La competenza in politica è stato per tempo immemorabile il requisito
essenziale perché un buon governante e/o legislatore sapesse non solo
gestire la cosa pubblica e barcamenarsi tra le miriadi di aspetti
tecnocratici, ma affinché la comunità territoriale di riferimento
potesse confidare complessivamente nella sua azione di governance
esecutiva e avesse la certezza che una data personalità potesse essere
confacente per ottemperare a prefissati doveri. Infatti, specie nella
circoscrizione dei confini italici, ove cultura ed eccelse doti
intellettive hanno caratterizzato secoli di storia trovando il massimo
lustro tra l’Umanesimo e il Rinascimento datati 1500, per intere decadi
si è dibattuto ed appurato che il concetto di capacità andasse
serenamente a braccetto con quello di onestà: Benedetto Croce asseriva
con una magniloquente allocuzione che “il vero politico onesto fosse il
politico capace”, dando per assodato che la rettitudine intellettuale
sia alla base di ogni ambito professionale. Data teoria però pare
sopitasi, soprattutto nel contesto italiota dal post seconda guerra
mondiale e più specificatamente con l’inizio dell’era repubblicana,
patendo la definitiva invalidità sul finire degli anni ’70:
l’aggrovigliata professionalizzazione del mondo politico si è
autonomamente anteposta a referenze di gran lunga più rilevanti e
determinanti nell’ecosistema della rappresentanza, in cui non è
fondamentale chi si candidi e quali peculiarità contraddistinguano il
concorrente, bensì che il medesimo rispetti fedelmente le direttive
diramate dai vertici del proprio schieramento e adempia alle sue
mansioni da pigiabottone. Ciò è stato cardine di una logica votata al
conseguimento del maggior consenso possibile in percentuale, credendo
che la quantità fosse sinonimo di qualità, e alla burocratizzazione
degli interessi, spesso in sintonia con i propositi delle lobbies,
cosicché il popolo non riesca a trovare l’inganno e sia poco propenso
alla partecipazione e alla comprensione totale di procedimenti contorti,
destituendo il conclamato processo di semplificazione per rendere meno
evidente e netto il divario fra la classe dirigente e i cittadini, ossia
semplicemente tra l’elettorato attivo e quello passivo.
Questo ha contribuito alla alienazione del votante medio nei
confronti di un apparato istituzionalista non dedito alla responsività e
alle risoluzioni, ma alla globale abnegazione al servaggio dei poteri
predominanti, nel nostro caso in questione al servilismo filiale e
infimo ai Palazzi dell’Unione Europea, sui versanti politici, economici e
monetari. Questa modo di interpretare la competizione politica ha
avallato la recenti scelte di Forza Italia, che nel consunto delle liste
europee per le urne di fine maggio avanza nomi del calibro di
Alessandro Cecchi Paone e Ylenia Citino, i cui curriculum hanno
all’attivo un’esperienza pari a zero e una molteplicità di ospitate non
nei salotti dell’incisività attuativa romana, ma in quelli televisivi:
un uomo di spettacolo e un’ex tronista per rispettare pedissequamente la
tradizione dell’ultimo ventennio all’insegna dell’inoperosità e
dell’inabilità in materia di diplomazia e di efficienza, per consolidare
il primato dell’apparenza comunicativa (?) sull’argomentazione dei
contenuti. Resta comunque pendente e lecito capire per quali ragioni
siano state designate, tra le tante, entità così vacue e scadenti per
un’arte nobile ma degradata. Dalla sua, il Partito Democratico prosegue
nel catalizzare nelle sue fila palazzinari dall’espressività e dalla
somatica rassicuranti, i quali però latitano nel merito della
trattazione delle impellenti urgenze: da un lato per compiacere il capo,
dall’altro per circuire e persuadere il proprio bacino d’utenza che una
manovra finanziaria da 10 miliardi per rinsaldare le buste paga dei
meno abbienti possa esimere l’operato del gruppo dalle dirette
responsabilità sull’immobilismo nello scardinare il settore improduttivo
della pubblica amministrazione, che disincentiva il lavoro invece che
intensificarlo. Non tenendo in considerazione che il silenzio abbia
regnato sulla programmazione del centrosinistra per la ritrattazione dei
parametri e dei vincoli dell’UE. Temi che al contrario il Movimento 5
Stelle ha ampiamente affrontato, continuando però ad incappare
nell’errore di sempre, cioè perseverare nella insicura e non certo
valida – in senso di modalità – selezione dei papabili europarlamentari:
è improbabile che un’ottantenne possa piazzarsi davanti ad un computer
ed avere dimestichezza con il web ed è alla stregua complicato che la
funzionalità dei vincitori incensati dalla rete possa essere chiaramente
efficiente. Tuttavia c’è da riconoscere che sia l’unica delle tre forze
parlamentari che conceda, dopo nove anni di liste bloccate, di
scegliere i nomi degli aspiranti agli scranni.
Alla luce degli eventi odierni, giocare a vincere le elezioni non può
più essere la priorità della partitocrazia, che è incontrovertibilmente
chiamata a dare risposte repentine, stante che all’esterno delle
sfarzose strutture di Strasburgo, Bruxelles e Lussemburgo il tessuto
sociale si stia scucendo irreparabilmente, le radici del neo liberismo
statutario e monarca del mercato perpetuino a seminare vittime e le
diseguaglianze e le ingiustizie civili siano all’ordine del giorno. È
bene e necessario che si inizi davvero ad agire sul frangente
occupazionale ed economico, magari defilando soubrette e prime donne.
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