Nella
regione più ricca del paese, il potere economico non ha ceduto. Le
fabbriche sono rimaste aperte, con tutta la complicità dei
politici; mentre i corpi riempivano i camion militari. La devastazione
della Sanità pubblica ha presentato il conto. Ora, tocca alla rivolta» [1]
Certo, la madre di tutte le guerre è quella riforma del titolo V della Costituzione italiana
che, agli articoli 116 e 117, regola la suddivisione della potestà
legislativa per materia tra Stato e Regioni, che indica espressamente su
quali materie lo Stato ha competenza e su quali, invece, ha competenza concorrente con le Regioni.
La sanità è appunta la principale materia concorrente, in termini di bilancio e dunque di potere reale.
L’emergenza coronavirus ha riacceso i riflettori sui ‘limiti’ del Titolo V e rimesso al centro la necessità di una gestione della salute omogenea su tutto il territorio ed evitare, quindi, che una Regione decida autonomamente e in difformità rispetto alle altre.
In
questi giorni il dibattito politico è tornato a rispolverare l’antica
questione delle materie concorrenti, riproponendo la necessità di
intervenire sulla Carta per fornire, quanto meno, una “clausola di
supremazia”.
Tuttavia,
il parere di alcuni costituzionalisti, tra cui Valerio Onida, ex
presidente della Corte costituzionale, è che, nella Costituzione, sia
già previsto una sorta di clausola di supremazia, contenuta nel secondo comma dell’articolo 120, che recita: ”Il Governo
può sostituire un organo delle Regioni, delle Città metropolitane,
delle Province e dei Comuni nel Caso di mancato rispetto di Norme e
Trattati Internazionali o della Normativa comunitaria oppure di Pericolo
per l’incolumità e la Sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono
la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare
la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi
locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri
sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà
e del principio di leale collaborazione.“
Qualche
sera fa. Masimo Galli, illustre virologo, direttore del Dipartimento di
Malattie Infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, nel corso di un suo
intervento durante la trasmissione de La7 ”Ottoemezzo”, ha dichiarato: ”
Nei 3 anni in cui sono stato direttore generale del ministero della
Sanità ho cercato di gran lunga approvare il Piano Sanitario Nazionale,
ma non c’è niente di niente. Ogni Regione va per conto suo e non vengono
minimamente assicurati i Lea (Livelli
Essenziali di Assistenza) determinando una situazione di ineguaglianza
dei cittadini sul piano del diritto alla saluto “.
Qualche sera prima nel corso dell’intervista concessa a Diego Bianchi, a Propaganda Live, sempre su LA7, Gino Strada ha portato un duro attacco al tanto decantato quanto disastroso “modello Lombardia”: «Il primo errore – ha dichiarato Strada – è
stato quello di non proteggere gli ospedali. Se un ospedale si infetta
non è più in grado di curare i pazienti, in assoluto. I cardiopatici, i
diabetici, chi ne ha bisogno, non solo i malati di Covid.
Questa è la gente che ha devastato la sanità pubblica italiana, altro che modello Lombardia [… ] – ha aggiunto – Quando
si assiste a un fenomeno come quelli dell’ospedale di Alzano Lombardo,
non ci si può esimere da una riflessione su chi ha gestito la sanità in
Lombardia negli ultimi 20 anni. Questi anziani sono
stati lasciati morire nelle case di riposo senza nessuna umanità, senza
nessuna pietà. Tutto questo è moralmente, prima che giuridicamente, un crimine. La
Lombardia ha fatto con gli ospedali ciò che ha persino la camorra avuto
difficoltà a fare in questo modo così esteso e puntuale. È più facile
aprire una cardiochirurgia in Sudan che un posto letto in Italia ”.
La mattina del 16 aprile scorso la Guardia di Finanza si è recata presso il Pio Albergo Trivulzio e nella sede della Regione Lombardia. Cercavano documenti e cartelle cliniche, non soldi in contanti.
Un’inchiesta
che tecnicamente è molto più semplice perché non si cercano giri di
mazzette sulla base di qualche “pentimento” per cui serve un lungo e
laborioso lavoro sui bilanci societari e delle amministrazioni pubbliche
oltre che sui conti correnti.
No,
qui hanno sequestrato delibere regionali – atti ufficiali votati,
firmati e protocolli – che “chiedono” alle Rsa lombarde (le “case di
riposo”) di ricevere un po ‘di contagiosi da coronavirus poco gravi, in
modo decongestionare gli ambienti ospedalieri nel momento più drammatico
dell’emergenza.
Fontana
e Gallera, per tentare di difendersi, si arrampicano sugli specchi
dichiarando che non si tratta di un ordine ma di una semplice
“richiesta”, precisando che “In
caso di accoglimento, ci andavano in contagiati che poi riguardavano
gli ospitati in reparti separati, con personale “riservato”.
E’
un modo per dissimulare una verità semplicissima: nel lodatissimo
modello lombardo comandano gli accordi, ovvero, i politici di turno; e,
poiché ti finanziano con una suoneria di miliardi, per continuare a
mantenere il potere e il consenso, si circonda di dirigenti “fedeli”.
Gli
amministratori mediocri dispensano ordini e – in caso di errori,
fallimenti o illeciti – scaricano le colpe sui “dirigenti fedeli” alla
velocità della luce: è il lodatissimo “modello lombardo”.
Quel
modello che ha commercializzato la salute e la malattia dei cittadini,
creando intorno a ciò un sistema di corruzione su ampia scala, fin dai
tempi dell’ex governatore Roberto Formigoni (per tre mandati dal 1995 al 2013), membro di spicco del “partito” di Comunione e Liberazione.
Sempre
in Forza Italia, ma solido alleato di quella Lega che ha ereditato il
“sistema” da quando è Formigoni è stato costretto alle dimissioni,
inquisito e condannato per corruzione. Il suo successore, Roberto Maroni, nel 2017 ha abbondantemente tagliato il servizio sul territorio, quasi abolendo i medici di famiglia sostituti da «manager».
E
così può succedere di mettere il contagiato da coronavirus “in
prossimità” di anziani non autosufficienti, quando già era noto che
questa era la fascia di età “privilegiata” dal virus, causando 300 morti
soltanto alla “la Baggina” e al Don Gnocchi.
Un
massacro che mette sotto l’accusa proprio il “modello” della sanità
lombarda. Non solo per quanto riguarda lo squilibrato rapporto tra
pubblico e privato, ma soprattutto la “logica” del “sistema” in quanto
tale.
Ranieri Guerra (OMS) lo ha messo, in questi giorni, nero su bianco: “Bisogna pensare alla riorganizzazione territoriale del sistema sanitario. Quello che non ha funzionato in Lombardia e invece sì in Veneto”.
Sotto
esame sono 30 anni di governo della destra, a tutto vantaggio dei
privati, ai quali sono stati regalati miliardi di fondi pubblici
puntando tutto sull’assistenza ospedaliera (la cura della malattia),
anziché su quella territoriale (la prevenzione): “La
Lombardia ‘eccellenza ospedaliera’, una bandiera in tutto il mondo,
ma è stata quasi totalmente sguarnita dal punto di vista
dell’assistenza sul territorio. E se può sostenere il sistema che regge
sul fronte della cura, non può fare altrettanto sul fronte della prevenzione”.
Ed è vero:
una rete capillare di medici di base sul territorio, in grado di “fare
filtro” e registrare per tempo la diffusione di patologie inconsuete
nella popolazione, è stata quasi del tutto smantellata.
E viene persino rivendicato! Nell’estate del 2019 il leghista “moderato” Giorgetti (n. 2 di Salvini) al Meeting di Comunione e Liberazione, dichiarò bellamente: “Nei
prossimi cinque anni mancheranno 45mila medici di base. È vero; ma chi
va più dal medico di base, senza offesa per i professionisti qui
presenti? Nel mio piccolo paese vanno a farsi la ricetta medica, ma chi
ha meno di cinquant’anni su Internet e cerca lo specialista. Il mondo in cui è presente il medico di famiglia è finito”.
Ma
ancor prima che Giorgetti pronunciasse quelle parole, il sorpasso del
privato sanitario sul pubblico era già avvenuto, e da un pezzo. Nella
diagnostica (Tac, ecografie, risonanze, endoscopie, ecc), già nel 2015
il valore delle prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato
equivaleva al 52% sul valore totale delle prestazioni. [2]
Secondo
uno studio della Bocconi (!), tra il 1997 e il 2006, la Lombardia ha
registrato un record di crescita degli ospedali privati. Da 55 che erano
nel 1997, sono diventati 73 nel 2006 (+18). Ciò, mentre nel resto del
paese, nello stesso periodo, si è avuta una netta contrazione.
Inoltre, secondo il ministero della Salute (anno 2016), in Lombardia su 1., 931 euro di spesa sanitaria pro capite totale, quasi il 30% finanzia le strutture private (ospedali, ambulatori, laboratori). Nessun’altra regione come la Lombardia.
Lo
sbilanciamento lombardo a favore del privato è evidente anche sul piano
dei ricoveri relativi: nel 2017, su 1.441.657 ricoveri totali, il
privato ne ha eseguiti 494.501, il 35%, per i quali la Regione Lombardia
ha versato ai privati, a titolo di rimborso, circa 2,1 miliardi, cioè
il 40% dei 5,4 miliardi stanziati a bilancio.
Ma
qui incontriamo un dato cruciale che spiega, in un sol colpo, il cuore
del tanto decantato “modello lombardo”: come mai se le strutture private
hanno completato il 35% dei ricoveri, poi hanno incassato il 40% dei
fondi destinati alla sanità?
Semplice: i servizi offerti dai privati costano di più rispetto alle prestazioni del pubblico.
Stesso
discorso vale per visite ambulatoriali ed esami. Nel campo della
diagnostica strumentale e per immagini, nel sorpasso del privato sul
pubblico era già presente nel 2015. Se poi consideriamo il valore delle
prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato sul valore totale
delle prestazioni pubbliche e private nello stesso ambito, il privato
incide per il 52%. [3]
Solo
a Milano e provincia sono presenti 57 strutture di ricovero ordinario e
day hospital. 26 sono pubbliche, 31 a gestione privata (54,4%).
In
Lombardia gli IRCSS privati (istituto di ricovero e cura a carattere
scientifico) sono circa il triplo dei pubblici (14 contro 5; fonte:
ministero della Salute).
Nel
2018, in una struttura privata che non funziona con il servizio
sanitario, una risonanza magnetica muscoloscheletrica costava ai
cittadini circa 90 euro, ma il rimborso che la Regione Lombardia ha
garantito nello stesso anno ai laboratori privati convenzionati era di
169 euro: l’89% in più!
Questo è il “modello lombardo” che ogni anno può contare su circa 19 miliardi di soldi pubblici: una cifra enorme.
La
stessa Corte dei conti ha stabilito che – dal 2012 al 2017 – sei
Regioni del Nord hanno ottenuto un incremento medio della loro quota del
Fondo Sanitario Nazionale pari al 2,36%, mentre le regioni del Sud, già
beneficiarie di cifre molto più piccole, dal 2009 in seguito, hanno
visto lievitare la loro parte solo del’1,75%.
Dunque,
dal 2012 al 2017, le regioni più ricche (Liguria, Piemonte, Lombardia,
Veneto, Emilia Romagna e Toscana) hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni
di euro in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata,
Campania e Calabria.
Ecco
come si spiega il progressivo divario tra nord e sud: mentre al Nord
sono stati trasferiti 1.629 miliardi in più, nel 2017 rispetto al 2012,
al Sud sono stati dati solo 685 milioni in più. Nel 2017 il 42% del
totale delle risorse finanziarie per la sanità è stato assorbito dalle
Regioni del Nord, il 20% da quelle del Centro, il 23% da quelle del Sud,
il 15% dalle Autonomie speciali.
Ecco perché, un attimo dopo che l’assessore al Welfare regionale Giulio Gallera, aveva dichiarato che “in Lombardia non si può fare il tampone a tutti
”, si arriva a sapere che all’ospedale San Raffaele di Milano i tamponi
ci sono e che vengono fatti, ma pagando 120 euro. Così facendo, i
cittadini possono sapere in breve tempo se sono positivi o meno al Coronavirus. Tamponi a pagamento, ma per Gallera non era possibile farne.
E
non sarebbe il solo San Raffaele ad offrire tale servizio. In altre
strutture i tamponi possono essere pagati anche 240 euro.
Una
notizia sconcertante, se si pensa che infermieri, medici e altro
personale ospedaliero, costantemente impegnati nell’arginare la pandemia
da Covid, sono stati tra gli ultimi a poter fare il tampone e non tutti sono ancora testati.
Il Gruppo San Donato (GSD)
è il più grande gruppo sanitario privato d’Italia; solo a Milano e
provincia possiede 7 strutture di ricovero e cura, 3 delle quali sono
specializzate in sistemi di ricovero e cura a carattere scientifico
(Irccs), tra cui proprio l’Ospedale San Raffaele.
Nel
2017, solo per i ricoveri, il gruppo San Donato ha incassato il 35% del
totale dei finanziamenti destinati al settore privato-convenzionato.
Una magnifica torta che fa gola a molti.
Ma che c’entra Angelino Alfano?
Angelino è di quelli che non si ferma e vuole sempre provare emozioni
nuove. E così dal luglio del 2019 è a capo proprio del GSD, con capofila
Policlinico San Donato, che controlla strutture ospedaliere come il San Raffaele e il Galeazzi, oltre ad altri 19 ospedali.
Con
lui c’è anche il manager svizzero-tunisino Kamel Ghribi, vice
presidente nonché numero uno della G SD Middle East, il “braccio” della
holding sanitaria in Medio Oriente. La GSD holding realizza 1,7 miliardi
di euro di fatturato nel 2018. Nel 2019, entra alla GSD un altro nome di peso: si tratta di Federico Ghizzoni,
ex amministratore delegato di Unicredit e attuale numero uno di
Rothschild Italia. Una garanzia che la priorità sia la tutela della
salute…
Ora
il gruppo San Donato è alla ricerca di partner internazionali di peso e
punta molto in alto: l’espansione all’estero, medio oriente e Emirati
Arabi in primis, ma anche Russia e Africa.
E
dunque Alfano, dopo aver abbandonato la carriera politica mantenendo
tuttavia ottimi rapporti con Berlusconi, nel settembre 2018, entra nello
studio legale Bonelli per sfruttare la rete di conoscenze maturate nel
periodo in cui era ministro degli Esteri. Primo incarico, la creazione
di un Focus Team in Egitto su Diritto internazionale pubblico e Diplomazia economica,
insieme all’ex politico locale Ziad Bahaa-Eldin, già a capo
dell’autorità finanziaria egiziana sotto Mubarak, quindi vicepremier
dopo il colpo di Stato di Al Sisi.
Ecco come funziona il “modello lombardo” ed ecco chi ci guadagna.
I
bombardamenti di Milano durante la seconda guerra mondiale furono tra i
più pesanti tra quelli subiti da una città dell’Italia settentrionale
da parte delle forze “alleate” nel corso della seconda guerra mondiale.
Nel complesso le incursioni trovate su Milano e provincia causarono
allora circa 2000 vittime. Dall’inizio dell’epidemia da Covid19 ad oggi, in Lombardia sono morte 11. 851 persone, 3 volte quelle di tutta la Cina.
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