "ripresa", stanno avendo sulle famiglie, il nucleo sociale di base. Nelle famiglie con almeno un componente in età lavorativa e senza pensionati, i cui redditi generalmente forniscono un aiuto in più in caso di difficoltà, l'esposizione alla vulnerabilità economica è determinata dalla presenza o assenza di occupati e dalla loro numerosità. Ebbene, dai dati Istat emerge che i nuclei familiari italiani sono stati colpiti in maniera particolarmente dura e violenta dalle conseguenze della crisi. Infatti le famiglie jobless, quelle più fragili perché prive di redditi da lavoro, sia monocomponenti sia composte da più persone, sono aumentate passando dal 9.4% del 2004 al 14.2% del 2015. Stiamo parlando di oltre 2 milioni di famiglie senza lavoro. E tale incremento ha riguardato in misura maggiore le famiglie giovani rispetto a quelle adulte: mentre per queste ultime l'incidenza è aumentata dal 12.7 al 15.1%, per le prime è raddoppiata passando dal 6.7 al 13%. Sono i minori che vivono nelle famiglie in cui sono presenti disoccupati, precari o lavoratori part time a pagare le conseguenze più pesanti di tutto ciò: l'indice di povertà relativa tra i minori infatti è passato dall'11-12% del 2011 al 19% del 2014. La loro condizione dunque è in netto peggioramento. Come è facile intuire diminuiscono le famiglie pluricomponenti economicamente più solide, ovvero quelle in cui sono presenti due o più occupati, che passano dal 45.1% del 2004 al 37.3% del 2015, mentre quelle con un unico occupato nello stesso arco temporale scendono dal 31.4 al 29.3%. La situazione è differenziata a livello territoriale poiché nelle zone svantaggiate, il Mezzogiorno in particolare, gli effetti della crisi sono drammaticamente accentuati a causa delle difficoltà già presenti. Qui infatti, dove già nel 2004 erano assai più diffuse, le famiglie senza lavoro toccano nel 2015 il 24.5% del totale, contro l'8.2% delle regioni del Nord e l'11.2% del Centro. La riduzione delle famiglie con due o più componenti occupati, dati i valori di partenza molto più bassi, al Sud è più marcata: da una famiglia su tre ad appena una su quattro. La situazione qui descritta si ripresenta anche per quanto riguarda le famiglie single: alla riduzione degli occupati corrisponde un forte aumento di coloro che sono privi di redditi da lavoro. Permangono anche in questo caso le forti differenze geografiche, dal momento che al Sud la quota di single senza lavoro è il doppio rispetto a quella del Nord (rispettivamente 41.4 e 17.4%). Nel complesso si più dire che la crisi del 2008 ha accentuato quei processi, comunque già in atto, quali la riduzione delle famiglie con redditi "sicuri" e l'aumento di quelle caratterizzate da una più o meno forte vulnerabilità economica (2).
Nel mercato del lavoro italiano negli ultimi 2 decenni, a seguito di tutta una serie di riforme il cui culmine è rappresentato dal recente Jobs Act, è stata condotta una sistematica opera di precarizzazione dei contratti, che si fanno più instabili, meno pagati e meno protetti, accompagnata dalla progressiva riduzione delle tutele e da un sempre più violento attacco ai diritti dei lavoratori. Le maggiori conseguenze sono pagate sopratutto sopratutto dai giovani. In effetti, sempre secondo i dati Istat (3), sono sopratutto coloro che sono nati dopo il 1970 a risentire delle condizioni lavorative sempre più sfavorevoli: per essi l'occupazione standard diminuisce rapidamente (dall'84.3 al 75.4% tra 2004 e 2015), mentre la percentuale di contratti atipici è in crescita (dal 9.9 al 13% nello stesso periodo). Nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni i contratti a termine rappresentano addirittura il 60% del totale, triplicati rispetto al 20% del 1998 (4). Molto spesso tale condizione di precarietà e assoluta instabilità economica diviene permanente, intrappolando molti giovani lavoratori in un circolo vizioso senza fine: infatti solo il 55% di coloro che entrano nel mercato del lavoro con un contratto temporaneo riesce ad avere un occupazione stabile entro i dieci anni successivi. Si tratta di uno dei dati più bassi tra i paesi membri dell'Ocse. Secondo quest'ultima, ben il 40% degli under 25 mantiene il posto di lavoro per meno di dodici mesi (5). A questo infelice quadro va aggiunto il tasso di disoccupazione giovanile che a gennaio 2016 tocca quota 39.3%, una percentuale quasi raddoppiata rispetto al 2007, l'anno immediatamente precedente all'esplosione della grande crisi economica, quando toccava quota 20.4%. I neet, coloro che non studiano ne lavorano, raggiungono al di sotto dei 30 anni la quota record del 26% (6). Come era facilmente prevedibile, ne il Jobs Act ne la Garanzia Giovani, ovvero ulteriori manovre di svalorizzazione della forza lavoro, ulteriori attentati ai suoi diritti, hanno risolto questo grave problema.
Una delle principali cause di questo fenomeno è il disallineamento tra le competenze dei giovani lavoratori e le esigenze delle imprese, dunque tra offerta e domanda di lavoro. Di fatto il 31.6% dei giovani svolge mansioni che non necessitano di competenze specifiche. Uno su quattro è "sovraistruito" rispetto a quanto chiedono le aziende, e a tre anni dalla laurea solo il 53.2% ha trovato un lavoro "ottimale". Il comparto imprenditoriale italiano in effetti è da sempre, e in particolare in tempi di crisi, poco propenso ad investire in innovazioni tecnologiche nei processi produttivi, in quanto preferisce recuperare competitività e margini di profitto mediante l'abbattimento del costo del lavoro, puntando su manodopera a basso costo, dequalificata, flessibile e priva di tutele.
Andando poi ad analizzare brevemente la situazione salariale, il quadro complessivo resta drammatico. Bisogna anzitutto partire dalle dinamiche internazionali. Secondo il Rapporto sui Salari dell'ILO (International Labour Organization), la crescita globale dei salari è rallentata nel 2013, essendo cresciuti solo dello 2.0%, mentre nel 2012 l'aumento è stato del 2.2%.
In ogni caso i livelli pre-crisi non sono ancora stati raggiunti. In particolare nelle economie sviluppate si presenta una vera e propria condizione di stagnazione salariale: a partire dal 2008 i salari reali sono costantemente diminuiti o sono in stallo e in alcuni paesi, Italia compresa, nel 2013 la media è stata inferiore rispetto al 2007. Ricordiamo che i lavoratori italiani sono tra i meno pagati d'Europa; il nostro paese inoltre si piazza alle ultime posizioni a livello continentale per quanto riguarda i salari d'ingresso e risulta ultimo per le retribuzioni dei neolaureati (7). Va inoltre aggiunto che a partire dal 1999 in tutto il gruppo delle economie avanzate i salari nominali sono cresciuti più lentamente della produttività del lavoro (8). Questo distacco sempre più ampio riflette la tendenza iniziata negli anni '70 del declino della quota dei redditi da lavoro sul PIL, ovvero la parte del reddito nazionale assegnata ai lavoratori dipendenti nell'ottica della distribuzione del reddito stesso tra i vari fattori produttivi: lavoro, terra e capitale. Mentre nei decenni precedenti la quota dei salari era costantemente cresciuta, la sua caduta a partire dai primi anni '70 è contemporanea e generalizzata in tutti i paesi sviluppati. Tale quota in Italia è stata più bassa rispetto a quella degli altri paesi fin dall'inizio, e dopo essersi mostrata sostanzialmente stabile per due decenni, segna un crollo notevole (circa undici punti) a partire dalla metà degli anni novanta. La tendenza qui descritta, tanto in Italia quanto nelle altre nazioni considerate, non mostra alcun segno di recupero (9). Non è un caso poi che essa coincida con l'inizio dell'inceppamento del processo di accumulazione capitalistico, a seguito della caduta dei saggi di profitto. In effetti riduzione dei salari, accompagnata ad un più generale smantellamento dei diritti e delle tutele dei lavoratori, è uno dei principali strumenti di compensazione cui il capitale ricorre in tempi di crisi. Ovviamente ciò non significa che la compressione salariale sia una misura risolutiva, anzi non fa altro che aggravare il problema riducendo i consumi, peggiorando la produttività e contraendo ulteriormente la domanda.
Per completare il quadro va aggiunto che il nostro è uno dei paesi in cui le disuguaglianze di classe si allargano più profondamente e a ritmi più veloci (ne avevamo già parlato in una precedente analisi). Basterà solo dire che l'indice Gini, indicatore che misura la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, in Italia tra 1990 e 2010 è passato da 0.40 a 0.51. E' l'incremento più alto tra tutte le nazioni per cui sono disponibili i dati (10). Inoltre la fascia di età che comprende i giovani tra i 18 e i 25 anni è divenuta, dopo quella dei minori, la più colpita dalla povertà: l'incidenza ha raggiunto il 15%, ben al di sopra della media Ocse. Si tratta di una tendenza destinata a proseguire nei prossimi anni (11). Il sistema di protezione sociale del nostro paese è in termini di efficienza il peggiore in Europa dopo quello greco, essendo incapace di contrastare la povertà e di porre un freno alle disuguaglianze mediante azioni redistributive (12). In tale contesto sono i redditi pensionistici delle generazioni più anziane a svolgere quell'importante funzione di ammortizzatore sociale di ultima istanza, in particolare per i più giovani. Chi è nato dopo gli anni '80, come affermato dal presidente dell'INPS Tito Boeri, dovrà lavorare fino ai 75 anni, e molto probabilmente non percepirà la pensione o la avrà in forma estremamente ridotta, quindi non potrà sostituirsi all'inefficace Welfare statale per sostenere i propri figli (13). Il già tragico quadro sociale italiano è destinato dunque ad aggravarsi pesantemente nei prossimi anni.
La situazione fin qui descritta è eloquente. In un contesto in cui povertà e disoccupazione si fanno strada velocemente, in cui i salari calano in maniera drastica o nella migliore delle ipotesi stagnano, mentre il lavoro diviene sempre più ricattabile, sempre meno tutelato e il precariato si fa permanente, è difficile che un giovane lavoratore, sopratutto se parte già da una posizione di svantaggio, possa riuscire a trovare i mezzi economici sufficienti per sostenere la propria emancipazione. Per farlo sarebbe necessario un lavoro dignitoso, stabile e ben pagato, un lusso che sempre meno persone riescono a conquistare. Intere generazioni di lavoratori sono vittime di questo sistema che, stritolato dalle sue stesse intrinseche e insanabili contraddizioni, sta annientando il loro futuro e cancellando la loro identità.

lunedì 11 luglio 2016

La Troika scarica la sua creatura Renzi e pretende lo "spacchettamento" del referendum

Quando De Benedetti avvisa Renzi che se non cambia l'Italicum voterà NO al Referendum sulla controriforma costituzionale, vuol dire che gli equilibri del Palazzo sono saltati. Solo poche settimane fa D'Alema aveva accusato La Repubblica di essere il giornale di casa Renzi, ora il proprietario di quel quotidiano sfiducia il presidente del consiglio finora fanaticamente sostenuto. Cosa è successo? Semplicemente le amministrative hanno travolto Renzi e il PD e la Brexit ha messo sull'avviso tutto il capitalismo europeo sul bis che si starebbe preparando in Italia con il referendum inizialmente previsto ad ottobre.
È stato il Financial Times a lanciare il segnale d'allarme. Guardate, ha scritto, che la probabile vittoria del NO nella consultazione italiana porrebbe un'altra falla nel sistema europeo, paragonabile e forse persino superiore a quella della Brexit. Non dobbiamo stupirci che la controriforma della Costituzione italiana interessi tanto la finanza europea. Sono stati i poteri finanziari a chiederla, come garanzia bancaria della realizzazione completa delle riforme liberiste. E soprattutto sono quei poteri che temono un altro pronunciamento popolare che, alla fine , sarebbe anche contro di loro.
Dopo l'allarme rosso dei poteri forti europei è così scattato quello dei loro omologhi italiani, che hanno brutalmente commissariato Renzi facendogli capire che non hanno alcuna intenzione di perdere con lui. La macchina per produrre altri uomini della Provvidenza si è dunque rimessa in moto, però c'è un problema, per trovare il sostituto di Renzi ci vuole tempo, mentre il fanfarone di Rignano ha sfidato il paese a sfiduciarlo nel prossimo ottobre. Si è quindi messo in moto il partito trasversale del salvataggio del regime, quello che non vuole che materie così importanti come la nostra Costituzione siano affidate al SI o al NO di un popolo. Che come abbiamo letto dopo la Brexit, è rozzo superficiale e poco informato.

È partita quindi la campagna per lo "spacchettamento "del quesito, che dovrebbe diventare una specie di test attitudinale per misurare, attraverso diversi quesiti, la competenza degli elettori. I radicali, da tempo corsari con patentino delle imprese che il palazzo non sempre può realizzare in prima persona, si sono impegnati a chiedere ben 5 pronunciamenti su una sola scheda elettorale . L'Azzeccagarbugli principe del Palazzo, Giuliano Amato, ha suggerito una via che permetterebbe di rinviare il referendum all'anno prossimo, tra contenziosi vari sulla sua formulazione. Il Sole 24 Ore ha dato appoggio alla iniziativa.
Insomma il palazzo, le stesso che fino a poco tempo fa esaltava Renzi, ha imposto a questi di tacere e di accodarsi alle grandi manovre per rendere il referendum inoffensivo per il potere vero. Ora il presidente del consiglio è costretto a balbettare come Berlusconi nel 2011, quando gli stavano preparando Il governo Monti. Intanto però si lavora per sottrarre al popolo il diritto a pronunciarsi in modo chiaro su quello che è stato il più grave attacco ai suoi diritti democratici da quando esiste la Repubblica . Dobbiamo dire no allo spacchettamento e a tutte le manovre di regime. Si fissi la data del voto e basta con questi trucchi, che dimostrano solo lo squallore di chi ci governa e vuol continuare a farlo a tutti i costi.

venerdì 8 luglio 2016

Expò universale della mafia

Adesso che il commissario dell’Expò è stato eletto sindaco di una Milano atona e imbevibile, si può cominciare a demolire definitivamente la facciata di cartapesta dell’esposizione. Dopo le clientele e la corruzione selvaggia che hanno reso necessaria la la sceneggiata di Cantone a buoi usciti dalle stalle, adesso spunta la mafia come si poteva facilmente immaginare perché degrado etico e politico vanno di pari passo con la criminalità organizzata, sono nel migliore dei casi convergenze parallele. Ma non è questo il punto: il punto è che chi ha retto questo palese verminaio per due anni dal 2013 al 2015 adesso è sindaco. Il punto è che l’Expo è stato un completo fallimento, un successo esclusivamente di carta da giornale e le cifre parlano chiaro: per le casse pubbliche la perdita ufficiale è di un miliardo e mezzo, più le spese nascoste, mentre la stima del valore aggiunto, ovvero il conto di tutto il giro di attività dell’Expo e attorno all’Expo (alberghi, viaggi, biglietti, ristoranti e quant’altro) arriva a malapena a un miliardo e 300 milioni.
Il punto è che il commissario straordinario dell’esposizione è diventato sindaco pur provenendo da un disastro che stato tale non solo dal punto di vista dei conti, ma anche da quello del ritorno di immagine che ha avuto una risonanza quasi zero e quella poca negativa: sì 21 milioni di biglietti ( anche ammesso che sia vero) di cui molti omaggio, di cui moltissimi a pochi euro per le scolaresche disperatamente inviate a far numero parecchie delle quali mandate due volte, di cui milioni gratuiti per i pensionati e molti altri fortemente scontati, persino dallo stesso Pd che si è trasformato in banditore dell’esposizione a maggior gloria del suo segretario. Sta di fatto che il 38 per cento dei visitatori proveniva dalla stessa Lombardia, il 46% dal resto dell’Italia e solo il 16 per cento da altri Paesi , quasi tutti da Francia e Gran Bretagna, in genere turisti comunque in vacanza da noi e che hanno fatto una puntata a Milano. Per quella che ambiva ad essere una esposizione universale è una catastrofe, una mutazione in fiera da paese. E tuttavia i milanesi vuoi perché hanno visto qualche soldino derivante alla fine dai fondi pubblici o perché sperano che Sala sia un sindaco con abbastanza pelo sullo stomaco da allestire altre mangiatoie per Comunione e Liberazione, amici di Renzi e compagnia cantante o infine perché si fanno facilmente raggirare dall’informazione di regime lo hanno votato, preferiscono illudersi piuttosto che affrontare le fatiche della disillusione. La quale ci dice alla fine che l’Expo è stato voluto, pensato, approntato non per rilanciare l’immagine dell’Italia, peraltro nell’unico campo, quello culinario, in cui non ne ha bisogno, ma con lo scopo principale di favorire e sviluppare affari opachi: purtroppo Milano non è zona sismica e dunque non dispone delle “risorse territoriali” di altre aree, tocca lavurà per crearle. E si vede che questo lavoro premia anche alle elezioni.
Eppure i dati che riporto sono conosciuti da oltre otto mesi e probabilmente sono pure edulcorati: l’immagine della città con i ricatti sui capannoni, la sciatteria dell’insieme, i ritardi biblici, la clientela selvaggia, il lavoro senza salario, il non senso di un Expò che doveva nutrire il pianeta e si è ridotto a una pretenziosa tavola calda, è stata sabotata non certo migliorata. E ora la mafia, anche se colui che doveva vigilare continua a giocare ai quattro Cantoni, minimizza pure l’apparizione delle coppole, finge di non conoscere le indagini dei suoi colleghi della ‘ndrangheta in Lombardia, è palesemente posseduto da un renzismo interiore che non lascia scampo all’onestà intellettuale. Qualcosa sembra frapporsi tra l’opinione pubblica e la realtà, fra l’etica e le scelte, fra gli interessi a lungo termine e l’obolo maledetto e subito.
Non solo da noi: per quanti anni Blair è stato portato sugli scudi nonostante il suo sconcertante ruolo di bugiardo a tutto campo e guerrafondaio senza scrupoli nella vicenda irakena? Il rapporto ufficiale Chilcot che riunisce oltre 100 mila documenti in relazione alla vicenda, comprese le lettere del premier inglese a Bush pubblicate ieri, mostrano un impietoso e terrificante ritratto del personaggio, aggiungono una pennellata di repulsione, ma i fatti erano ben conosciuti fin dal 2005. Eppure l’uomo viene tuttora lautamente pagato per tenere conferenze, dare lezioncine, arrampicarsi sugli specchi, è richiesto di interviste e moniti. Eppure nonostante fosse già conosciuto come l’autore della colossale bugia sulle armi di distruzione di massa nonché come traditore del labour è stato rieletto. Il collegamento non sta nel fatto che fu proprio Blair, a lanciare Renzi alla ribalta nazionale, sta nel fatto tutto contemporaneo che ad ogni azione non corrisponde una reazione. A un fallimento o a una bugia corrisponde un’elezione

giovedì 7 luglio 2016

Renziane corrispondenze d’amorosi sensi

Mentre il Partito Democratico alle ultime elezioni amministrative sembra aver raccolto voti solo nei centri storici, la sua base storica, quella meno salottiera, è sempre più lontana e lo sfondamento al centro che aveva permesso di superare alle elezioni europee del 2014 la soglia del 40% è ormai un ricordo sbiadito. Il consenso della prima fase si sta sgretolando in modo lento ma costante ma è l’azione di governo nel suo complesso, sia per l’inefficacia delle proposte che per una retorica che inizia già ad essere stantia, ad aver perso energia e capacità d’aggregazione.
Non può quindi stupire un certo nervosismo del nostro Premier stretto tra un partito che di questo passo presto avrà più aspiranti segretari che iscritti e la spada di Damocle del referendum costituzionale del prossimo autunno, improvvidamente trasformato dallo stesso Renzi in un referendum sulla sua persona, avendo questi annunciato che in caso di esito negativo non solo darà le sue dimissioni da capo del governo ma abbandonerà addirittura la vita politica. Consigliamo di non puntare grosse cifre su questa seconda ipotesi. Dubitiamo infatti che Renzi ci priverà della sua presenza nell’agone negli anni a venire ma i sondaggi e la situazione politica attuale rendono realistica l’ipotesi di una fine prematura della legislatura o quantomeno di questa esperienza di governo. Questa debolezza manifestata all’ultima tornata elettorale fa sì che le forze di opposizione vedano nel referendum il momento della resa dei conti con il governo, e lo stesso centro destra nave senza nocchier e in gran tempesta dopo aver tergiversato per molti mesi su posizioni benevolmente ambigue nei confronti del progetto di riforme, sembra indirizzato a un’opposizione non solo di facciata. D’altra parte gli amici, quelli veri, si vedono nel momento del bisogno e Renzi di questi tempi sembra averne ogni giorno di meno, con molti che ancora tacciono in attesa di vedere se la nave reggerà o se sarà il caso di salire su qualche scialuppa di salvataggio.
Tralasciando i soliti distinguo che si levano dall’opposizione interna al partito democratico e il no pronunciato in tempi non sospetti dall’ANPI, la stessa CGIL cautissima, come la flotta austriaca di buccariana memoria, in questi anni di smantellamento dello stato sociale e di asservimento a politiche di rigore, sembra rialzare la testa, sempre con la dovuta cautela s’intende, formulando un giudizio critico sulle modalità polarizzanti con cui è stato proposto il quesito referendario, nella sostanza una bocciatura pur senza esprimere una posizione ufficiale né dare indicazioni di voto ai suoi iscritti.
Ora che sembra alla mercé dell’avversa fortuna a correre in suo aiuto arriva la grande industria italiana, certo memore della sua dichiarazione d’affetto, quando ancora sindaco di Firenze disse: sto dalla parte di Marchionne senza se e senza ma…, per la quale oggi sembra valere la proprietà commutativa. A dare il la all’operazione di endorsment è Emma Marcegaglia, già presidente di Confindustria e ora alla guida dell’ENI nominata dallo stesso Renzi nel maggio 2014, che a conclusione di un convegno di giovani imprenditori dichiara d’essere “completamente favorevole alle riforme, un’occasione che non possiamo perdere”. L’autorevole parere della Marcegaglia è stato poi confermato dal consiglio generale di Confindustria che motiva il sì alle riforme in quattro punti:
il superamento del bicameralismo paritario, che significa più stabilità e governabilità. I Governi potranno assumere decisioni nell’interesse generale, senza guardare al consenso di brevissimo periodo, ma pensando al benessere dei cittadini;
il miglioramento della qualità dell’attività legislativa, che significa riduzione del time to market delle politiche pubbliche;
la semplificazione e la modernizzazione dei rapporti tra i diversi livelli di governo, che significa maggiore collaborazione tra Stato e autonomie e superamento della logica dei veti;
4. l’introduzione di misure di efficientamento della finanza pubblica, che significa soprattutto maggiore controllo sulla quantità e qualità della spesa degli enti regionali e locali.
A sostegno di queste valutazioni, il centro studi di Confindustria ha prodotto una serie di previsioni economiche sulle conseguenze della bocciatura del progetto di riforma costituzionale: paese in recessione dal 2017 con una perdita complessiva del PIL del 4%, 600.000 posti di lavoro in meno, 430.000 poveri in più, un sobrio -17% sugli investimenti e calate di lanzichenecchi sul patrio suolo. Numeri di questo tipo, considerando l’affidabilità delle previsioni economiche in questi anni, hanno lo stesso valore della lettura dei fondi di caffè, tra l’altro è noto che centro studi di Confindustria non azzecca una previsione sull’andamento del Pil dal 2008 per esempio, ma il loro utilizzo rimane necessario per nascondere posizioni di tipo ideologico giustificandole sotto il velo di un’illusoria razionalità quantitativa.
E’ interessante notare accanto a motivazioni di propaganda, controllo della spesa pubblica e semplificazione sono poste a sostegno di programmi di riforma dai tempi di Giolitti, altre che sono strutturali al pensiero confindustriale e a cui non possiamo che porre una ferma opposizione in quanto sostanzialmente antidemocratiche. Il primo punto nel momento in cui pone la stabilità a garanzia di decisioni che mirino al benessere dei cittadini senza essere influenzate dal consenso, nel migliore dei casi ha il sapore di un paternalismo peloso, sostenere che il popolo non sia in grado d’indirizzare il proprio voto la dove ci sia garanzia di un esercizio del potere nel suo interesse sottende alla convinzione che tale presunto interesse debba essere perseguito in sua vece, non avendo quest’ultimo sufficienti capacità di azione razionale per poterlo fare in proprio. Questo pensiero, molti sedicenti intellettuali hanno spudoratamente e pubblicamente espresso nel dibattito post-Brexit, è ribadito nel secondo punto: la qualità dell’attività legislativa coincide con una velocizzazione del iter procedurale. Velocizzazione per rispondere ovviamente alle esigenze del mercato che diventa il fine ultimo, trasformando la qualità in quantità e velocità, mentre il contenuto e il fine delle leggi passa in secondo piano proprio perché l’universo monodimensionale del capitale non è ideologicamente compatibile con iniziative legislative contrarie al suo dominio e alla sua razionalità. Rousseau diceva che la democrazia può esistere dove nessuno è così ricco da comprare un altro e nessuno così povero da vendersi, e questa è una verità necessariamente in contrasto con un sistema fautore di disuguaglianze. Rimane ironico e di sapore Orwelliano che sia proprio un partito che si definisce democratico ad essere il principale interlocutore di questo progetto.
Certo accanto a queste ragioni esplicite ce ne potrebbero essere altre ora nascoste, quello che possiamo concludere dopo un appoggio così palese, è che Confindustria ritiene il governo Renzi fondamentale e al momento insostituibile per il raggiungimento dei suoi fini politici ed economici. Questa apertura di credito è necessaria al Governo per mantenersi in linea di galleggiamento rendendo ancora possibile la vittoria referendaria, sia per il controllo sui mezzi di comunicazione tradizionale esercitato da questa tipologia di portatori d’interessi, sia per la capacità di parlare e d’influenzare quella parte di cosiddetti elettori di centro e di destra che potrebbero appoggiare il progetto di riforma costituzionale. Renzi si muove su un crinale sottile e scivoloso, se da un lato ha la necessità di ottenere voti e appoggi al di là del suo partito e dall’altra questo suo esplicitare la natura intrinsecamente organica al capitale della sinistra italiana, cosa che la rende strutturalmente indistinguibile dalla destra, sta sfaldando la falsa coscienza necessaria alla coesione a alla mobilitazione elettorale dei propri gruppi sociali di riferimento.
Da queste parti riteniamo probabile una vittoria del NO al referendum, seguita da una fase d’instabilità politica dagli esiti difficilmente prevedibili ma che è ragionevole pensare possano coincidere con un peggioramento della situazione economica complessiva. Eisenhower diceva che chi mette i propri privilegi davanti ai propri valori è presto destinato a perdere entrambi. Bene ricordarlo a chi, spinto da ragioni di realpolitk, fosse tentato di sbarrare il Sì sulla scheda elettorale.

mercoledì 6 luglio 2016

Rischio rivoluzioni colorate, Soros al lavoro contro la Brexit

La popolazione della Gran Bretagna sta per diventare la prossima vittima della tattica delle “rivoluzioni colorate” usata da Washington e Bruxelles contro i governi democraticamente eletti dalla Serbia alla Siria, dall’Ucraina al Brasile. Pochi giorni dopo la totalmente imprevista (anche da quest’autore) decisione popolare di resistere al bullismo dell’establishment e alle ondate della propaganda dei mass media per votare la Brexit, la contromossa dei globalismi sta già diventando chiara. Innanzitutto, un duro attacco alla sterlina e ai maggiori titoli azionari per mettere pressione finanziaria e giustificare le autogratificanti profezie apocalittiche che provengono dal campo degli sconfitti che volevano rimanere. Secondo, una pressione psicologica di massa organizzata da organizzazioni della “società civile”, come Avaaz, camuffata da protesta dal basso, ma de facto fondata da Fondazioni foraggiate da George Soros. La testa d’ariete di questa propaganda è la petizione per un secondo referendum, che ha già superato i tre milioni di firme, nonostante decine di migliaia di firme false siano state scoperte e rimosse.
Terzo, l’uso di altri gruppi della “società civile”, tra cui “SumOfUs” e “38 Degrees”, per promuovere banchetti di opinione pubblica “progressista” per spiegare quali temi ed attacchi contro il Brexit saranno maggiormente efficaci. È una tecnica-chiave insegnata George Sorosnel corso di formazione delle “rivoluzioni colorate”, formata sulle teorie di Gene Sharp e perfezionata da John Carlane, un liberale globalista ex ufficiale dell’esercito britannico, ora a capo del “Peace Education and Training Repository”. Quarto, la mobilitazione di crocchi di manifestanti arrabbiati e inclini alla violenza, a Londra ed in altre città chiave. Nonostante molti rappresentanti dell’estrema sinistra fossero a favore del Brexit, gang con bandiere comuniste ed anarchiche infestano le strade. Dovrebbero difendere le minoranze etniche (molte di queste in effetti hanno votato per il Brexit insieme ai connazionali della classe operaia) ma sono già state coinvolte in attacchi contro riconosciuti o sospetti sostenitori del Brexit.
Quinto, le truppe della propaganda di proprietà delle élite liberali e vicine alla Cia stanno mentendo e pontificando per sfruttare su quanto sopra scritto. L’obiettivo è spaventare i votanti pro-Brexit “morbidi”, per fargli cambiare parere e creare le condizioni per trasformare le elezioni generali in autunno in un secondo referendum. Il proposito di questa guerra politica ibrida sulla maggioranza della popolazione è di far deragliare l’intero processo del Brexit e mantenere la nazione all’interno dell’Ue (o perlomeno trasformare l’uscita in un casino tale dal disincentivare qualsiasi altra nazione a fare qualcosa di simile). Ciò spiega il perché il primo ministro Cameron ha già infranto la promessa fatta prima del referendum, secondo la quale, se avesse vinto l’uscita, si sarebbe immediatamente appellato all’Articolo 50 del Trattato di Lisbona per iniziare la procedura del Brexit. Ora è Cameronlapalissiano che le élite eurofile non hanno alcuna intenzione di permettere che un piccolo intoppo, come la volontà espressa democraticamente dalla popolazione, distrugga il processo di “un’unione ancora più stretta” o della “necessità” geopolitica di avere un’Ue unita per il confronto con la Russia.
Prima del voto dello scorso giovedì, a Bruxelles si erano tentate tutte le carte disponibili, incluso l’inganno e lo sfruttamento senza pietà dell’omicidio di Jo Cox, per assicurarsi un voto per restare. Nonostante il fallimento della campagna, una sparuta minoranza di irriducibili eurofili, attualmente guidata dal potente “tory” Lord Heseltine e da membri del Parlamento “moderati” laburisti e liberaldemocratici come David Lammy e Tim Farron, non accetterà il verdetto del referendum. Al contrario, sta tentando disperatamente di dare alle élite liberali la sicurezza in loro per sfoggiare un atto di estrema arroganza – negare al popolo britannico il diritto di vedere il loro voto concretizzarsi. Se la caveranno? O la reazione della gente comune quando realizzerà cosa sta succedendo sarà di sdegno tale da convincere gli eurofili che, già sul fondo del baratro, forse dovrebbero smettere di scavare? Non lo so. Ma non c’è dubbio che questa sarà la loro strategia. Non aspettiamoci stabilità nel prossimo futuro.

martedì 5 luglio 2016

La nuova politica estera britannica

La stampa occidentale continua a ripetere così: nel lasciare l'Unione Europea, i britannici si sono isolati dal resto del mondo e dovranno affrontare terribili conseguenze economiche. Tuttavia, il calo della sterlina potrebbe risultare un vantaggio in seno al Commonwealth, una famiglia più vasta rispetto all'Unione e presente in sei continenti. Pragmatica com'è, la City potrebbe presto diventare il centro mondiale dello yuan e impiantare la valuta cinese all'interno stesso dell'Unione.
Nell'immagine di apertura: Elisabetta II, Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, di Antigua e Barbuda, dell'Australia, delle Bahamas, di Barbados, del Belize, del Canada, di Grenada, delle Isole Salomone, della Giamaica, della Nuova Zelanda, di Papua Nuova Guinea, di Saint Kitts e Nevis, di St. Vincent e Grenadine, di Saint Lucia e di Tuvalu.
DAMASCO (Siria) - Gli Stati Uniti restano preoccupati circa la loro capacità di convincere l'Unione europea a partecipare attivamente alla NATO e circa la volontà del Regno Unito di continuare l'alleanza militare che hanno costruito sin dal 1941 per dominare il mondo. Infatti, contrariamente alle affermazioni dei leader europei, il Brexit non isola il Regno Unito, ma gli consente di tornare al Commonwealth e di stabilire contatti con la Cina e la Russia.
L'inquadramento degli europei nella NATO
Gli Stati Uniti e il Regno Unito avevano previsto di spingere i membri dell'UE ad annunciare l'aumento del loro budget militare al 2% del PIL in occasione del vertice dell'Alleanza a Varsavia (8 e 9 luglio). Inoltre, un piano di schieramento delle forze lungo il confine con la Russia doveva essere adottato, compresa la creazione di un'unità logistica congiunta della NATO e dell'UE, in grado di mettere in comune elicotteri, navi, droni e satelliti.
Il Regno Unito è stato fino ad ora il più grande contributore per l'Unione in materia di Difesa con quasi il 15% del bilancio della Difesa dell'UE. Inoltre, ha comandato l'operazione Atalante per la messa in sicurezza dei trasporti marittimi al largo del Corno d'Africa e aveva messo a disposizione delle navi nel Mediterraneo. Infine, era previsto che avrebbe fornito truppe per la costituzione del gruppo di combattimento dell'UE. Con il Brexit, tutti questi impegni diventano caduchi.
Per Washington, la questione consiste nel sapere se Londra accetterà o meno di aumentare la sua partecipazione diretta nella NATO -di cui è già la seconda contributrice - per compensare quello che faceva all'interno dell'UE, ma senza trarne particolare vantaggio. Anche se Michael Fallon, l'attuale ministro della Difesa britannico, ha promesso di non minare gli sforzi congiunti della NATO e dell'UE, non si vede il motivo per cui Londra sarebbe d'accordo nel piazzare ulteriori truppe sotto un comando straniero.
Pertanto e soprattutto per questo, Washington s'interroga sulla volontà di Londra di continuare l'alleanza militare che ha costruito con la Corona dal 1941. Naturalmente, non dobbiamo escludere che la Brexit sia una messa in scena dei britannici volta a rinegoziare a proprio vantaggio la loro "relazione speciale" con gli "americani". Tuttavia, è molto più probabile che Londra speri di espandere le sue relazioni con Pechino e Mosca, senza tuttavia lasciar perdere i vantaggi del suo accordo con Washington.
Le agenzie segrete anglosassoni
Durante la Seconda Guerra Mondiale e prima ancora della loro entrata in guerra, gli Stati Uniti hanno concluso un patto con il Regno Unito esplicitato dalla Carta Atlantica [1]. Si trattava per i due paesi di unirsi al fine di garantire la libera circolazione marittima ed espandere il libero scambio.
Questa alleanza si è concretizzata nell'accordo dei "Cinque Occhi", che attualmente è alla base della cooperazione tra 17 agenzie di intelligence di cinque diversi Stati (gli Stati Uniti e il Regno Unito, così come altri tre membri del Commonwealth: Australia, Canada e Nuova Zelanda).
I documenti rivelati da Edward Snowden dimostrano che la rete Echelon nella sua forma attuale è «un'agenzia di intelligence sovranazionale che non risponde alle leggi dei suoi propri Stati membri». Così, i "Cinque Occhi" hanno potuto sia spiare certe personalità, come il Segretario Generale delle Nazioni Unite o la cancelliera tedesca, sia condurre una sorveglianza di massa sui propri cittadini.
Allo stesso modo, nel 1948, gli Stati Uniti e il Regno Unito fondarono una seconda agenzia sovranazionale, l'Ufficio dei Progetti Speciali (Office of Special Projects) che controlla le reti stay-behind della NATO conosciute sotto il nome di Gladio.
Il professor Daniele Ganser ha dimostrato che questo Ufficio aveva organizzato numerosi colpi di Stato e operazioni terroristiche in Europa [2]. Se, in un primo momento, è stato osservato che la "strategia della tensione" mirava a impedire l'avvento al potere con mezzi democratici di governi comunisti in Europa, è emerso che essa puntava soprattutto ad alimentare la fobia del comunismo e a giustificare la protezione militare anglosassone. Nuovi documenti declassificati hanno dimostrato che questo dispositivo esiste al di fuori dell'Europa per il mondo arabo [3].
Infine, nel 1982, gli Stati Uniti, il Regno Unito e l'Australia crearono un'agenzia sovranazionale di cui le pseudo-ONG - la NED e le sue quattro filiali: ACILS, CIPE, NDI e IRI - formano la parte visibile [4]. Si è specializzata nell'organizzazione di colpi di Stato mascherati da "rivoluzioni".
Benché esista una letteratura imponente su questi tre programmi, non sappiamo nulla delle agenzie sovranazionali che li sovrintendono.
La "relazione speciale"
Gli Stati Uniti, che si sono proclamati indipendenti separandosi dalla Corona, si sono riconciliati con il Regno Unito solo alla fine del XIX secolo (la "Grande Riconciliazione"). I due Stati si allearono nella guerra contro gli spagnoli a Cuba, poi per lo sfruttamento dei loro commerci coloniali in Cina. Cioè quando Washington ha scoperto una vocazione imperialista. Nel 1902, un club transatlantico fu costituito per sugellare l'amicizia ritrovata, La Società di Pellegrini (The Pilgrims Society). È tradizionalmente presieduta dal monarca inglese.
La riconciliazione fu convalidata nel 1917 con il progetto comune di creazione di uno Stato ebraico in Palestina [5]. E gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco del Regno Unito. Da allora, i due paesi condividono vari mezzi militari, tra cui - da allora in poi - la bomba atomica. Tuttavia, durante la creazione del Commonwealth, Washington rifiutò di farne parte ritenendosi alla pari di Londra.
Nonostante alcuni scontri durante gli attacchi britannici contro l'Egitto (Canale di Suez) o contro l'Argentina (guerra delle "Falklands") o durante gli attacchi statunitensi contro Grenada, le due potenze si sono sempre strettamente sostenute.
La Corona ha assicurato il finanziamento dell'inizio della campagna elettorale di Barack Obama, nel 2008, facendo contribuire generosamente attraverso il trafficante d'armi iracheno-britannico Nadhmi Auchi. Durante il suo primo mandato, un gran numero di collaboratori diretti del nuovo presidente erano segretamente membri della Società dei Pellegrini, la cui sezione statunitense era allora presieduta da Timothy Geithner. Ma il presidente Obama se ne separò progressivamente dando l'impressione alla Corona di non essere stata ripagata. Le cose sono peggiorate con le sue dure parole contro David Cameron su The Atlantic [6], mentre la visita di Obama marito e moglie alla regina Elisabetta II per il suo compleanno non è bastata a riaggiustare i pezzi.
Il Commonwealth
Nel disimpegnarsi dall'Unione e nell'allontanarsi dagli Stati Uniti, il Regno Unito non si ritrova isolato da tutti, ma può di nuovo giocare il suo asso nella manica: il Commonwealth.
Abbiamo completamente dimenticato che nel 1936 Winston Churchill lanciò l'idea di integrare gli Stati attuali dell'Unione Europea all'interno del Commonwealth. La sua proposta finì per sbattere sui pericoli montanti e sulla guerra mondiale. Fu solo dopo la Vittoria che lo stesso Churchill lanciò l'idea degli "Stati Uniti d'Europa" [7] e convocò la Conferenza del Movimento europeo a L'Aia [8].
Il Commonwealth è una organizzazione di 53 Stati membri che ha una politica solo in materia di valori inglesi di base: uguaglianza razziale, Stato di diritto, diritti umani di fronte alla "Ragione di Stato" Tuttavia, propone ai suoi membri di sviluppare gli affari e lo sport. Inoltre, mette in comune degli esperti in tutti i settori.
La regina Elisabetta II, che è la Sovrana di 16 Stati membri, è il capo del Commonwealth (titolo elettivo non ereditario).
Che cosa vogliono i britannici?
Dal punto di vista di Londra, sono stati gli Stati Uniti ad aver rotto la "relazione speciale", cedendo alla dismisura (hybris) del mondo unipolare e conducendo in solitudine la loro politica estera e finanziaria. E questo lo hanno fatto in un momento in cui hanno cessato di essere la prima economia del mondo e la prima potenza militare convenzionale.
Da qui risulta che l'interesse del Regno Unito è quello di non mettere più "tutte le uova nello stesso paniere"; di mantenere gli strumenti comuni che possiede con Washington, mentre si appoggia sul Commonwealth e intreccia nuovi rapporti con Pechino e Mosca, direttamente o tramite la Shanghai Cooperation Organization (SCO).
In particolare, il giorno del Brexit, la SCO ha accettato due membri del Commonwealth, India e Pakistan, che non aveva ancora incluso fin qui [9].
Mentre ignoriamo tutto dei contatti che il Regno Unito ha già dovuto prendere con la Russia, si può già osservare il suo riavvicinamento con la Cina.
Lo scorso marzo, il London Stock Exchange, che gestisce le borse della City e di Milano, ha rivelato il suo progetto di fusione con la Deutsche Börse, che gestisce la Borsa di Francoforte, la camera di compensazione Clearstream e l'Eurex. Ci si aspettava che le due società decidessero l'operazione subito dopo il referendum sul Brexit. Questo annuncio è stato tanto più sorprendente in quanto le normative europee proibiscono formalmente questa operazione che equivarrebbe a creare una "posizione dominante". Essa presumeva pertanto che entrambe le aziende anticipassero l'uscita del Regno Unito dell'Unione europea.
Inoltre, il London Stock Exchange ha annunciato un accordo con il China Foreign Exchange Trade System (CFETS) e a giugno è diventata la prima borsa al mondo a quotare buoni del tesoro cinesi. Tutti gli elementi sono stati posti per fare della City il cavallo di Troia cinese nell'Unione europea a scapito della supremazia statunitense.

lunedì 4 luglio 2016

L’inizio della fine per l’Ue delle banche, dell’euro e del Ttip

Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla Ue. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika. Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia. Con questo voto muore subito il Ttip, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della Ue dell’Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della Ue perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader.
Anche in questi giorni c’è stato chi ha detto che si sta nella Ue per cambiarla, peccato che la Ue sia indisponibile a qualsiasi cambiamento vero e come tutte le tirannie può solo crollare, non cambiare. Nel no alla Ue è stato decisivo il popolo laburista, che Giorgio Cremaschinon ha seguito le indicazioni del suo establishment politico e sindacale, ma ha premiato l’impegno di minoranze coraggiose, come il glorioso sindacato dei ferrovieri che abbiamo conosciuto come Eurostop. Minoranze oscurate dai mass media, ma che sono state determinanti. Il popolo della sinistra britannica ha chiarito che sinistra ed europeismo oggi sono incompatibili e che la battaglia contro la Ue delle banche è stata egemonizzata finora da forze di destra perché la sinistra ufficiale ha abbandonato il suo popolo. Ora questo popolo ha bisogno di altri rappresentanti, che in nome della eguaglianza sociale e della democrazia e non dei mercati, ricaccino le destre dal terreno abusivamente occupato.
Ora si apre l’epoca del coraggio e tutto si rimette in moto, sarà dura ma questo voto mostra che l’epoca della globalizzazione senza diritti sociali è finita, sono gli stessi mercati a crollare sul potere di argilla che hanno costruito. Tornano i popoli, gli stati, le politiche economiche, i diritti sociali e del lavoro. Sarà dura e non sarà breve, ma c’è tutta una classe dirigente europea da rottamare. Cominciamo qui votando No al referendum di ottobre e mandiamo a casa Renzi e la sua controriforma costituzionale, voluta dalla Ue delle banche. E dopo la Renxit avanti con la Italexit. Grazie al popolo britannico che come nel 1940 dà il via al percorso di liberazione dell’Europa, gli Spitfire sono spuntati dalle urne.