sabato 26 aprile 2014

LA POCHEZZA DELLA CLASSE DIRIGENTE ITALICA

La competenza in politica è stato per tempo immemorabile il requisito essenziale perché un buon governante e/o legislatore sapesse non solo gestire la cosa pubblica e barcamenarsi tra le miriadi di aspetti tecnocratici, ma affinché la comunità territoriale di riferimento potesse confidare complessivamente nella sua azione di governance esecutiva e avesse la certezza che una data personalità potesse essere confacente per ottemperare a prefissati doveri. Infatti, specie nella circoscrizione dei confini italici, ove cultura ed eccelse doti intellettive hanno caratterizzato secoli di storia trovando il massimo lustro tra l’Umanesimo e il Rinascimento datati 1500, per intere decadi si è dibattuto ed appurato che il concetto di capacità andasse serenamente a braccetto con quello di onestà: Benedetto Croce asseriva con una magniloquente allocuzione che “il vero politico onesto fosse il politico capace”, dando per assodato che la rettitudine intellettuale sia alla base di ogni ambito professionale. Data teoria però pare sopitasi, soprattutto nel contesto italiota dal post seconda guerra mondiale e più specificatamente con l’inizio dell’era repubblicana, patendo la definitiva invalidità sul finire degli anni ’70: l’aggrovigliata professionalizzazione del mondo politico si è autonomamente anteposta a referenze di gran lunga più rilevanti e determinanti nell’ecosistema della rappresentanza, in cui non è fondamentale chi si candidi e quali peculiarità contraddistinguano il concorrente, bensì che il medesimo rispetti fedelmente le direttive diramate dai vertici del proprio schieramento e adempia alle sue mansioni da pigiabottone. Ciò è stato cardine di una logica votata al conseguimento del maggior consenso possibile in percentuale, credendo che la quantità fosse sinonimo di qualità, e alla burocratizzazione degli interessi, spesso in sintonia con i propositi delle lobbies, cosicché il popolo non riesca a trovare l’inganno e sia poco propenso alla partecipazione e alla comprensione totale di procedimenti contorti, destituendo il conclamato processo di semplificazione per rendere meno evidente e netto il divario fra la classe dirigente e i cittadini, ossia semplicemente tra l’elettorato attivo e quello passivo.
Questo ha contribuito alla alienazione del votante medio nei confronti di un apparato istituzionalista non dedito alla responsività e alle risoluzioni, ma alla globale abnegazione al servaggio dei poteri predominanti, nel nostro caso in questione al servilismo filiale e infimo ai Palazzi dell’Unione Europea, sui versanti politici, economici e monetari. Questa modo di interpretare la competizione politica ha avallato la recenti scelte di Forza Italia, che nel consunto delle liste europee per le urne di fine maggio avanza nomi del calibro di Alessandro Cecchi Paone e Ylenia Citino, i cui curriculum hanno all’attivo un’esperienza pari a zero e una molteplicità di ospitate non nei salotti dell’incisività attuativa romana, ma in quelli televisivi: un uomo di spettacolo e un’ex tronista per rispettare pedissequamente la tradizione dell’ultimo ventennio all’insegna dell’inoperosità e dell’inabilità in materia di diplomazia e di efficienza, per consolidare il primato dell’apparenza comunicativa (?) sull’argomentazione dei contenuti. Resta comunque pendente e lecito capire per quali ragioni siano state designate, tra le tante, entità così vacue e scadenti per un’arte nobile ma degradata. Dalla sua, il Partito Democratico prosegue nel catalizzare nelle sue fila palazzinari dall’espressività e dalla somatica rassicuranti, i quali però latitano nel merito della trattazione delle impellenti urgenze: da un lato per compiacere il capo, dall’altro per circuire e persuadere il proprio bacino d’utenza che una manovra finanziaria da 10 miliardi per rinsaldare le buste paga dei meno abbienti possa esimere l’operato del gruppo dalle dirette responsabilità sull’immobilismo nello scardinare il settore improduttivo della pubblica amministrazione, che disincentiva il lavoro invece che intensificarlo. Non tenendo in considerazione che il silenzio abbia regnato sulla programmazione del centrosinistra per la ritrattazione dei parametri e dei vincoli dell’UE. Temi che al contrario il Movimento 5 Stelle ha ampiamente affrontato, continuando però ad incappare nell’errore di sempre, cioè perseverare nella insicura e non certo valida – in senso di modalità – selezione dei papabili europarlamentari: è improbabile che un’ottantenne possa piazzarsi davanti ad un computer ed avere dimestichezza con il web ed è alla stregua complicato che la funzionalità dei vincitori incensati dalla rete possa essere chiaramente efficiente. Tuttavia c’è da riconoscere che sia l’unica delle tre forze parlamentari che conceda, dopo nove anni di liste bloccate, di scegliere i nomi degli aspiranti agli scranni.
Alla luce degli eventi odierni, giocare a vincere le elezioni non può più essere la priorità della partitocrazia, che è incontrovertibilmente chiamata a dare risposte repentine, stante che all’esterno delle sfarzose strutture di Strasburgo, Bruxelles e Lussemburgo il tessuto sociale si stia scucendo irreparabilmente, le radici del neo liberismo statutario e monarca del mercato perpetuino a seminare vittime e le diseguaglianze e le ingiustizie civili siano all’ordine del giorno. È bene e necessario che si inizi davvero ad agire sul frangente occupazionale ed economico, magari defilando soubrette e prime donne.

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